creare nelle città - nei rapporti tra le forze sociali, tra i sistemi della politica, dell'economia, della cultura - le condizioni più favorevoli all'innovazione, ovvero il maggior grado di libertà... ... _e9i_comuni~~zione. _Si_tratta di q~esto: una citta e tanto p1u una citta quanto piu permette la formazione di nuovi composti culturali; ho ripreso e un po' sviluppato quest'idea da Ulf Hannerz (A. Bagnasco, "Introduzione", U. Hannerz, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, 1992, ndr). Che èosa è stata la città tradizionalmente? Un grande luogo d'innovazione culturale. E perché? Per due condizioni: una perché consentiva l'esperienza dell'eterogeneità, della diversità ~he, in determinate circostanze, permette anche la formazione di una sintesi culturale alla quale nessuno aveva mai pensato. Mescolando le carte, a uno viene in mente che può mettere insieme A e B e questa, magari, può diventare una innovazione produttiva. La seconda condizione è che la città sia larga tanto che abbastanza persone giochino quel gioco. Questo è, da sempre, il segreto culturale della città in quanto città, la sua cifra culturale. Credo che non solo non dobbiamo mai dimenticarlo, ma dobbiamo cercare di valorizzarlo al massimo. Una città troppo semplice non respira, intisichisce, nel momento in cui il suo schema non funziona, non ha alternative: esattamente Torino. Nel momento in cui è finito un modello, la società torinese non si mostra capace di comunicazione né di valorizzare le differenze. Localismo e universalismo S'è cercato, finora, di tracciare a grandi linee un'immagine di Torino oggi, tenendo sullo sfondo un tema di carattere generale e quanto mai attuale: la riscoperta della città come formazione sociale, in certa misura, autonoma. Se ricordiamo la nascita delle città - del tipo che consideriamo: la città occidentale, come la tipizzava Max Weber '--a quel tempo, è stato fondamentale possedere una nozione di universalismo, parlo di quello condensato nel punto di vista del cristianesimo. Quell'universalismo era costitutivo di ogni determinata città: ogni città si costituiva intorno a una cattedrale e a un municipio, a· un 'idea del fare chiesa e, insieme, società, a un 'idea dell'uomo-cittadino e dei suoi rapporti sociali e civili, e così via. Ho l'impressione che l'odierna riscoperta della città e del locale avvenga in modo un po' rozzo - in politica soprattutto, negli studi c'è più complessità - emergendo l'idea, perlomeno ingenua se non aberrante, che la società del futuro possa consistere in una somma di aggregati locali, dimenticandosi che, anche al solo fine di determinare un luogo sociale, è necessario un elemento di universalismo che dall'interno contribuisca a costituirlo, figuriamoci, poi, quando questo luogo deve relazionarsi al mondo. · Non c'è dubbio che sia così, ma vediamo come stanno, oggi, le cose, considerando la società composta, semplificando, da tre livelli: l'economia, la cultura, la politica. L'economia ha assunto un raggio d'organizzazione globale - i mercati si planetarizzano ed è difficile regolarli: passano sopra le leggi di ogni singolo stato, spostano capitali da una parte all'altra senza che nessuno se ne accor~a e così via; la cultura diventa un elemento 1dentitario, di conservazione dell'identità - l'orizzonte dell'integrazione si è rimpicciolito, con fenomeni di regionalismo, localismo ... ; la politica è ancora fortemente centrata sugli stati nazionali, che sono diventati «troppo grossi per certe cose e tropj)O piccoli per altre» . c...?uestaè la tendenza delle società contemporanee, che ha superato il momento in cui una certa congruenza di questi assi si era trovata, per il bene e per il male, negli stati nazionali. In questo cambiamento epocale di scena, c'è chi dice: il locale è esploso, non esiste più, non può essere più un elemento d'integrazione; ci sono altri, invece, che mostrano che, tutto sommato, ci sono dei locali che continuano ad avere elementi, non solo culturali, d'identità, d'integrazione. Allora, è vero che c'è stato un momento della storia in cui le città hanno espresso una cosa estremamente singolare e contraddittoria, perché per poter costituire le città bisognava portare avanti i valori dell'universalismo, ma, al tempo stesso, ciò avveniva in un modo separato: la nostra città per rapporto al contado, la nostra città per rapporto alle altre città e così via. Questo è il punto importante sul quale ragionare: dobbiamo stabilire un substrato essenziale di universalismo per rapporto al quale, al tempo stesso, provare a vedere dei particolarismi giusti, cioè possibili, praticabili, ragionevoli. Però, il punto è proprio quello dell'universalismo minimo necessario, e qui abbiamo uno slittamento del concetto di cittadinanza, che quando nasce si riferisce proprio alla città, adesso neanche più allo stato, perché abbiamo perso quell'essere centrati sullo stesso raggio dei tre livelli che dicevo prima. C'è, quindi, un problema che è proprio del nostro tempo e che nessuna città può risolvere. Le città però possono essere di nuovo un luogo estremamente interessante di sperimentazione, perché, per definizione, si portano dietro dall'orisine il problema della cittadinanza come umversalismo e come cittadinanza concreta di questa città, qui, oggi, con questa gente. È per questo che dicevo, a proposito di San Salvario: mi sembra più interessante stare a vedere come si risolveranno o non si risolveranno le tensioni, stare a vedere le cose che si producono in una città concreta su questo problema, già sapendo che al massimo, possono solo affermare qui la cittadinanza. Per costruirla realmente, nel mondo allargato di oggi, la città continua a essere un luogo concreto di sperimentazione. E su questa città, Torino, lei è ottimista, perlomeno come luogo dove osservare e sperimentare? Sì, perché continua a essere una città nel guado, per molti aspetti difficile, però voglio vedere come sarà San Salvario fra tre-cinque anni e forse ci accorgeremo eh.e ha inventato qualcosa. ♦ LA Cl1TÀ
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