Dove nasce il disagio giovanile Paolo Crepet . Scrivere di disagio giovanile induce una sensazione oppressa da un'ovvietà inibente. Eppure non si può far finta che quel mondo che tutti i giorni ci appare nelle cronache dei giornali e·della televisione non ci appartenga, né si può affermare - con sicumera degna dei peggiori trinariciuti - che tutto sia già stato detto e scritto. Se è vero ciò che dice Peter Bichsel nel suo Il lettore, il narrare (Marcos y Marcos 1989), ovvero che "le parole che non si possono mettere al plurale sono p~role particolarmente patetiche, da usare con ca\ltela", dobbiamo allora convenire che "gioventù" sia una di quelle. La cautela deve guidare chi, come me, pretende di avvicinare questo mondo per capirne le ragioni e spiarne le suggestioni emotive senza per questo volerlo ridurre nelle strette pieghe di una grammatica psicologica o sociologica. Patetica, la parola "gioventù", perché quel mondo a volte sembra volersi rappresentare davvero come appare spiegato dai media: patetico può infatti sembrare quello sforzo di voler vivere esageratamente come in un dilatato spot pubblicitario, quel tentativo di introdurre ostinatamente l'estremo nel proprio quotidiano, a volte irrinunciabilmente sbiadito e melenso. Eppure qud disagio - ovvero tutto ciò che non attiene all'inquietudine e all'indeterminatezza di quella condizione di confine in cui si esaspera il conflitto tra scelta e identità, dove cioè per l'adolescente si apre il divario tra il non sapere chi si è e la paura di perdere chi si potrà essere - non nasce contemporaneamente ai fenomeni che quotidianamente registriamo e che hanno per protagonisti i giovani, ma in un tempo più rarefatto e lontano, durante cioè gli anni della loro infanzia. Qui si registra una prima possibile interpretazione faisata che nasce dalla constatazione che l'osservato dipende dalla quantità e dalla qualità dell'osservatore. Trent'anni fa il numero dei neuropsichiatri infantili, degli psicologi del- !' età evolutiva, degli psicopedagogisti e di quant' altri si occupavano di infanzia e di adolescenza era enormemente più ristretto di quello dei professionisti che sono attualmente al lavoro. Ciò compo.rta un banale quanto importante effetto distorcente sulla percezione del problema: se è vero che oggi si possono meglio e più precocemente riconoscere alcune forme di sofferenza psichica che un tempo venivano ignorate o sottovalutate, è altrettanto scontato che si corra il rischio di tradurre in termini psicopatologici espressioni e comportamenti che esulano da quelle competenze specifiche. Il risultato è dunque l'aumento del numero dei "falsi positivi" ovvero di quei casi che vengono erroneamente classificati all'interno della nosografia ufficiale e che possibilmente ricevono· trattamenti farmacologici e psicologici senza che ve ne sia minimamente bisogno. Questo "artificio statistico" può dunque generare grossolani errori di valutazione riguardo le dimensioni del fenomeno, soprattutto quando si cerca di affermare, come spesso riportano i giornali più in cerca di stupire, che le forme di disagio giovanile stanno seguendo, in questi ultimi anni, un andamento in crescita. A tutto ciò si deve aggiungere la cronica carenza di dati empirici raccolti su grandi. aree geografiche e per lunghi periodi: gli unici in grado di dimostrare le effettive dimensioni del fenomeno e la sua variabilità nel tempo. D'altra part~, se rossiam? utilizzar~ la d1meils10ne dei budget d1 ricerca come termometro dell'interesse dei committenti, allora sarà utile sapere che a fronte di qualche centinaio di milioni messi a disposizione da parte dei Ministeri compe- . tenti per indagare la condizione giovanile, vi sono molti miliardi utiizzati dalle aziende che producono beni di consumo per i giovani: la Nike, per esempio, possiede uno dei giacimenti informativi più completi e asgiornati attualmente esistenti, mentre il Ministero de!Ia Sanità ha recentemente pubblicato un'indagine nazionale sul disagio giovanile basàta su un campione di soli 160 soggetti! Dunque non si può che concludere che nonostante tutto il gran parlare e il comune sentimento di dolore riguardo la triste condizione di vita di molti adolescenti, l'interesse reale manifestato dalle istituzioni riguardo la hecessità di conoscere e· di capire è pressoché zero: i nostri ragazzi non sono interessanti in quanto persone, quanto semmai in quanto solidissimi e controllatissimi buyers. Ciò premesso, vorrei affrontare, solo a titolo di esempio, una delle trasformazioni più evidenti che hanno scosso il mondo dell'infanzia per utilizzarla in quanto esemplificativa di uno di quei fattori predisponenti allo stato di disagio evidenziato nella popolazione giovanile: tale fattore ~iguarda i processi_ di maturaz10ne. Pr_oviamo a p_ensare di compiere un espenmento assai crudele. Ipotizziamo di prendere un bambino che frequentava la scuola elementare negli anni Cinquanta e di introdurlo in una classe di oggi: con osni probabilità, la maestra chiamerebbe lo psicologo in quanto giudicherebbe quel bimbo. ipodotato: egli, infatti, sarebbe, con ogni probabilità, cognitivamente lento e relazionalmente inibito. È evidente che non si tratterebbe di un deficit, ma solo dell'evidenza di quanto siano cambiati dal punto di vista co~nitivo e relazionale i bimbi di oggi. rispetto a quelli di solo trenta o qu.arant'anni fa e ciò è avvenuto grazie all'impressionante accelerazione che hanno subito i loro processi maturativi. Per convinc,ersene basterebbe pensare alla diversa intensità desii stimoli luminosi e sorn:m: un tempo le case erano semibuie, ora sono illuminatissime e hanno televisori, musica stereofonica, computer. Un tempo i giochi erano costruiti di materiale l'QQ
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