non paritario. La Brooklyn disegnata da Lee ha le caratteristiche di una città in proprio, non di una propaggjne appesantita dallo stigma di una metafora socioculturale di segno negativo. Se, fuori dai copioni dei suoi film, si va poi a vedere guale rapporto il regista abbia mstaurato con il suo borough,· si fanno delle scoperte interessanti. Nell'area di Brooklyn, uno dei quartieri maggiormente in via di gentrification, di recupero e sviluppo, è proprio quel Fort Greene che Lee ha scelto come quartier generale della sua compagnia di produzione, la "Forty Acres and a Mule", affiancata da una proprietà immobiliare in rapida espansione e dal negozio omonimo dove si vendono gli infiniti gadget proliferati dalla sua cinematografia. Spike, rampollo di una famiglia di classe medio-alta e di solida cultura, sta imponendo la sua. non ideologica idea di "nero è· bello", con l'effetto (collaterale ma non secondario) di imporre anche una revisione dei termini del tradizionale rapporto tra "dentro" e "fuori". Grazie a lui e ad alcuni altri autori, oggi il cinema è costretto a rinunciare alla Bròoklyn dei clich.és o del passato e a riguardarla cogliendone sia gli aspetti di novità negativa (si pensi alla Little Odessa di James Gray, 1994), sia i tratti di ordinaria e affascinante quotidianità. In questa direzione il lavoro forse più interessante e originale visto sinora è Blue in the Face (1995), la puntata numero due della storia brooklynese scritta da Paul Auster e diretta da Wayne Wang. Prodotto con quattro soldi, utilizzando gli scarti di moviola del più edificante, çonsolatorio e sentenzioso Smoke (1994 ), questo film è Brooklyn allo stato puro, indisciplinato, irresisistibile storytelling da bar o da bottega senza neppure la rete di protezione di un filo conduttore narrativo o di un intreccio principale. Il film è nei personaggi che lo attraversano raccontando piccole storie qualsiasi, pensieri in libera uscita, quelle minuzie da filosofi popolari che, a seconda dell'abilità del narratore, possono dir~ dello spirito del posto più e meglio di qualsiasi grande racconto o analisi sociologica. Se in Smoke c'è un forte residuo dimostrativo, un'evidente e un po' doveristica ansia di raccontare i casi significativi e l'umanità di un quartiere facendo narrativamente tornare tutti i conti, Blue in the Face è uno schietto, velocissimo, gratuito gioco di verità mediato da un esilarante fuoco di fila di battute. Un po' come se la macchina fotògrafica, che in Smoke Auggie/Harvey Keitel usa per scattare ogni giorno alle otto in J?Untodel mattino la stessa mai identica istantanea, si fosse trasformata in registratore e posizionata all'ingresso del negozio di sigari di Au~gie. Sul suo nastro restano impresse le micro-performances verbali di tanta gente di passaggio, ognuno con la sua personale idiosincrasia linguistica, il suo accento, con le sue manie e fissazioni, con i suoi tic e ritmi narrativi. Chi ARTE E PARTE La guerra infinita di Kusturica Giulio Marcon Underground di Kusturica non è un film di parte né una lettura contingente delle ragioni della guerra in Bosnia Erzegovina e tra Serbia e Croazia: è una metafora sul "paese che non c'è più" - la Jugoslavia - e sulla sindrome balcanica di odio e violenza che attraversa i secoli. La metafora che Kusturica affida, con grandissimo talento, ad una mole imponente di invenzioni e trovate stilistiche, ad un ritmo forsennato di narrazione· grottesca, onirica, fantastica non sempre trova eguale levatura nelle idee e .nella lettura, troppo riduttiva, dell'universo umano che sta dietro {l sipario della guerra, Ma rimane un àffresco straordinario dell'incubo violento 'di quelle terre. Il "paese che non c'è più" alla fine del film diventa un'isola felice - di morti e resuscitati - che si stacca dalla terraferma barbarica. Come l'arcipelago europeo di centinaia di migliaia - ormai quattro milioni - di jugoslavi che oggi sono la diaspora di un popolo che rimanendo legato a quel passato ( non certo sempre felice e riavesse visto il primo episodio della serie si ricorderà che, verso l'inizio, lo scrittore Paul Benjamin/William Hurt racconta di come si faccia a pesare il fumo. Si prende un sigaro, lo si pesa, poi lo si accende e lo si fuma, stando attenti a far cadere la cenere sul piatto della bilancia su cui lo si è appena pesato. Alla fine dell'operazione basterà osservare il peso della cenere e sottrrarlo dal peso originario. La differenza tra i due pesi è il peso del fumo. Ecco, Blue in the Face è come il eeso di Smoke. Lo scarto tra 11 sigaro intero (film n.1) e ciò che ne resta (film n.2) è il piacere del fumo (o del cinema). Il "dentro" è qui. ♦ spettoso dei diritti e della dignità umana) ha tradito, ovvero disertato. È restata fedele al passato del proprio paese d'origine, non accettano l'imposizione di un'.appartenenza etnica di sangue. Non a caso è il tradimento l'accusa rivolta a Kusturica, musulmano di Sarajevo, che prima che scoppiasse il conflitto ha deciso di andarsene, come tanti. La guerra sconfigge tutti. E dice Kusturica "con la guerra non vince la giustizia, ma solo la forza". Ed è la forza brutale sanguinaria gratuita ad essere filo conduttore di questo lavoro. Il suo selvaggio, crudele, ingiustificato che oltrepassa sentimenti e parentele, pietà e perdono. Ricorda Kusturica: "Ci sentiamo un po' come dei selavaggi proveniendo da un paese che ha rappresentato il punto di divisione tra mondo occidentale da quello orientale... e per me rappresenta anche l'ultima giungla". Non c'è speranza nella giungla di Underground, non c'è ris_catto, né riconciliazione - se non nella morte e nel passato - perchè, dice ancora Kusturi-
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