na? La fantasia di Carpenter, col senno di poi, non è che la previsione spettacolare di un clima d'incubo che era andato lentamente crescendo nel corso degli anni Settanta e Ottanta. C'è un'America che le politiche democratiche del Welfare State e le lotte emancipazionistiche delle cosiddette minoranze etniche, razziali, sessuali, hanno profondamente disorientato e allarmato. Molti - i silenziosi più - non hanno capito che tra l'emergenza di nuovi e parlanti soggetti sociali e la deriva economica e morale del paese non c'è alcun rapporto di causa ed effetto. Il contrattacco è in fusione e, se/er alcuni anni si limita a agire sulle sovrastrutture, oggi parla e opera attraverso la nuova destra repubblicana di New Gingrich, Patacky, Jesse Helms e le loro drastiche pratiche disciplinari. È da quest'area che parte la proposta di "marchiare" a vita sieropositivi e malati di Aids o di relegarli su un'isola-lazzaretto in modo da proteggere la parte "sana" del paese. Da qui arrivano la riproposizione (e vittoria) della pena di morte come strumento "risanatorio" del conflitto sociale. Qui, con subdola efficacia, si elabora un programma, politico prima ancora che economico, capace di trasformare l'intervento governativo da "guerra contro la povertà" in "guerra contro i poveri". Ma torniamo a New York e al suo dentro/fuori che è già e sempre un alto/basso. Perché il meccanismo non si inceppi bisogna oliarne bene gli ingranaggi. Innanzitutto bisogna lavorare sulla com1;rnrtmentazione e la separaz10ne. Nessuno deve muoversi in libertà sull'intero territorio metropolitano, nessuno deve averne una conoscenza di prima mano, nessuno deve considerarlo come un insieme. Vanno dunque, in positivo e in negativo, alimentati dei miti e tenute in funzione alcune soglie certe. Detta più bruscamen te, del Bronx bisogna continuare a parlare come di Fort Bronx, l'avamposto dove i poliziotti vanno a morire per difendere il territorio dei bianchi; di Brooklyn come di un'entità indifferenziata popolata di italo-americani un po' mafiosi e un po' rampanti, periferia della periferia dove vivono quelli che non ce l'hanno fatta a conquistare New York. Il New Jersey deve restare un fuori cam_po, terra per perdenti e sconfitti, gente con le pezze al culo incorporate; mentre Queens e Staten Island proprio non risultano, non sonù riusciti neppure a entrare nell'immaginario cinematografico. Stereotipi su stereotipi, un mucchio di sentito dire non si sa da chi. Questo, infatti, è il punto, ma a~che il punto di debolezza dell'intero sistema: le altre New York sono state raccontate, ma si sono poco raccontate. Non hanno, fino a tempi recentissimi, avuto voce per dire di sé, da sé. Sembra preistoria, ma intorno ai primi anni Ottanta la grande New York viene attraversata da una ventata di trasgressività creativa che, nonostante tutti i tentativi di criminalizzazione e repressione messi in atto dall'amministrazione comunale, si dimostra incontenibile e innocua. Non varrebbe neppure la pena di riparlarne, se non fosse per il significato inedito e dirompente della sua fenomenologia, per la sua capacità di mettere in crisi il meccanismo del controllo sociale rendendone trasparenti il piano e gli snodi. Al "divide et impera" razziale e di classe che per decenni ha permesso alla città di non ri/conoscersi come corpo unico e che l'ha fatta languire nel'inconsapevolezza e nell'illusione che il conflitto si risolva attraverso un'ingegneria della segregazione fatta di steccati, ghetti e quartieri alti, periferie e inner cities rispondo inventandosi uri linguaggio e un sistema di comunicazione imprevisti. Servendosi "parassitariamente" di quel sistema arterioso che è l'underground di una grande città, africani-americani e latini, per lo più adolescenti e maschi, si mettono a usare le carrozze della metropolitana come tabloid su cui scrivere le loro storie e la loro versione dei fatti. Trasformati in murali mobili e ubiqui, i treni diventano uno straordinario mezzo di diffusione dele idee, collegamento sociale, svelamento. I nomi, il gusto estetico, il punto di vista dei ragazzini portoricani di East Harlem o dei neri della BedfordStuyvesant e del South Bronx vengono clamorosamente alla ribalta, attraversando la vasta area metropolitana di New York - da nord a sud, da est a ovest - a bordo dei convogli metropolitani che è impossibile arrestare, occultare, togliere di mezzo. La fascia giovanile delle cosiddette minoranze urbane ha trovato modo di darsi voce e di farsi ascoltare. Non interpretare. Il loro discorso circola e si riproduce, moltiplicaridòsi per imitazione e soprattutto proponendosi come modalità espressiva adattabile, flessibile, locale. All'assolutezza omologatoria del discorso dominante, le minoranze rispondono affermando "capillarmente" la loro specificità e mettendosi a raccontarne. Da qui all'affermazione di una c!;iemato~rafia di "min~- ranza , poco mteressata a mimetizzarsi e a compiacere la vocazione neutralizzante del mercato, il passo è breve. Spike Lee, per esempio, non si spiegherebbe senza l'apprendistato di quegli anni. Il suo primo film, che è anche la sua tesi di laurea presso il dipartimento di cinema della New York University, è un corto di sessanta minuti interamente girato a BedfordStuy, il durissimo e miserabile ghetto nero di Brooklyn. Vi fa da set la bottega del barbiere Joe, uno dei tanti street corner stores che funzionano da punto di riferimento territoriale, luogo di ritrovo per la comunità locale, ambiente per piccoli traffici non sempre puliti. Lo street corner store, il negozio all'angolo, è un crocevi~ dove si traffica in beni, relazioni e chiacchiere, il luogo ideale in cui praticare l'arte dello story telling. A ben vedere, in· molti dei successivi lavori di Lee, da Fa' la cosa giusta (1989) al recente Clockers (1995), la bottega (diner, pizzeria o emporio) ricompare come scenario ideale - e realistico - per quelle storie di quartiere che stanno a cuore all'autore. Lee e molti filmakers newyorkesi delle nuove generazioni hanno optato, infatti, per una sorta di realismo narrativo caratterizzato da un dichiarato e "tendenzioso" interesse localistico. Non per amore di marginalità, ma semmai per la ragione opposta. Il fenomeno è recente, ma significativo: è grazie a gente come Lee che l'asimmetria di sguardi tra un presunto "fuon" povero e senza speranze e un presunto "dentro" ricco e desiderabile, immodificabili e tra loro irriducibili, lascia il posto a uno sguardo meno unilaterale, se Y.QQ.
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