La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 11 - gennaio 1996

ARTE E PARTE New York di là dal ponte Maria N adotti New York, a differenza di tante metropoli contemporanee, ha una struttura medievale. Se si potesse applicare alla città quella strana scienza ideologico-empirica che è la fisiognomica, verrebbe da dire che la sua patologia è di tipo schizzoide: un massimo di apertura e, allo stesso tempo, un massimo di chiusura. Porosità assoluta e, insieme,. sistemi difensivi da cittadella assediata. Tutto nella stessa città. Per chi ci fosse stato solo di passaggio o l'avesse vista soltanto al cinema, in televisione o sulle pagine dei libri, va ricordato infatti che New York n.on si esaurisce nel suo megacuore insulare, il lungo rettangolo di Manhattan, collegato al resto del mondo da una rete complessa e fragilissima di ponti e tunnel subacquei. Dall'altra parte dell'acqua - i tre fiumi, l'Harlem, l'East e l'Hudson, che la recintano rispettivamente a nord, a est e a ovest; la laguna nord-orientale po_polata di microisole (tra cui Riker's Island, l'isola-carcere della città) e il mare aperto a sud - e' è ancora New York con i suoi vari boroughs (in senso orario a partire da nord: Bronx, Queens, Brooklyn, Staten Island e - ma siamo già in un altro stato - New Jersey) e la sua vasta area metropolitana. Che queste immense e popolose città nella città siano "esterne" e in qualche modo "speculari" a quella che impropriamente viene considerata la città vera e propria, esiliate dall'acqua e condannate a far da margine a un presunto centro, è causa e insieme effetto di una serie di problemi che il tempo ha modificato, ma non risolto e talora aggravato. Nonché di infinite metafore, pregiudizi, luoghi comuni che da sempre alimentano l'immaginario sociale, oltre a quello cinematografico e letterario. La gente che conta - i rieY.QQ_' chi, i potenti, i bianchi, i non immigrati o gli immisrati di lusso che infatti si chiamano con un altro nome e non hanno da scegliere una volta per tutte dove fermarsi e metter su casa - abita a Manhattan, dentro. Gli altri, fuori. Il che, alla lettera, significa dal1' altra parte del ponte. Separati, non collegati. Sull'altra sponda. Là dove il "dentro" della metropoli si lascia solo immaginare e guardare a distanza, sognare, mitizzare, trasformare in oggetto del desiderio, miraggio. Il cinema, questa struttura dell'alterità e dell'esclusione, l'ha raccontata alla nausea e in gualche modo epicizzata. Via Hollywood e via cinema indipendente. Riuscendo a mettere in scena, soprattutto, quella che si potrebbe definire un'asimmetria dello sguardo: chi è dentro non ha ragione di guardare fuori e può, essendo esattamente là dove vuole essere, puntare lo sguardo su di sé e su ciò che gli sta attorno/vicino; chi è fuori non può che guardare fuori da sé, verso il dentro, puntare cioè lo sguardo verso un altrove remoto e sconosciuto, amato e detestato come si può amare e detestare ciò che non si ha, proprio per il fatto che non si lascia possedere. Il r,rimo è .uno sguardo autonferito, sazio e saturo, esaurito. Se si avventura fuori da sé è per confermarsi, difendersi, negare esistenza a ogni alterità. Lo sguardo "da dentro" è uno sguardo cieco, incapace di vedere oltre se stesso. Per pigrizia, disinteresse, o perché accecato da una aprioristica visione del mondo e da precisi interessi truccati. In estrema sintesi, lo sguardo filmico "da dentro" svaria da Woody Allen alla commedia agrodolce alla Sei gradi di separazione (Fred Schepisi, 1993) sino alle infinite elaborazioni sul tema della paranoia (si veda, per tutti, l'irritante e scialbo Il falò delle vanità di Tom Wolfe/Brian De Palma, 1990). Lo guardo "da fuori" è invece uno sguardo che sa vedere, ma in forma perturbata. Le alterazioni percettive di cui soffre sono dovute a un eccesso affettivo. Invidia, desiderio, ambizione lo dotano di una lucidità vorace, di una curiosità instancabile e a modo suo predatoria. È lo sguardo di chi non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. Da rapinatore, non da rapinato potenziale. Cinematograficamente parlando, questo è lo sguardo della soggettiva, incapace di distinguere tra oggetto e punto di vista sull' oggetto. Sguardo carico, non obiettivo, per sua natura tendenzioso, rapace. Due esempi filmici, tra i tanti possibili: La febbre del sabato sera di John Badham (1977) e Smithereens di Susan Sedelman (1982). In entrambi il ponte - nel primo caso il Brooklyn Bridge, cancello o ponte levatoio tra Brooklyn e Manhattan, nel secondo il Washington Bridge, soglia o inferriata tra Manhattan e. quell'altrove/. nessun posto che è il New Jersey - è elemento diegetico fondamentale. Per chi ha a lungo guardato da fuori, pensare d1 r.oter attraversare il ponte (il sabato sera o una volta per tutte) significa potersi pensare diversi da quello che s1è, uguali al proprio modello. . C'è stata, nel corso degli ultimi anni, un'interessante e forse insuperata eccezione a questo schema binario. In 1997. Fuga da New York (John Carpenter 1981) Manhattan, il "dentro", si capovolge in"fuori" assoluto, in altrove mostruoso e minaccioso, isola da isolare privandola non delle vie d'accesso ma delle vie d'uscita. Il "fuori" ha posto sotto sequestro il "dentro" un tempo ricco e protetto e lo ha trasformato m carcere di massima sicurezza. In questa cupa fantasia sociopolitica, i confini dell'isola non coincidono più con il privilegio, ma con la devianza. L'Eldorado si è trasformato in colonia penale per i reietti della terra. Come non sentire, tra le pieghe di questa fosca e millenanstica favola che precede di poco l'esplosione della pandemia di Aids, un'angoscia culturale che anticipa il nuovo corso della vicenda politica nordamerica-

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