tica, e fu tacitato da un rappresentante dell'Hcr che gli rispose che non vi erano motivi sufficienti per essere in allarme, che nessuno poteva prevedere il futuro e che quindi non era il caso di preoccuparsi più di tanto. Organizzai con un profugo di mia fiducia, un giovane di talento, generoso, buono e onesto, l'evacuazione dal campo dei più vulnerabili, cioè di quelle persone non autosufficienti che in caso di guerra non sarebbero potute fuggire. Finanzio personalmente l'operazione. Nel cam_po si lavorava tutto il giorno e rientravamo m casa prima che facesse buio per motivi di sicurezza. L'ospedale da campo, gestito dalla Croce Rossa belga, era in condizioni pietose. In quelle tende sporche mancavano le più elementari norme igieniche. Le lettighe erano fetide e le coperte spesso passavano da un malato all'altro senza essere pulite. Un giorno assistetti ad una scena raccapricciante. Accompagnai un ragazzino che aveva nel piede delle grosse ferite purulente causate dalle cosiddette " pulci penetranti". l' infermiere che gli "pulì" la ferita, abbastanza profonda, aveva disinfettato solo superficialmente i ferri che erano stati usati per un altro intervento. I dati forniti dall' OSJ?edale stesso dicevano che fra i ricoverati vi era 1150% di malati di Aids e nel campo più del 30%. Più volte furono espresse lamentele da vari altri organismi per le condizioni dell'ospedale, e successivamente anche dall'équipe di profughi che lavorava con noi. Alle rimostranze da me espresse una delle responsabili dell'ospedale mi rispose: "Ma sono africani! La loro concezione ai igiene è diversa dalla nostra!" Nel campo si vive nella precarietà, nella paura, nell'incertezza del futuro. I profughi che avevano tentato di ritornare nel loro paese venivano uccisi. Ogni giorno nel campo arrivavano giovani, bambini e donne, feriti da arma da fuoco al confine mentre tentavano di ritornare in patria. Gli uomini, difficilmente scampavano alla morte. In quel momento le possibilità che avevano erano la disperazione di una vita da profughi per chissà quanti anni ancora, o il rientro in patria con le armi, che avrebbe comportato un nuovo genocidio. Una terza via per rompere la spirale della guerra e della violenza era quella di costruire un percorso di pace, di cui essi potevano essere i protagonisti. Costruire un percorso di pace significa superare l'odio inter-etnico, ricostruire, la democrazia e la giustizia, deporre le armi per ricominciare a dialogare. In seguito agli incontri a cui gli stessi profughi mi ·invitarono, si costituì un gruppo dal nome "La voce dei rifugiati per la pace nel campo di Mugano". Scrissero un documento in cui chiedevano agli organismi internazionali di farsi mediatori con il governo perché essi stessi potessero trattare le condizioni per il rientro e la costruzione pacifica del paese, appellandosi al trattato di Arusha, nel quale appunto si proponevano le condizioni della pace nel paese e il ritorno dei rifugiati e degli esiliati. Discutemmo insieme anche la possibilità che alcuni di loro partecipassero ad un progetto di Kigali per una scuola e un centro culturale inter-etmci per la pace, che avrebbero potuto essere finanziati dalle Ong italiane. Avevo scritto una bozza per i suddetti progetti. Occorreva continuare la preparazione del grur,po perché si consolidasse in loro lo spirito pac1f1sta. L'iniziativa aveva entusiasmato non pochi, PIANETATERRA ma si era ritenuto opportuno mantenere tutte le cautele del caso per evitare che il gruppo potesse essere oggetto di rappresaglie da parte di coloro che, nel campo, erano per un rientro in patria con le armi. Ma nonostante gli sforzi intrapresi per mantenere la segretezza del gruppo, la notizia si era sparsa al di fuori del campo. Un giorno ricevetti tre lettere che venivano da! c~mp? profughi_di Benaco, in Tanzania, in cm s1 chiedeva un mcontro con me per dare inizio anche lì ad un percorso· di pace. La situazione si era fatta pericolosa, non eravamo più in grado di controllare la segretezza. I miei collaboratori ebbero paura di eventuali rappresaglie ai loro danni. Pensai allora che era giunto il momento di chiedere un incontro ai responsabili dell'Hcr. Ma tutto precipitò rovinosamente. I militari erano stati mformati della nascita dell'associazione e del documento. Fui chiamato di urgenza dai responsabili dell'Hcr i quali mi obbligarono a rientrare immediatamente in Italia per motivi di sicurezza. Terminava così prematuramente un tentativo per costruire un piccolo percorso di pace. Voglio spe~are che in te11;1.più favorevoli si possa ncommc1are a lavorare m questo senso. Al termine di questo sommario racconto in cui ho tralasciato di parlare di tutti gli episodi che mi hanno coinvolto con sofferenza, in cui ho ammirato la nobiltà d'animo di tanti rifugiati, capaci di autentici gesti di amicizia, vorrei soffermarmi su alcune considerazioni in riferimento agli spiragli di s_peranzache possono essere offerti e considerati dagli organismi internazionali. Credo che un percorso di pace sia possibile a condizione che una parte della società civile organizzata diventi _protagonista del suo destino e che, sui principi dei diritti umani, costruisca piccoli percorsi di pace sulla base di un dialogo e di una intesa inter-etnica. Il _progetto di un scuola inter-etnica della pace, 1 cui protagonisti siano, come alunni e come insegnanti, delle due etnie, certamente contribuirebbe a creare una cultura della pace. Così anche il progetto di un centro culturale della pace con la collaborazione degli artisti delle due etnie che promuovono possibilità di incontro puntando sul comune terreno dell'arte, della musica, della cultura. Tanti atri progetti potrebbero essere sperimentati per promuovere una cultura della pace e per costruire un movimento pacifista che abbia una inci~enza sulla società e sulla politica senza identificarsi con un partito. È necessario che gli organismi internazionali possono ritagliarsi un mar~ine di azione per promuovere e finanziare iniziative _pacifiste, per legittimare nei confronti dell' opmione pubblica internazionale e de governo provvisorio ruandese i gruf pi pacifisti nascenti, spendendo in questo i loro peso politico. Infatti gli stesi organismi, per non interferire con lo scontro tra diversi interessi internazionali che si svolge dietro le ~uinte sotto le mentite spoglie della salvaguardia dei diritti umani, rischiano di svendere il proprio prestigio in cambio delle possibilità. È un ruolo nelle comode soluzioni assistenzialistiche (che pure servono) che in ogni caso assicurano il rinnovo dei contratti e la loro sopravvivenza come organizzazioni. Il percolo, cioè, è quello di comportarsi come mercenari spacciandosi per organizzazioni umanitarie. Il popolo ruandese dovrebbe ritrovare, all'interno della sua cultura e della sua storia,
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