La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 4 - giugno 1995

La guerra e la pace nella ex Jugoslavia. Etica e intervento ]osep Palau josep Palau .è responsabile della sezione spagnola della Helsinki Citizens Assembly. ♦ Le generazioni europee cresciute dopo la seconda guerra mondiale si sono abituate a considerare la gùerra come ormai sradicatà dal loro continente. All'Europa era semmai riservato il sofisticato privilegio di un potenziale olocausto nucleare che assicurava la pace attraverso il cosiddetto equilibrio del terrore. Le incertezze e l'instabilità che risultavano dal crollo del comumsmo e, soprattuttò, l'esplosione di violenza etnonazionalista .nei Balcani ci hanno però posto nuovamente di fronte alla realtà della guerra. Abbiamo avvertito i suoi. tragici, atroci effetti con una vicinanza da brivido, per la tranquillità delle nostre coscienze abituate a un relativo benessere e a una relativa si~ curezza. Le relazioni di rifiuto dimostrate di fronte alle immagini e alle notizie che arrivavano dai Balcani sembravano una manifestazione ·di nobili istinti ma anche di un egoismo viscerale. È curioso osservare come le re~zioni dominanti nell'opinione pubblica occidentale di fronte alla violenta disintegrazione della Jugoslavia abbiano avuto fasi apparentemente contraddittorie. Per molti mesi è prevalsa una perplessità pensierosa e sconcertata. Poi, afl'improvviso ecco un diluvio di dichiarazioni che invocavano la fine del conflitto per decreto inter-· ventista, sostenuto da "irreprimibili ragioni morali". Questi due atteggiamenti sono le facce di una stessa moneta: una certa ingenuità mescolata con complessi di .superiorità che dapprima ha impedito di evitare, quando ancora sarebbe stato possibile, che il conflitto post-titino scivolasse nel caos e, successivaY.QQ_ mente, ha portato ad affrontarlo con volontarismi a distanza. Nell'una e nell'altra fase è mancata la componente essenziale, primaria, imprescindibile per accostarsi a un confronto tra comunità etno- . religiose: la conoscenza della storia, la comprensione delle paure e dei sospetti reciproci che attanagliano ogni comunità, l'identificazione della vera natura del conflitto. Con un'allegria rabbiosamente insensata si è così appoggiata una versione perversa del concetto di "diritto all'autodeterminazione" che, premiando l'unilateralismo e di conseguenza il confronto ~nvece del consenso, violava i principi dell'accordo di Helsinki. Le dottrine internazionali in uso in materia di fronti ere erano .riassunte nella massima "esse possono essere cambiate tramite consenso delle ~,arti opl?ure tramite _guerre , semplice constatazione di un dato secolare e radicato. Non si può trovare nella storia un solo esempio di secessione senza accordo tra le parti e però. pacifica. Quando la violenza andò generalizzandosi, fa tal men te compiendosi quanto era scritto, a,llora si dimenticò un'altra lezione della storia. I conflitti di questa natura sono difficilissimi da risolvere e gli accordi tardano decenni a ripristinarsi; tutti i precedenti di confitti etno-religiosi nei quali le comunità che si affrontano dissentono da una cornice statale comune benché dividendo uno stesso territorio, sono noti per il loro· inasprirsi: Irlanda del Nord, Cipro, Palestina, Libano, Bangladesh. Naturalmente, con queste dosi di ignoranza è ben difficile che si fissino posizioni che abbiano la pretesa di rappresentare i più alti principi morali. Eppure così è stato. Abbiamo assistito a dibattiti tristemente dominati dalla superficialità, nei quali concetti come etica, intervento umanistico e umanitario erano usati senza risparmio. C'è stato un grande scialo di retorica sul- !' etica, di fronte ai nuovi fenomeni bellici. E però c'è stata pochissima etica autentica, quella dell'esemplarità dei comportamenti. Basti pensare che 1 proclami moralizzatori hanno condannato gli intenti di mediazione di chi ricercava una soluzione politica al conflitto ma non hanno mai proposto seriamente una formula alternativa di pacificazione risultante dall'intervento che si andava reclamando vanamente e genericamente. Quale ordine politico avrebbe dovuto imporre il corpo di spe~izione pacificatrice? In altre situazione, per esempio lranKuwai t, la risposta era: lo "status_quo ante". Ma la restaurazione della situazione· precedente allo"scoppiare del conflitto (questo significa la frase latina) avrebbe condotto · all'assurdo di ridare tutta la Bosnia alla Jugoslavia. Senza un consenso di base, come conservare I' autorità delle forze internazionali nel loro autonominarsi potere politico locale? Con l'ostilità di una prevedibile resistenza, le forze internazionali di occupazione avrebbero potuto sostenersi solo mediante la repressione. Ma per quanto? E se l'intervento fosse sfociato in fallimento del tipo di quello del Vietnam o dell' Afganistan? I pretesi campioni dell'etica hanno il loro punto. più debole nel non porsi mai questo tipo di domande. La loro posizione è meglio spiegabile come un modo di esorcizzare moti di indisnazione che come matura dimostrazione di morale. La contraddizione etica che dobbiamo spiesare la si può affrontare meglio, in definitiva, da un altro punto di . vista, e ci permettiamo di farlo rinunciando a ogni diplomazia linguistica. Nessuno di coloro che si sono pronunciati per l'intervento militare per motivi etici, mentre denunciavano e condannavano governi "complici e vili" eh( non assecondavano. le loro irrep re ns ibili lamentazioni nessuno si è offerto come volontario per dare un esempic personale e diretto. È state fatto di frequente il confrontc tra la Bosnia-Erzegovina de gli anni Novanta e la Spagn: degli anni Trenta, e propri< per questo vale la pena di ri

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