La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 1 - febbraio 1995

giuridici, ,è anche - ovunque - un problema culturale. Occorre costruire, nel lungo periodo, una cultura abolizionista che renda tendenzialmente irreversibili le scelte legislative. E sapere, in tema di pena di morte, ridare fiato al ragionamento. Non contribuisce certo alla riflessione intelligente quella impostazione che trova la sua manifestazione più evidente nella continua riproposizione di sondaggi sulla pena di morte, n<;!ll'abusodi uno strumento che in quanto tale merita rispetto, ma la cui utilizzazione in materia di diritti individuali suscita non poche perplessità (se la maggioranza schiacciante degli italiani si pronunciasse a favore della reintroduzione della tortura o della schiavitù, bisognerebbe forse tenerne conto? E perché, quando si tratta di pena di morte, dovrebbe essere diverso?). I sondaggi sul!a pena di morte provocano nsposte palesemente emotive e volubili (nonostante venga spesso offerta qualche motivazione pseudo-razionale di copertura), risposte che sono segnali di paura ed inquietudine. Si tratta di mess,aggi di rabbia spediti dal basso ·verso l'alto, risposte date con la piena consapevolezza che non hanno conseguenze reali (quantomeno dirette). Purtroppo, sono messaggi che si prestano a strumentalizzazioni da parte di quegli uomini politici e di governo che evidentemente non sono in grado di dare risposte più serie di fronte al1' aumento della criminalità. Ci sono dunque tre problemi - quello dei morti ammazzati, quello delle leggi sbagliate e quello di una cultura dal nostro punto di vista inaccettabile - con cui gli abolizionisti, e .Amnesty International in primo luogo, devono fare i conti opponendosi, giorno dopo giorno, alla applicazione di regole sbagliate e opponendosi alle regole stesse - per cambiarle. Ma anche impegnandosi contro il consenso per quelle regole e la cultura che quelle regole sprime o che ne rende comunque possibile il permanere. È ragionevole pensare - io credo - che solo dal momento in cui si riuscirà sulla pena di morte a fare riflettere, superando le reazioni puramente viscerali, solo allo- ~a potran~o farsi passi avanti importanti verso la sua completa e definitiva abolizione. Medio-Oriente: la pacee suoinemici Joaquin Sokolowicz A questo punto sohanto l'intervento internazionale, degli stessi paesi che hanno favorito e appoggia.to le intese Israele-Olp (Stati Uniti anzi tutto), può salvare il "processo di pace". Lo scriviamo subito dopo la doppia esplosio.ne dinamitarda di Bet Lid, 25 chilometri à nord-est di Tel Aviv, che ha fatto 19 morti e una settantina di feriti prevedendo che ancora altro sangue· possa essere versato a causa di azioni terroristiche prima che queste righe siano pubblicate. Che gli oppositori di quelle intese avrebbero reagito violentemente era p~evis_to dal momento stesso m cm esse vennero firmate - se mai non ne era prevedibile l'efferatezza - eppure chi avrebbe potuto bloccare la crescita di un clima favorevole allo scontro non lo ha fatto. Dopo la cerimonia di Washington di un anno e mezzo fa il governo israeliano si è mosso con i tempi di chi sa che è lui e non il partner palestinese a condurre il gioco, dando la precedenza all'avvicinamento con i regimi arabi finalmente disposto a stabilire rapporti con lo Stato ebraico e tenendo piuttosto d'occhio la politica interna. A loro volta i paesi donatori hanno agito in modo che fa ricordare la miopia del presidente americano Bush quando rispondeva negativamente alle pressanti richieste di aiuto finanziario di un Gorbacev che rischiava il posto e la disgregazione del suo pae~e; al governo autonomo palestmese è arrivata con il contagocce una minima parte dei miliardi promessi, che avrebbero potuto migliorare in buona parte le condizioni di vita delle popolazioni dei territori autonomi e di quelli ancora occupati. È la frustrazione per le cose che non cambiano dopo la stretta di mano tra Rabin e Arafat a fornire continuamente nuovi consensi ai gruppi integralisti palestinesi. Al Fatah (organizzazione maggioritaria)' e le altre componenti dell' Olp hanno piattaforme politiche, sono destinate a diventare parti.ti in uno Stato palestinese; Hamas e Jihad Islamica, invece, si alimentano dagli stati d'animo, depre~sione e rabbia, ?ella .P<?- polaz1one; questo spiega 1 nsultati spesso contrastanti tra un'elezione e l'altra nei territo- . . . . n occupati, m un ateneo umversitario o in una Camera di commercio, a pochi mesi di distanza l'una dall'altra. Poco dopo l'entrata in vigore dei primi punti del piano "Gaza e Gerico per primi", quando gli abitanti della striscia di Gaza hanno conosciuto per la prima volta nella loro storia la vita senza il coprifuoco e sono tornate a casa dopo molti anni alcune migliaia di esiliati e detenuti politici, le cose sono andate in un modo favorevole al gruppo che affianca Arafat. Poi sono cambiate. È stata rinviata un'altra volta la realizzazione delle tappe stabilite in quella Dichiarazione di Principi, salvo l'iniziale affidamento delle due aree autonome all"' autorità nazionale" guidata dal presidente dell'Olp. È chiaro che non sono colpevoli i protagonisti e i sostenitori della svolta di pace del1' avvento del fondamentalismo islamico tra i palestinesi. Il fenomeno è presente in quasi tutto il mondo arabo. Tra i palestinesi, poi, non può essere limitato a una concezione teocratica dello Stato (futuro), ma deve per forza essere terroristico; si tratta di cacciare gli occupanti da una terra, l'intera terra, che secondo il Prof eta appartiene all'Islam. La svolta, che è stata determinata tra l'altro dal bisogno di reagire alla crescita di questo fenomeno, è arrivata in ritardo; responsabilità dei governanti israeliani che hanno preceduto la coalizione oggi al potere, a guida laburista, proprio coloro che una quindicina d'anni fa aveBibliotecaGinoBianco

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==