Ernesto Rossi
La voce del cuore
Dialogo con A.C. Jemolo su liberismo e liberalismo
Tratto da «Il Mondo», anno VI, n. 8, 23 febbraio 1954; anche in E. Rossi, Il malgoverno, Laterza, 1954.
Come è stato mille volte detto e ripetuto, i "liberisti” non sono contrari agli interventi dello Stato nella vita economica. Anche la libertà va pianificata. "Dal caos degli impulsi individuali -avvertiva molto bene il Wicksteed nel Common Sense- non può svilupparsi spontaneamente nessun cosmo di ordine sociale”. Sono le leggi, sono gli argini giuridici, che, incanalando le forze economiche scaturenti dall’impulso del tornaconto individuale, devono convogliarle nella direzione corrispondente all’interesse collettivo. I "liberisti vogliono una pianificazione diversa dai corporativisti e dai comunisti, perché credono possibile "aggiogare l’individualismo al carro del collettivismo” (altra formula felice del Wicksteed), conservando il meccanismo del mercato. E la loro preferenza per l’economia di mercato, più che da considerazioni di maggiore o minore produttività, deriva dalla convinzione che non sia possibile estendere, oltre certi limiti, il potere di regolare coattivamente la vita economica senza rinunciare alle libertà individuali e al controllo dei cittadini sulla pubblica amministrazione. In tutti i modi, gli economisti -abbiano o non abbiano tale preferenza- avvertono che esistono interventi dello Stato "conformi”, e interventi dello Stato "non conformi” al meccanismo del mercato: chi vuole adoprare un orologio per piantare un chiodo nel muro, non può pretendere poi che l’orologio continui a segnare le ore. E mettono in guardia gli uomini politici contro la tentazione (sempre forte nei "pratici”) di procedere alle loro scelte tenendo esclusivamente conto dei risultati che "si vedono”. Rispetto ai fini che ci proponiamo, le ripercussioni indirette e lontane degli interventi dello Stato nella vita economica sono molte volte più importanti dei risultati diretti e immediati...
L’amico Calamandrei è un ammiratore del sindaco La Pira, che, nella vertenza degli operai contro il Marinotti, ha preso le parti degli operai, per impedire la liquidazione del Pignone. Ottenendo aiuti dalla Assistenza Pontificia, legittimando l’occupazione dello stabilimento, mobilitando parlamentari, vescovi e cardinali, tempestando i ministri con telegrammi, prediche, minacce, implorazioni, è riuscito a "salvare la fabbrica”: il governo ha fatto acquistare il Pignone dall’Agip. La maggior parte dei duemila operai, che dovevano essere licenziati perché il Pignone produceva in perdita, sarà così mantenuta alle paghe con i quattrini dei contribuenti.
Da una parte -scrive Calamandrei- ci sono gli industriali, gli amministratori, i padroni di un’azienda fatta per distribuire dividendi agli azionisti. Essi dicono: "Non si può continuare a lavorare in perdita. L’azienda è fatta per guadagnare; e se non si guadagna, noi che siamo i padroni, ritiriamo i nostri capitali, per impiegarli dove si guadagna di più: e chiudiamo la fabbrica”. Ma dall’altra parte ci sono migliaia di lavoratori colle loro famiglie, che non hanno pane altro che da quel lavoro; e se quel lavoro cessa, non resta per loro che la disoccupazione e la fame. Essi dicono: "Noi vogliamo continuare a lavorare, perché non vogliamo che i nostri bambini muoiano di fame. La Costituzione garantisce a tutti il diritto al lavoro e una dignitosa esistenza: per difendere questo diritto, occupiamo la fabbrica. Si tratta di scegliere tra il diritto degli azionisti ai dividendi e il diritto dei lavoratori a non morire di fame”.
Ma il dilemma non è in questi termini. Un diritto degli azionisti ai dividendi non si è mai visto. Gli azionisti ottengono un dividendo soltanto se e in quanto la impresa riesca a vendere i beni che fabbrica o i servigi che presta a un prezzo superiore al costo di produzione. L’impresa può anche andare alle ballodole, e, in tal caso, gli azionisti, nonché ottenere i dividendi, ci rimettono il capitale. II diritto in discussione è soltanto il diritto di disporre come meglio si crede -una volta assolti i debiti tributari, ed entro i limiti stabiliti dalle leggi- dei propri beni. È insomma, il diritto di proprietà individuale. Anche Calamandrei è un datore di lavoro, almeno nei confronti della donna di servizio. Se trova disumano e anti-costituzionale il licenziamento degli operai che, per un mutamento nella domanda o nella tecnica, non riescono a guadagnarsi, negli stabilimenti in cui sono, il salario stabilito nei contratti collettivi, dovrebbe parimenti considerare disumano e incostituzionale il suo diritto di licenziare la donna di servizio. Alla donna di servizio, come a tutti gli altri italiani, i costituenti di buon cuore -primo fra tutti l’on. Calamandrei- hanno assicurato il diritto a una dignitosa esistenza, risolvendo, una volta per sempre, il "problema sociale”, con la semplice formulazione dell’art. 36 della Carta costituzionale. Ed anche la donna di servizio può avere bambini che muoiono di fame. Ma dubito assai che Calamandrei sarebbe ancora disposto ad assumere al suo servizio una donna, se sapesse di non poterla più licenziare, una volta che fosse entrata in casa sua. E fino a quando il legislatore non troverà un modo concreto (che, per mio conto, non vedo) per passare dalle promesse generiche dell’art. 36 della Costituzione alla loro applicazione pratica, senza abolire le libertà garantite, nella Costituzione stessa, a tutti i cittadini, non mi pare che le donne in cerca di lavoro starebbero meglio se non trovassero più nessuno disposto ad assumerle a servizio. Una osservazione analoga può valere per i rapporti tra imprenditori e lavoratori nell’industria.
Né il secondo corno del dilemma è "il diritto dei lavoratori a non morire di fame”. Per il caso del Pignone, come per gli altri casi dello stesso genere, Calamandrei avrebbe dovuto dire: "Il diritto dei lavoratori iscritti nei libri paga di ogni fabbrica a ottenere, dai loro datori di lavoro, il salario fissato nei contratti collettivi, anche quando la loro produttività nella fabbrica è ridotta a zero». Se Calamandrei avesse messo così in chiaro di che cosa veramente si tratta, anche il meno avveduto dei suoi lettori si sarebbe facilmente accorto dell’errore di impostazione. Perché quei lavoratori dovrebbero essere così privilegiati, in confronto ai lavoratori che non hanno la fortuna di essere iscritti nei libri paga di una fabbrica? Perché dovrebbero avere permanentemente 1.200 lire al giorno di salario, più 300 lire di contributi alle assicurazioni sociali, senza produrre niente, mentre il disoccupato ha 247 lire e 60 centesimi al giorno, soltanto per un periodo massimo di sei mesi? Sarebbe possibile dare un sussidio di 1.500 lire al giorno a tutti i disoccupati senza ricorrere a una nuova fortissima inflazione monetaria? Di quanto aumenterebbe, con tale sussidio, il numero dei disoccupati e la pressione tributaria? Non sa Calamandrei che già oggi le condizioni dei lavoratori nelle città sono tanto privilegiate, in confronto a quelle dei lavoratori dei campi, che per difenderle sono mantenute in vigore le infami leggi fasciste sulla "disciplina delle migrazioni interne” (9 aprile 1931, n. 358) e "contro l’urbanesimo” (6 luglio 1939, n. 1092)? Non sa che, se venissero abolite queste leggi, che hanno ristabilito la servitù della gleba e il domicilio coatto per gli abitanti delle zone depresse, avremmo una tale invasione di turbe miserabili nelle città che nessun "sindaco santo” riuscirebbe ad alloggiarle e a mantenerle? D’altra parte, se, per "ragioni sociali”, il governo vuol dare 1.500 lire al giorno a quei lavoratori, perché costringere a pagarle, con una imposta speciale, proprio gli industriali che stanno peggio, in quanto hanno maestranze in soprannumero, invece di caricarne il peso su tutti i contribuenti, in proporzione all’ammontare dei redditi? Per ottenere che paghino le 1.500 lire agli operai che vorrebbero licenziare, il governo non darà sotto banco agli industriali molto più, compensandoli con dazi doganali, premi di esportazione, sussidi, prezzi di imperio, commesse statali di favore? E se questo avverrà, l’aumentato peso delle imposte e il rincaro dei beni di consumo non si ripercuoterà sul tenore di vita dei lavoratori esclusi dal gruppo privilegiato, abbassando i loro salari reali e aumentando la disoccupazione? Se, invece, quegli industriali pagheranno di tasca loro l’imposta speciale, non avrà questa punizione alcuna influenza sul modo di comportarsi degli altri datori di lavoro? Vorranno prendere ancora iniziative rischiose, se non saranno sicuri di poterle abbandonare quando si accorgano di avere sbagliato? Vorranno iniziare ancora lavori occasionali e transitori? Saranno disposti ancora ad assumere nuovo personale nei periodi di punta? Diversamente, le condizioni degli altri lavoratori, cioè di quelli più miserabili, non risulteranno peggiorate dall’abbassamento delle paghe e dalla diminuzione delle occasioni di lavoro?
Dopo avere scritto che, posto davanti al dilemma: "diritto degli azionisti ai dividendi e diritto dei lavoratori a non morire di fame”, il sindaco La Pira "cerca la risposta non nei codici e nei manuali di economia classica, ma nella sua fede religiosa, e si mette dalla parte dei lavoratori; e vescovi e parroci lo seguono”, Calamandrei commenta: "Questo è un fatto nuovo. E non è solo un episodio sentimentale di bontà e di carità: è una scelta politica. Se le leggi che ci reggono portano a questo, bisogna abolirle: se la società capitalistica permette questi dilemmi, bisogna rovesciarla. E se i poveri si ribellano a questa condanna a morte, le persone che hanno il Vangelo nel cuore debbono mettersi dalla loro parte, non dalla parte dei padroni, che invocano le leggi fatte per perpetuare il loro predominio”.
Calamandrei si inganna; non è un fatto nuovo. La posizione del sindaco La Pira corrisponde perfettamente alla posizione dei Franco, dei Salazar, dei Perón, sempre tutti disposti anche loro ad "andare verso il popolo”. Il linguaggio di La Pira è il linguaggio caratteristico dell’"integralismo cattolico”. Fra i molti esempi che potrei addurre a riprova di questa mia affermazione, basterà che riporti un brano del discorso pronunciato dal prof. Carretto la notte dell’11 settembre 1948 davanti a 300 mila "baschi verdi” radunati in Piazza San Pietro. Ecco alcune tra le frasi più significative, dal resoconto stenografico, quale venne pubblicato sul "Bollettino Stampa” della Gioventù Cattolica: "Noi giovani vi chiediamo solo due cose: il lavoro e la casa. Signori del governo, uomini che fate le leggi, che cosa rispondete? […]. È vera la parabola di Cristo, degli uccelli dell’aria e dei gigli del campo? È vera la provvidenza di Dio, o è una utopia? [...] Se è vera la provvidenza di Dio per me individuo, se è vera per la mia famiglia, vivaddio, è anche vera per lo Stato […]. L’economia liberale, borghese, ha una sola soluzione: guarda il bilancio, e se il bilancio non quadra gli uomini disoccupati devono restare disoccupati. Ma non c’è una economia cristiana che non si lascia legare a questo fenomenismo esasperante? Ma non c’è una economia cristiana che ha il coraggio di credere nell’assurdo, e che si lancia nel vuoto, sicura che il vuoto non esiste, dacché Dio riempie ogni cosa?! [...]. No, non è il bilancio che il cristiano deve guardare: è la vita”.
Io capisco che ci sia chi preferisce il "giustizialismo” peronista all’economia classica. Ma dovremmo ormai conoscere dove questa strada conduce. Facendo appello al generoso corazón dei seguaci, con l’applauso delirante delle folle oceaniche dei descamisados e l’appoggio dei vescovi e dei cardinali, il generale Perón -fatti fuori tutti gli oppositori alla sua politica e abolita la libertà di stampa- ha raggiunto il miracoloso risultato di esaurire in pochissimi anni le ingenti riserve auree accumulate, durante la guerra, con le forniture ai paesi belligeranti; ha svalutato il peso, gettando il sistema monetario e creditizio nel più fantastico disordine; ha provocato una crisi tanto grave nelle campagne da vedersi costretto a imporre -nel paese che prima era uno dei maggiori esportatori di grano e di carne- il razionamento della carne e del pane. Per mio conto, ritengo che, se vogliamo seriamente lottare contro i privilegi e aiutare i lavoratori (tutti i lavoratori, e non soltanto i gruppi più rumorosi e meglio organizzati, a spese degli altri lavoratori) dobbiamo ascoltare la voce della ragione degli economisti classici, piuttosto che la voce del cuore dei demagoghi e il Vangelo degli integralisti cattolici.
La prego, caro professore, di perdonarmi se mi sono dilungato così a lungo a criticare la nota del "Ponte”, sicché mi resta poco spazio disponibile per replicare alla sua lettera... Almeno su due punti desidero, però, risponderle direttamente: iI primo punto riguarda la sua proposta per liquidare gli Enti inutili. Si tratta, a me sembra, di uno di quei rimedi semplici, ai quali ho sopra accennato, facendo il paragone col medico empirico. Sarebbe stato possibile fare quel trattamento di favore agli impiegati degli Enti e non agli operai che dovevano essere licenziati, perché in soprannumero nelle industrie? Come sarebbero stati scelti quei privilegiati fra tutti coloro che avrebbero chiesto di andarsene a casa, con una pensione eguale all’intero stipendio, vita natural durante?
Avrebbero continuato a lavorare gli impiegati e gli operai rimasti negli uffici e nelle fabbriche se avessero visto che i loro colleghi venivano compensati con le stesse paghe, senza più lavorare, o raddoppiavano tali paghe, facendo per proprio conto altri lavori? Come sarebbe stato possibile fare quel trattamento a tutti i licenziati dagli enti e dalle fabbriche e mantenere i sussidi ai disoccupati al livello consentito dalle riserve dell’Istituto di assicurazione e dalle disponibilità del bilancio statale? Forse che gli altri disoccupati non erano "figli di mamma”, e cittadini italiani anche loro? E, una volta ammesso il sistema, come si sarebbe potuto rifiutare di estenderlo a chi sarebbe stato licenziato dopo il 1945? Quali conseguenze avrebbe avuto il sistema se fosse stato generalizzato e reso permanente? In verità, le conseguenze paventate dai suoi amici -di lasciare troppi soldi in tasca ai disoccupati per passare le giornate al cinema, al caffè e all’osteria- non mi avrebbero molto preoccupato. Ma quali riflessi si sarebbero avuti sul bilancio dello Stato, sulla pressione tributaria, sul valore della moneta? sulla accumulazione del risparmio, sul numero dei disoccupati? È questo -mi pare- uno degli esempi che potrebbe essere portato per far meglio intendere la importanza della distinzione fra "quello che si vede” e "quello che non si vede” nei fenomeni economici.
Il secondo punto riguarda la sua richiesta agli economisti di precisare che cosa accadrebbe se venissero abolite le trincee che attualmente difendono le posizioni di monopolio sul mercato interno, e i sussidi dello Stato che mantengono in vita tanti enti e industrie parassitarie. Quante persone rimarrebbero disoccupate, per quanto tempo? che cosa dovrebbero poi fare? Ella vorrebbe che si rispondesse, tracciando un "piano di ripresa”. Ma gli economisti non sono di virtù profetiche dotati, come era "il calavrese abate Gioacchino”. Sarebbero in grado di rispondere a quelle domande solamente se dirigessero un Ufficio Centrale Piani, incaricato di distribuire tutte le risorse disponibili fra i possibili impieghi, in un paese a regime comunistico, in cui il governo avesse la forza per imporre come e dove ogni suddito deve lavorare, in quale casa deve alloggiare, quello che deve mangiare, come deve vestirsi, divertirsi, ecc. Si troverebbero allora presso a poco nelle condizioni dell’ingegnere che può rispondere a chi gli domanda quale dimensione, quale forma, quale peso, avrà un pezzo di ferro, dopo eseguito il getto in uno stampo da lui stesso disegnato. In un paese, invece, che conserva l’economia di mercato, gli economisti non possono fare alcuna ragionevole previsione, perché i successivi equilibri sono la resultante di innumerevoli scelte fatte da milioni di individui, ognuno dei quali si trova in una condizione diversa e reagisce in modo diverso ai medesimi stimoli, e col suo comportamento modifica le condizioni e il modo di reagire di tutti gli altri operatori presenti sul mercato. Che cosa verrà coltivato sui terreni che non potranno essere più seminati a grano se aboliremo il dazio sui cereali? Dove andranno ad alloggiare le persone che saranno sfrattate se aboliremo il blocco degli affitti? Che cosa faranno i lavoratori che verranno licenziati se sarà introdotta quella nuova macchina negli stabilimenti industriali? Continuamente sono rivolte agli economisti domande di questo genere da coloro che difendono le posizioni acquisite, contro gli uomini nuovi, le nuove iniziative e i nuovi ritrovati della tecnica. A queste domande gli economisti possono rispondere soltanto che quei terreni verranno adibiti a culture che risulteranno più convenienti, con vantaggio della generalità dei consumatori; che gli sfrattati si restringeranno in ambienti che meglio corrisponderanno alla loro situazione finanziaria, lasciando disponibili dei locali e stimolando gli imprenditori a costruire nuove case per coloro che oggi non trovano alloggio; che quegli operai potranno, col tempo, venire riassorbiti dall’aumento della domanda, per la maggiore prosperità del paese, in conseguenza della riduzione dei costi, e che di tale prosperità trarranno beneficio tutti i lavoratori fuori dell’industria in cui dovrebbe essere introdotta la nuova macchina. Ripeto: se vogliamo conservare il meccanismo del mercato e intendiamo non rinunciare ai vantaggi del progresso, dobbiamo pagare il relativo prezzo. Non possiamo pretendere di avere "la botte piena e la moglie ubriaca”. Possiamo, invece, cercare il modo migliore per distribuire questo prezzo sulla intera collettività nazionale, che trae vantaggio dalle garanzie della libertà e dall’aumento di ricchezza, risultante dall’economia di mercato e dalla dinamica economica; il modo migliore, cioè, di alleviare il più possibile le sofferenze di coloro che non riescono, per proprio conto, a guadagnarsi da vivere, o che vengono particolarmente colpiti, senza alcuna loro colpa, dalle variazioni dell’equilibrio esistente. A Lei questo sembra "troppo poco”. A me sembra molto, perché sono convinto che da questa soluzione principalmente dipende il consolidamento e lo sviluppo delle istituzioni democratiche. E non si fratta, purtroppo, di un problema di scarso momento. È uno dei problemi di politica economica di più ardua soluzione, per le difficoltà che si incontrano quando si voglia accertare la reale condizione economica dei singoli individui, e ridistribuire il reddito collettivo a favore dei più bisognosi, senza ridurre di troppo lo stimolo al risparmio, al lavoro e alla assunzione dei rischi.