un testo, delle sue interpretazioni e di un terzo polo in grado di accedere ad entrambi: il problema interpretativo non si chiude nel monologo dell'interprete con un testo. È proprio questa chiusura, che conduce a teorizzare la riducibilità totale di un testo alle sue interpretazioni. Ma non vale neppure l'inverso, ossia la riducibilità totale delle interpretazioni al testo, in quanto esse si pongono al tempo stesso come un'altra scrittura rispetto al testo, la quale funge da mediazione rispetto al testo per sé e per altri. La molteplicità e le differenze dei restauri interpretativi rimandano tutte all'unicità del testo, che non è dissolto nello loro pluralità, ma costituisce il centro verso cui tutte tentano di convergere. Ed è proprio l'unicità di questo punto di convergenza a rendere commisurabili e criticabili i molteplici restauri. Se il testo si dissolvesse negli infiniti restauri interpretativi, questi sarebbero appunto incommensurabili e ogni interpretazione diventerebbe una monade chiusa in sé e incomunicabile con qualsiasi altra. Ma allora diventerebbe inutile continuare a usare nomi propri per Platone, Aristotele e così via o titoli per le loro opere. Mi soffermo su questo punto forse più del dovuto, ma sono convinto che in esso si annidi un'argomentazione equivoca, se non fallace. Una delle proposizioni più vulgate dell'ermeneutica contemporanea è che le interpretazioni sono infinite. Se con essa s'intende dire che di un testo non è pensabile il raggiungimento del restauro interpretativo unico e definitivo, probabilmente nessuno avrà da eccepire. Se non altro, sta ad ammonirci la straordinaria varietà delle interpretazioni di qualsiasi testo avanzate nel passato. Ma attraverso passaggi inespressi, che equivocano sulla molteplicità di significati che può avere il termine infinito, si giunge sovente a dire che dunque le interpretazioni sono infinite, nel senso che il loro numero è infinito e dunque le infinite interpretazioni sono equivalenti, nel senso che nessuna di esse è vera o 190
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