da l'osceno d'Arcadia il vago piede, chiude il bel corpo in calamo palustre, non è (com'altri crede) d'artefice pennel fattura industre. 5 Ha vita, ha spirto, ha senso, ma, s'io ben dritto penso, la voce e 'l moto le ritiene a forza la paura, o la scorza. Non vi si scorge alcun segno del passaggio o del viluppo - che pure dovevano dominare nel quadro - di figura femminile ed elemento vegetale. Il prodigio da rispecchiare viene come smentito dalla sua comunissima denotazione: «Costei, che ... chiude il bel corpo in calamo palustre». Qui domina un altro viluppo: del suono paura, concordante all'interno con le rime aspre palustre e industre, e di forza e scorza accoppiate dalla rima a chiudere il motto che forma - sempre per via concettuale e verbale - una reale impressione d'impedimento alla fuga, di improvviso duro imprigionamento. In un sonetto, che raffigura Niobe, pervasa dal dolore e sgomenta tra i suoi molti figli colpiti, a uno a uno, «stral dopo stral», dalla «coppia inessorabile» di Apollo e Diana, precise misure e articolazioni diegetiche - in gara col solito modello delle Metamorfosi-ci danno la tragedia in divenire e il suo tenue ma percepibile elemento di pathos in crescendo. I particolari che il testo può aver preso dal dipinto di Luigi Brandin sono stati investiti e trasformati - prima che lasciassero un incentivo o un frammento alla descrizione - nella scansione e nel movimento di una autonoma visione letteraria. Perso l'ultimo figlio, Niobe «di dolor cade, e di stupore insassa»: la sua metamorfosi è in atto, e si vede per momenti successivi e distinti, battuti dall'avverbio già: 92 Già tace, e torpe, impallidisce, e langue, già già pietra divien candida e pura.
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