Due cose, nel corso della terapia, avevano attirato la mia attenzione. In primo luogo: quando giocava il bambino chiamava se stesso Andy; evitava di pronunziare le parole «io» o «me», e quando vi si provava cadeva in uno stato spasmodico. Ciò capitava abbastanza spesso. In secondo luogo: nell'ultima parte del nostro rapporto, allorchè voleva comunicarmi qualcosa, ma non vi riusciva per via del suo stato spasmodico, correva da me, afferrava il colletto del camice, e, in questa posizione, aspettava alcuni secondi. Potei osservare che aggrappandosi a me egli tornava tranquillo ed era in grado di dirmi, con chiarezza, ciò che voleva. Impiegò questo suo «metodo» parecchie volte, con buoni risultati. Mi parve degno di interesse che il problema dell'Io e il pensiero dell'aggrappamento venivano a collegarsi del tutto naturalmente l'uno con l'altro, mediante il suo aggrapparsi a me. Poco tempo dopo iniziai la mia analisi con Imre Hermann, e appresi la sua teoria dell'aggrappamento; da lui ho anche imparato che anche un'unica osservazione è sufficiente per indicarci la strada nella ricerca della verità. I miei casi successivi hanno confermato la mia i :e otesi che la balbuzie è, in un qualche modo, collegata con l'aggrappamento frustrato. Ma non riuscivo a collegare questa idea con le mie precedenti cognizioni. Si trattava di «una delle cause» di un sintomo che, di cause, ne aveva molteplici? Mi occorse parecchio tempo per rendermi · conto che cercare di trovare soltanto una diretta connessione causale tra la balbuzie e l'aggrappamento frustrato era una falsa strada. Il problema doveva essere preso in esame e interpretato entro un sistema più vasto. Sono così pervenuta all'idea che la frustrazione dell'istinto di aggrappamento nei confronti della madre crea nel bambino una specie di situazione di base in cui, per effetto di traumi diversi, può insorgere la balbuzie. Ma si 140
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