accade a migliaia e migliaia di altri testi, specialmente del 5-'600, che vivono ai margini dell'esaurimento dei canoni rappresentativi, e nei quali sembra che più questa dissoluzione penetra profondamente nello stile, fino ai livelli più elementari dell'organizzazione del testo, e più abbondano figure ed invenzioni non linguistiche. Il mantenimento precario di un canone anti-cortese, la polemica sempre implicita contro la responsabilità di un progetto di discrezione affidato allo scrivere, contro il beneficium che restituisce ragione e bellezza al testo, rende faticoso lo scrivere al Pino, che se ne lamenta spesso, ma trasforma anche lo scrivere, che sembra ridursi al solo servire all'elogio dell'asino. Scrivere diventa l'atto di entrare «di mala voglia... nel pelago delle lodi asinesche»; l'autore «rompe le catene de l'irregolate regole del dire... e salta senza cavezza e senza mosseruola di palo in frasca», si limita a «darvi noia con tanto cicalare». La giustapposizione «critica» di una serie di citazioni da Alberto Magno, Bibbia, Corano, Aristotele, Virgilio, Pitagora, Plutarco, Seneca, Petrarca, Galeno, epitomatori, proverbi, aneddoti è un'attività continua per far funzionare la gran macchina dell'Arte Cabballistica. Questa produce modelli ed esempi, anzi un mondo costituito da un solo esempio, quello dell'asino, che tende a separarsi sempre più dalle strutture verbali in mezzo alle quali è nato (all'inizio è verbum: a-sì-no) e diventa un'istanza sempre più rarefatta e celeste. Il calco della storia del re Ameto porta al calco fisionomico («L'asino è il modello dell'uomo»); alla mitologia vista in funzione della figura degli «onocentauri» (busto d'uomo e corpo d'asino); alla toponomastica e alla geografia della «passio» asinina; alle immagini dinamiche molto efficaci del volo dell'asino (a Empoli, per farlo cagare in testa agli spettatori), dell'impiccagione dell'asino (ad opera dei Cavesi), del suo guardare il cielo, dell'esperienza estatica del paradiso degli asini a Posillipo (più 203
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