Il piccolo Hans - anno XI - n. 41 - gen./mar. 1984

pacifico), per l'implicazione con l'essenza ultima del fare poetico: è nei movimenti minimali di richiamo e di opposizione fonematici che insorge il p oiéin. L'inconscio «non parla un unico dialetto »: troppo naturale che, nella dimensione proposta da questo libro, si cerchi di enumerarli questi dialetti, o lingue. Durandeaux ne esibisce tre famiglie: «on parie névrotique, psychotique ou pervers». Perché tre e non quattro o dieci? Tre sarebbero le polarità del dire del soggetto: desiderio, godimento e corpo; le relazioni fra nevrosi, perversione, psicosi non sarebbero che r-elazioni fra i discorsi che le parlano. Poiché la questione del numero non va senza rilevanza in psicoanalisi, si apre qui almeno una delle domande che il libro lascia sospese nel lettore. Ma intanto, non va liquidata come casuale la preminenza di spazio concessa dall'autore al tema della perversione; non sarà neppure casuale che negli ultimi tempi l'argomento abbia stimolato tante ricerche. In che misura la lingua perversa è la lingua «materna», ossia primaria e fondamentale, del perverso? se la perversione è, come afferma Durandeaux, essenzialmente una «questione di godimento» per il soggetto, è la «versione» linguistica che egli è portato a parlare che lo mette in rapporto, «in pari» con il godimento? (accanto alla famosa p ère-version si potrebbe iscrivere una p air-version...). Giochi o trappole, beninteso. Ma qualche po' di spirito ludico non guasta nel libro di Durandeaux ed evita di ricadere in un altro tipo di tassonomia, se non nosologica, poetica. Altrimenti, bisognerebbe ritornare seriamente al punto dei numeri per ciò che attiene alle lingue. Se si tratta di glossolalia, come insinua il testo, è in gioco l'uno o l'infinito'? I «problemi di discorso» non vanno mai per ·una strada sola ma per «i quattro cammini». Trattandosi di 195

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