ruina/ dell'osteria immota [ ...]» -(Da Ghène)). L'osteria è il luogo ogni volta ritrovato e ogni volta inaccessibile, il punto di approdo di un consistere precario, in esilio dal tempo e dallo spazio, dalla finitezza e dall'eternità (« nulla di più vasto di quei tavoli/ dove ogni possibilità storica e metafisica/ esce [ ...]», Tavoli, giornali, alba pratalia). Qui la cronaca e il mito si sciolgono in parole frusciate, nel mezzo/sogno di un'atmosfera sospesa, allucinata, da sopravvissuti, tra suppellettili comuni che paiono emergere da scavi archeologici, polverose, cristallizzate come le voci e le presenze (« distanti sono come due soprammobili/ e vicini come radicate convenzioni figurative/ nella sempre-più-ombra più cristallo/ Parlottano e non è che questo luccichi gran che», Soprammobili e gel). Ecco, allora, il mezzo tono del quotidiano e l'assolo del nulla, del vuoto, della percezione siderale: le piccole cose dialogano sulla pagina con un assoluto tangibile, rivelando impercettibili connessioni (« Da un'osteria all'altra [ ...] era tranquillo/ e bello mettere a dimora/ le più attenuate non-scissioni e intergamie/ quasi in abissale sonno albale consumate», Silicio, carbonio, castellieri). Una scrittura, si direbbe, tridimensionale, che mentre dà corpo al divagare psichico e sensibilizza gli oggetti, accoglie qualunque fuga prospettica, lo squarcio verso il profondo e lo slittamento in lateralità, lo « schiocco di linguaggio» e il magma che rigurgita: plurilinguismo davvero, e di tipo nuovo, in cui la voce è solo una tra le tante possibili emergenze acustiche (« Noiessi frusciamo parole/ così scorrenti nel loro luccichio così stagnanti [ ...] mentre infierisce il silenzio [...] mentre s'infianca la stanza [...]»). Da Galateo in bosco a Fosfeni Zanzotto accentua le potenzialità polifoniche della parola con un orecchio finissimo, che mentre protrae accordi e timbri orchestrati su note tenute, su dominanti foniche che paiono, tal192
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