campo della verbalità si dilata verso confini non codificati, tra i rischi contrapposti della catena logorroica di significanti inarrestabili e la scomparsa della voce, la prevaricazione del silenzio. È rerto scorretto penetrare così di �appiatto all'interno di un sistema poetico, muovere da osservazioni minime, descrivere emergenze e affioramenti rinviando la sintesi, lo sguardo d'insieme. Ma con Zanzotto pare proprio che non si possa procedere diversamente: la sua poesia trama da tempo sottili tranelli, adeguandosi di volta in volta ai canoni della tradizione (la rima, le scelte linguistiche coltissime) e subito infrangendoli (la disseminazione del segno, il balbettio, il neologismo, il dialetto, il petè[). Al punto che sembra pretestuoso e inconcludente, in questo caso, il giudizio che contrappone ossequio alla istituzione letteraria e sperimentalismo: l'istituzione permane come sfida, parametro con cui confrontarsi e su cui regolare la resistenza di una parola che può essere, nelle intenzioni, armonia, compostezza, equilibrio, ma che all'improvviso può anche rivelare turbini di inquietudine, squarci abissali di dissimmetria, fughe verticali in profondità, verso l'origine, il territorio archetipico delle Madri, la centralità rimossa o smarrita. Una tradizione, allora, come spinta all'anamnesi, e uno sperimentalismo non viscerale ma conoscitivo: una poesia che non concede mai, neppure al lettore, il lasciarsi andare, anche se raggiunge sovente punte acutissime di tensione liberatoria. Si possono forse individuare possibili tracce di lettura, piste astutamente predisposte. Una passa, indubbiamente, attraverso la parabola del logos miniaturizzato, ridotto a breve trattino, moto di stizza, luogo di bricolage « lucciola, bubola o borboleta fosforica». La riduzione, insomma, della capacità raziocinante, eloquente e sbruffona, a un vegetale livello minimo, non garantito, rasoterra e rasoombra: un 190
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