tabile splendore») che concedono talora al ritmo di ricomporsi provvisoriamente, con raggelata ironia, mentre le sparse pronunce avverbiali si riunificano in successione («O maneggi qualcosa che pare/campito nello stabilizzante - / logica allora, dove, / come pompeiano gesso da presa/ qui appunto [ ...]»). La discontinuità del tessuto lacerato rinvia ogni volta, per contrasto, alla soggiacente falda di biologica certezza, che nessuno scavo in profondità può per altro raggiungere e rilevare. E del resto proprio la dicotomia consente l'intermittenza, la sproporzione, il conflitto che regola, in Fosfeni, il rapporto tra presenza e 'oltranza ': ne deriva un processo dinamico che coinvolge, assieme al ritmo instabile del tempo, quello dello spazio. Nella pagina, infatti, il segno emerge isolato, e subito scatena grumi verbali, articolazioni foniche protratte per autogerminazione tra residui muti, intervalli vuoti. Se la parola tace, non ha luogo il silenzio, ma la vibrazione materica estranea all'orizzonte della verbalizzazione. Una modulazione senza richiami alfabetici, un linguaggio «altro», somatico; che affonda le proprie radici in una inesplorata semanticità, nel pensiero alogico e periferico, nel gesto che tratteggia graffiti, tracce figurali appena delineate, embrioni di presenze o scorie di immagini. Dove sopravvivono le resistenze grammaticali, esse si affidano a declinazioni smemorate, inappartenenti (« Doglie doglie, morte morti, miei, mie, senza/ riferimento stabilità non più/ miei - né tuoi - né di loro [ ...]» -Faine, dolenzie, AOrIA): sulla griglia levigata delle corrispondenze logiche la parola slitta e s'inceppa, incapace di fissare relazioni, di mantenere il lucido distacco, l'equilibrio che esclude l'atomizzarsi del campo percettivo, lo slittamento verso l'infra-umano o verso l'oltre, l'al di là della sensazione («traoro», «tracapelli», «dopo-viso», «infraandare»...). E allora il passaggio tra segno e tratteggio è davvero impercettibile: il 189
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