ANDREA ZANZOTTO Fosfeni Milano, Mondadori, 1983 rubrica A cura di Vincenzo Bonazza Mettiamo che, nel mezzo di una trilogia, un logos decentrato e instabile smarrisca i connotati di predicabilità e si sciolga in affioramenti aurorali, allucinati, pulviscolari, archetipici. E mettiamo che la parola poetica non si curi più, o non si curi tanto, di segnalare la propria diversità rispetto al quotidiano linguaggio della comunicazione, ma tenti un'operazione in proprio, radicale, senza referenze immediate, senza obiettivi apparentemente definiti e riconoscibili. Ci troveremo tra i fosfeni di una verbalità fatta di residui, di scaglie e schegge dalla luminosità intensa e intermittente, di vibrazioni ottiche e acustiche che tentano la via del ,segno grafico trascurando regole di continuità programmata, di frequenza misurabile. Lo statuto della poesia si costituisce, da sempre, sul ritmo che regola l'alternarsi del suono e del silenzio nei termini di una necessità libera, in cui si intersecano i tracciati dello spazio e del tempo. Dal ritmo si può forse muovere anche nel caso dell'ultimo volume di Zanzotto. Per prendere atto, in primo luogo, della contraddizione 186
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