Il piccolo Hans - anno XI - n. 41 - gen./mar. 1984

pagnò il racconto di un incidente accaduto ad una vicina a cui erano state schiacciate le gambe dal passaggio di un'automobile. Letteralmente, un corpo spezzato che mostra, secondo Lacan, non una mancanza che riguardi la realtà ma proprio la mancanza di se stesso. Col tempo risalimmo ad una ricostruzione dell'episodio che ho riportato, racconto articolato in parole per qualcuno che ascolta. E con ciò uno spartiacque, un segno tra un prima e un dopo che introduceva la dimensione di un al di là del presente, un al di là dell'immediatezza della certezza delirante; la storia comincia ad essere parola, testimonianza di un'esistenza. Successivamente Beatrice mi parlò, seppure ancora velatamente, dei suoi sogni e della paura che essi continuassero nella veglia insieme ai suoi « pensieri sbagliati»: così chiamava il suo delirio nei periodi di normalizzazione. Una barriera, ancora incerta, si va profilando quale intuizione di quella bipartizione dell'apparato psichico che Freud metaforizza nel notes magico, il cui funzionamento appare inceppato nella memoria fotografica di Ireneo Funes. Mentre per Funes non c'è niente che riconduca alla sua posizione di soggetto, mentre il suo discorso è sterile, nel discorso delirante è possibile ascoltare ciò che in esso parla all'insaputa del soggetto, reperire quel nucleo di verità storica attorno al quale si è costruito. La dimensione del passaggio all'atto, invece, si esprime fuori scena, senza spettatori, con quel tratto di istantaneità, di gesto improvviso che lo caratterizza. Un luogo che privilegi l'ascolto della parola che testimonia della esistenza simbolica del soggetto, piuttosto che ricoprirlo con una qualsiasi logica nel tentativo di instaurare una normalizzazione, può diventare la scena sulla quale ricondurre la dinamica in gioco nel passaggio all'atto? Può diventare uno spazio per l'acting-out che, 169

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