Il piccolo Hans - anno XI - n. 41 - gen./mar. 1984

sto punto. Accade così che alcuni grandi artisti abbiano dimostrato coscienze artistiche piuttosto labili. Dickens ne è un degno caso ed è a voi tutti noto quanto egli, deliberatamente e coscientemente, abbia danneggiato un suo romanzo cedendo ai reclami dei lettori e chiudendolo con un lieto fine sebbene, in tal modo, venisse a rompersi la sequenza che egli sapeva essere esteticamente inevitabile. Ma la stessa esistenza di un tale conflitto tra l'artista e la massa del pubblico sta a dimostrare che l'artista, il creatore, mira a finalità diverse dall'appagamento del desiderio e che il piacere che egli sente non è perciò direttamente connesso con la libido. Freud, quantunque alcune sue generalizzazioni possano risultare azzardate, è un uomo di scrupolosa integrità intellettuale e ha in genere sempre evitato di trattare la questione dell'estetica e dell'impulso artistico sapendo, suppongo, di non possedere la necessaria sensibilità e comprensione. Altri psicoanalisti, però, sono andati oltre. Il dottor Jun g dedica un capitolo dei suoi modelli psicologici all'artista. Vorrei poter criticare ciò, ma confesso francamente di non capirne il senso. Nulla di quanto afferma corrisponde a qualsiasi specie di esperienza che io o altri degli artisti che ho conosciuto abbiamo mai provato. Infatti, non vi trovo alcuna connessione con esperienze reali. Devo quindi soprassedere e annotare semplicemente che, secondo Jung, l'arte occidentale implica un'attitudine estroversa e l'arte orientale un'attitudine introversa (Freud, ricorderete, fa di ogni artista un introverso). Chiunque conosca l'arte occidentale e orientale davvero intimamente non può che rabbrividire dinanzi a una generalizzazione così temeraria. Riconosco apertamente che una certa dose di positività mentale mi rende inadatto a seguire le speculazioni di Jung e che l'ho, forse, ingiustamente trascurato. Anche nei confronti del dottor Pfister confesso di nutrire 147

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