Napoli, maggio. IL 16 LUGLIO 1852.. Napoli ha festeggiato tutto il giorno la Beata Vergine del Carmine, e ora dorme come una sirena ubriaca. Il quartiere del Mercato, che di giorno brulica come una rete colma, a quest'ora vive unicamente di un lezzo sottile di pesce fracido e dello sgocciolio di una fontana. Pesa sulla deserta pescheria l'ombra dell'Ospizio dei trovatelli. La suora che vigila dietro la ruota si chiama Maria Esposito, perché le suore incaricate di ricevere i figli di nessuno sono, per una squisita delicatezza, scelte esse stesse tra i figli di nessuno. Una mano ha bussato; la ructa cigola e al termine della sua rotazione rivela una creaturn minuscola e i,iemente, nella quale tutta quanta si riconcentra l'entità corporea di colui che non solo sarà un artista sottile e profondo come un pozzo artesiano, ma costituirà ancora un caso singolarissimo di uomo trasmesso da un ·epor.t a un'altra, o come dire di delegato della Gre<!ia del quinto secolo presso la :--1apolidell'Onocento. In quello stesso giorno altri tre • figli della Madonna• sono entrati all'Annunziata, e a tuttì è stato imposto lo stesso cognome Cenito: Vincenzo Genito, Giuseppe Genito, Maria Giuseppa Gcnito, :--.l'ico!aGcnito. Ma l'indomani, quella medesima prt'scrza ineffabile che assisterà Gemito in tutti gli imi della vita, turba lo scrivano addetto all'iscrizione dei tro- \·atelli, e questi, per ispiruto errore, altera nel registro la consonante del .cognome. Quando rammenteranno più tardi a Gemito l'errore del cognome, egli cipiglioso ribatterà: or Gemito mi chiamo: Gemito significa dolore!•. Perché anche Gemito, come tuni gli artisti profondi, aveva il ~usto dell'etimologia. La Provvidenza, i cui \·asti disegni ci sfuggono del tutto, noi la riconosciamo invece in taluni minuti particolari della vira, come in questo far coincidere la nascita del piccolo Vincenzo Gemito, con la morte del piccolo Francesco Bes. La madre di f'rancesco, Giuseppina Baratta, piange\·a la perdita del suo piccino, che dopo soli otto giorni di permanenza quaggiù se n'era tornato al Creatore, e dalle mammelle gonfie il latte le colava in grembo, le scendeva tra le gambe, fino ai piedi. Andò perciò la donna all'Ospizio del~ l'Annunziata, e fra i tanti derelitti scelse quello cui era stato imposto il nome di Vincenzo Gemito. Reduce dalla campagna del 1861, Emanuele Caggiano si è tolta la camicia rossa, e mentre sbozza in pieno marmo la statua della Vittoria destinata a ornare la piazza dei Martiri, scorge quattro occhi puntuti che lo spiano attra\'erso la porta socchiusa. • Chi siete?, domanda lo scultore garibaldino, opponendo ai due scugnizzi la sua barba solenne da Mosè da salotto. • Sono Vicinrzo •, risponde il maggiore dei due, • e questo è Totonno •. Totonno era Antonio Mancini, e quello era l'esordio dell'amicizia magnifica tra Antonio Mancini e Vincenzo Gemito, che non terminò se non con la \'ita. Uno straordinario corteo traversa Napoli da parte a parte. La musica marcia in testa. Seguono gli elefanti, le scimmie vestite da uomini, i puledri che ballano la polca, lo stuolo dei pagliacci, le equilibr· Ae con l'ombrellino aperto, gli acrobati brillanti di stagnola, i nani con le scarpe più lunghe di loro, e infine Monsieur Guìllaume, proprietario e direttore del circo, che con la tuba rossa saluta a destra e a sinistra la folla assiepata sui marciapiedi e affacciata alle finestre. Il circo Guillaume prese stanza al teatro Bellini, che comunicava con lo studio di Caggiano mediante un oscuro corridoio, e Gemito, che nello studio di Caggiano si era messo a imparore l'arte, si trovò a tu per tu col mondo delle meraviglie. La meraviglia di quelle meraviglie era l'• uomo piovra•: una specie di crearura smontahile, vestita di viscida pelle e gli arti convertiti in tentacoli, la quale si arrampicava con orribili contorcimenti sui pioli di una scala. Volle anche Vici~11zo fare l'• uomo piovra• su per una scala altissima che stava nello studio del suo maestro, ma precipitò di lassù e giacque. sull'impiantito come un gesso insanguinato. Quattro giomi ~tette il giovinetto fra la vita e la morte, e quando fu guarito e tornò allo studio di Caggiano, s'imbattè nella Vit1oria che partiva. Poteva Gemito stare in luogo nel quale la Vitton·a non c'era più? Anche Vici.e11zo partì, la!'ciando allo scultore un ritrattino del suo cane, che si chiamava ,\1edoro e aveva un muso puntuto da formichiere. Gemito serbò fino in fondo alla vecchiaia le forme infantili <lcll'orRoglio: mimetismo ed emulazione. AveL1 delle ambizioni da scimmia. Ragazzo, volle rifare il .-numero• dell'uomo piovra, e abbiamo veduto a quale prezzo scontò quello scimmiesco ten1ati\'o. Sulla soglia della vec• chiaia, nel 1901, e avendogli detto un giorno Edoardo Scarfoglio che Succi rimane\•a un mese intero senza mangiare, Gemito, offeso nell'onore, promise di fare altrettanto. E cominciò a digiunare. Gemito non era mai stato un mangiatore serio. Si alimenta,a in maniera saltuaria. Mangiava pane e noci, erbaggi, frutta. Della carne non voleva sentire neppur l'odore. Venti giorni dopo la sfida a Succi, Gemito non si moveva più. Preoccupatissimi, la figlia e 11 genero chiamarono un medico, il quale, riconosciuta pericolosa la nutrizione orale, preparò un clistere alimen1are. :'\.lentre il medico si approssimava al letto, Gemito apri un occhio, puntò un dito contro l'esculapio, e con una voce sottile sottile ma greve di minaccia disse: .-Tu, \'erme, vorresti fare questo servizio a Vincenzo Gemito?•. Dette queste parole, Gemito si tirò su dal letto, prese dalla tavola uno scalpello, se lo poggiò sul ginocchio, lo piegò come lat1.1. Nello studio dello scultore Lista, la stessa scena si ripetè avvenuta nello studio di Caggiano. Una mattina del 1864, mentre Lista stava lavorando a uno di quei leoni di marmo che ora giacciono ai piedi dell'obelisco in piazza dei Martiri, fu bussato alla porta, e quando lo scultore andò ad aprire e al ragazzetto ritto sulla soglia domandò che volesse, quello rispose:• Imparare l'arte•; e a fine di mostrare a Stanislao Lista che una certa quale pratica del disegno egli l'aveva già, trasse dalla saccoccia un pezzetto di matita rossa e copiò un rilievo di gesso appeso al muro con tanto ardore e attenzione, che lo ~cultore ne fu abbagliato. Gemito fu assiduo, affettuoso, servizievole. Portava i ferri dello scultore al fabbro, lavorava e di violino•, teneva in ordine lo studio e continuava a disegnnre. Un giorno chiese il permesso al Lista di fargli il ritratto, e gli fece un piccolo abbozzo di creta. IncoragRiato dal maestro a tradurlo in marmo, Gemito confessò che il marmo gli era odioso, perché t non cedeva alle dita•· L'odio del marmo accompagnò Gemito per tutta la vita. ~cl 1886 gli è commessa la statua di Carlo V. Si tratta di completare sulla facciata della reggia di Napoli la serie di quelle otto statuone, che, schierate in atteggiamenti da pazzi, stanno per scendere dalle nicchie, gettare lo scompiglio nella città, incendiare le navi del porto e riaprire le porte dell'Averno. Gemito esegul il bozzetto a Parigi, durante il suo !econdo soggiorno colà, e se lo portò in Italia avvolto negli stracci come una mummia infantile, con quella tenerezza materna ch'egli metteva nel trasporto delle proprie opere, strin~endosele al petto e coprendole col pastrano perché non si raffreddassero. A Napoli, il bozzetto fu affidato al marmista Enrico Pennino, perché lo traducesse in marmo e lo portasse alla grandezza voluta. Gemito non andò a vedere la statua durante la lavorazione, non assistè al suo scoprimento; ma alcuni giorni dopo arrivò solo in piazza Plebiscito, e vedendo che il Carlo V di marmo atteggiava la destra in modo diverso dal Carlo V di ~esso, corse a raccogliere sassi e con la furia di un 0alilla, urlando e imprecando comt: un indemoniato, cominciò a lapidare l'immagine di colui su! cui impero il sole non tramontava mai. Due carabinieri erano di guardia in quei pressi, malinconici e severi sotto la lucerna nera. Si avvicinarono con lunghi passi a 'o scultore pa::::ro, gli posarono una mano sulla spalla; e Gemito, che di solito manifesta\'a una invincibile intollcninza per l'autorità, quella volta si placò di colpo: sotto la divisa del carabiniere, aveva riconosciuto Cftstorc e Polluce, i figli del divino cigno. Giustizia ci vuole. Se i figli del proprio spirito Gemito li tmttava a sassate, non è detto che i figli della propria carne li trattasse con più riguardo. A Parigi, ove aveva soggiornato due volte, nel 1877 e nel 1886, Gemito si era stretto di vivissima amicizia con Meissonier. Per Gemito, gli uomini erano simboli o come dire e punti di partenza•: in ;\1eissonier, di là dal pittore di battaglie, egli vedeva tutta quanta l'epopea napoleonica, compresa quella di Napoleone I 11, detto Lulù. Durante il secondo soggiorno parigino, Gemito aveva dato segni, non diremo di pazzia, ma di malinconia grave, ossia di umore nerissimo; onde quand'egli arrivò a ~apoli col suo piccolo Carlo V sotto l'ala del pastrano, lo raggiunse poco dopo una lettera preoccupatissima della siRnora Elise Bezançon, mo~lie di ~Ieissomer, nella quale essa diceva: « .Se m'écrit·ez qu',m mot, si t:OIJS souffre:: trop p,mr encha1ner tJotre pensée dam wu! lei/re, mais dires-no11J commmt vous ltes. A quoi u passrnt ,·os he,,rn? A'l re (Jue t·<ms rf1·ez. OEKJT01 RITRATTO DELLA NIPOTE BJOE VINCENZO GEMITO Votre femme ti votrt amour d'enfa111 doit:t,tl t.·ous/aire du bitm au cMur ... •· Dal che si arguisce che la signora Elise Bezançon, moglie di Meissonier, aveva la vista corta; perché se avesse avuta la vista lunga, tanto da vedere da Parigi ciò che a\·veniva a Napoli, avrebbe veduto Gemito afferrare il suo amour d'tnfant per le gambette, rotearlo come una fionda e sbatterlo al muro, col gesto violento e sicuro dei pescatori per troncare la tenacissima vitalità dei polpi. E anche in questo atto, nel quale i frivoli e i banali non vedranno probabilmente se non un segno di delinquenza o di pazzia, Gemito si dimostrò greco, e diremo meglio: saturnino. La Giuseppina, che nello schiacciamento delle ossa frontali serba tuttora il ricordo di quel lontano contatto col muro della casa paterna, Gemito la ebbe dalla sua unione con l'Anna Cuttolo, una modella bella e docile che aveva posato per Don1enico :\forclli, per Volpe, per De Santis, per Caprile, per Vetri, per altri, e che i pittori napoletani, come nella canzone, chiamavano Cosarello. Anche negli amori, Gemito aveva il divino e il bestiale delle di\'inità silvestri. Stabilita l'unione con la Cosorella, Gemito se la portò f casa come il ragno si porta a casa la mosca, e per quindici giorni nessuno lo vide più. Precedentemente, era stato unito con i\fatilde Duffaud, una Bovary esiliata a i\apoli, francese dalle palpebre pesanti, dal sudore odoroso, e cui il mal sottile rendeva la vita anche più cara e amorosa. ~ella primavera del 1881, in una poetica nllctta di Resina, Matilde Duffaud morì esangue. Loin dts ycux, loin du coe11r. Gemito, che alle sue donne, quando era.no vive, stava avvinghiato come la vite all'olmo, morte le dimenticava di colpo. E anche in questo non poter amare se non ciò che è presente e tangibile, c'è la stupenda e impassibile ragione del greco. Quanto alla morte di Cosarello, essa sortì su Vincenzo Gemito un effetto anche più sorprendente. Anna fu per Gemito una schiava amorosa. Lo amò, lo aiutò, lo assistè durante i diciotto anni di pazzia, gli tenne immobili davanti agli occhi rune le parti del proprio corpo, che lui con la matita, con la sanguigna, con la carhonelln senza fine ritraeva. Poi, intorno al 1()06, come un nero verme, un tumore maligno cominciò a insidiare quel corpo bellissimo nelle sue parti più segrete. Nella Galleria Minozzi, a Napoli, nella quale Achille Minozzi ha raccolto, e Ada i\linozzi Limoncelli custodisce, più di trecento disegni di Gemito, si vede dentro una vetrina un grnnde foglio di carta, sul quale Gemito ha ritratto con la matita Anna accosciata sull'impiantito, con uno straccio di camicia sulle spalle, quattro giorni prìma della morte. Chi può mostrarmi immagine più fedele della miseria umana? Quat1ro giorni dopo, Cosarella muore; e Gemito non solo la dimentica immediatamente, ma lui, che da diciotto anni è pazzo, improvvisamente rinsavisce. Quando Gemito stava allo studio di Stanislao Lista, l'Istituto di Delle Arti di :-.:apoli bandì un concorso per una statua di Rruto. Gemito partecipò al concorso, ma il suo bozzetto non ~u premiato, nonoStante l'opera di propaganda e di esaltazione fatta a favore dello scultore quindicenne da varì membri della giuria, e p:i.rticolarmente da Domenico Morelli. Capitò a Napoli in quei giorni Cesare Correnti, ministro della Pubblica Istruzione. Correnti guardò i bozzetti, approvò la decisione dei giudici, ma conferì a Gemito la commissione di riprodurre il suo Bruto in marmo, o per meglio dire commise una gajft ufficiale. Al povero Vici<"nzo fu come pestargli un callo. Per dispetto egli attaccò il mam10 alla prima e senza cominciare a or cavarlo di punti•, e quando il suo maestro lo avvertì che a quel modo non avrebbe potuto continuare, Gemito buttò via scalpello e mazzuola 'e se ne andò senza più far ritorno. Scompare Gemito come pesce che torna al forido. Scompare dopo due vani tentativi d'ìmparare l'arte, di ricevere il segreto per trasmissione e dalle mani degli uomini. E quando ricompare, lo troviamo nello scenario stesso in mezzo al quale Masaniello preparava la sua sollcvaz1one contro il duca d'Arcos. Napoli • la bella• è fabbricata sul paesaggio stesso dell'Inferno. Case e giardini sono studiatamente collocati per mascherare gli antri spaventosi, le orribili caverne, i raggriccianti catrafossi dentro i quali, al tempo dei miti, gemevano le anime dei dannati. In una di queste caverne, in cui le monache del monastero di Sant'Andrea delle Dame riponevano altre volte i fagioli del loro pasto quoti• diano, Gemito scese a lavorare tra le bisce e gli scorpioni, e portandosi dietro tutti i lazzaroncelli di Castelnuovo .::he gli facevano da modelli. E da quel labirinto sotterraneo della pia casa uscì una mattina del 1868 la prima statua di Gemito, il Giocatore, e andò a far bella mostra di sé in una sala della Promotrice di Belle Arti, ove Vittorio Emanuele la vide, l'ammirò e volle acquistarla per la sua collezione del palazzo reale di Capodimonte. Per Gemito, non c'era nulla di più grande, di pili augusto del re. Quanto ai suoi rapporti col Padreterno, erano quelli di sovrano legittimo con usurpatore, come tra Luigi XVI 11e Napoleone I. • 11 Padreterno sono io,, diceva Gemito, e non ammetteva obiezioni. E se delle molte versioni che si dànno della or pazzia• dì Gemito, e soprattutto della grnnde crisi che lo tenne chiuso in casa per diciotto anni, quella più scientificamente esatta è il mal fronuse contratto assieme con Mancini nella capitale stessa del mal franzeu, la versione psicologicamente più attendibile è quella della idea fissa, penetrata nella testa di Gemito, che soltanto il re in persona potesse confermargli la commissione del Trionfo da tavola, ordinatogli dalla Real Casa di Napoli. Per cs<'~uire il Trionfo, Pompeo Carafa, ciambellano del re, fece concedere allo scultore un locale nella reggia di Napoli. Una luce ineffabile illuminò l'anima di Gemito. Del proprio valore egli non dubitava più, ora che i lavo1i usciti dalle sue mani erano consacrati dalla benigna approvazione del sovrano. L'ombra di Alessandro, che portava la testa di sghembo sulle spalle, si delineò più precisa sull'oscuro sfondo della sua memoria. Che importa se il • locale della reggia• era una nuda e oscura e an~usta stanzetta nello sc.·mtinato delle reali scuderie? Entrare in quel bu~igattolo, fu per Vincenzo Gemito come per un poeta salire in Campidoglio. Gemito si rinchiuse nel or locale•, e cominciò a fantasticare di silfi, driadi, figure coricate di fiumi, che tutti assieme simbolicamente preludevano a quella • storia d'Italia• che il Trionfo da tm:ola doveva illustrare nello splendore dei metalli preziosi. Intanto, passando e ripassando danmti a quella porta, e trovar,d.ola sempre chiusa, negri sospetti si addensavano sotto le lucerne dei carabinieri di guardia. Di notte, sospettoso egli stesso e ossessionato dalla paura che i metalli preziosi a lui affidati per il Trionfo gli fossero rubati, Gemito, con un lanternino in manò, se ne anda\'a ispezionando J lunghi corridoi spogli, le vaste camere deserte. E una notte, si scontrò coi carabinieri. Nel buio, Gemito non riconobbe in quei due giovanottoni malinconici e forzuti i figli del divino cigno, né essi per parte loro riconobbero in quell'errante fantasma 'o sc11l1ore paz::o, che scambiarono invece per un ladro di gusti monarchici. Lo picchiarono di santa ragione, e Gemito, quantunque fortissimo, potè vagliare quanto è pesa la mano dell'autorità. L'indomani, dal sonno e dal tramortimento nel quale la collunazione notturna lo aveva piombato, Gemito si svegliò pazzò non• ché de jure, ma dt facto. Dal manicomio, Gemito evase mediante il classico sistema del lenzuolo tagliato a strisce e trasformato in corda. Tra\'ersò Napoli a piedi nudi e in camicia da nott~. Arrivò a casa come una furia, e poiché la sua donna e i suoi genitori putativi, pazzi di paura, lo volevano riportare in manicomio. lui, più pazz.o ancora all'idea di essere rimesso tra i matti, s'inginocchiò per terra, baciò l'ammattonato, giurò che, purché ce lo lasciassero, non sarebbe mai pili uscito di casa, e nonché di casa, ma dallo studiolo; e fu cosi di parola, che ci rimase diciotto anni. Diciotto anni se ne stette nello studiolo di via Tasso, seduto per terra, sotto la finestra graticolata. Di notte si rannic• chiava in un angolo, sopra una pietra da lavandaia, e dormiva con le gambe a cane di fucile. Di giorno disegnava, poi stracciava il fo~lio, a quel modo che gl'individui delle più basse classi animali mangiano i propri figli. Quando gli dicevano di uscire per riprendere il Trionfo da tavola, rispondeva che aspettava il re, perché soltanto il re poteva confermargli la commissione. Un giorno gli dissero che il re era mono cd era inutile aspettare, ma Gemito si mise a ridere. Perché lo volevano ingannare? Da quella fissazione monarchica, solo un pen-onaggio di real sangue lo poteva liberare. E un giorno Elena d'Aosta entrò nello studio dello scultore pazzo. I personaggi di gran ·sangue non sentono il puzzo. Elena parlò. Disse:• Gemito, scolpite un piccolo acquaiolo e portatelo per commissione mia a Sua Maestà la regina Margherita•. Gemito non se lo fece dire due volte: plasmò una piccola figura di acquaiolo con i suoi gesti più carezzevoli e delicati. gli cinse i lombi con un par di mutandine che a piacimento si possono o togliere o lasciare, lo gittò in argento, se lo mise sotto il cappottino come un cucciolo e se lo ponò a Roma. Ciò che fu l'incontro di Gemifo con Margherita di Savoia, ce lo mostra, sulla copertina di un numero della Domenica del Corriere del 1909, quell'iconografo della Terza Italia che risponde al nome di Achille Beltrame. Gemito fece un terzo soggiorno a Parigi nel 1924. La Ville Lumière gli ispirò pensieri di eleganza: portava un pettinino nel taschino del panciotto e ogni tanto s1 ravviava la barba. Ma Meissonier era morto, moni e dispersi gli amici di un tempo, e per affittargli unJ. delle sue vetrine su l' Avencc de l'Opéra, Goupil gli chiedeva mille franchi al giorno. Gemito era sceso all'H0tel Favart, di fronte all'Opéra Comique. Aveva scelto una bella camera al primo piano. Per commissione di un collezionista milanese, doveva modellare una testa della Medusa e andava cercando una modella coi capelli lunghi. Ma nel 1924 le donne portavano i capelli .tlla garçonnl'. Un giorno, Camilla Antona Traversi gli annunciò che aveva scoperto nel corpo di ballo delle Folies Bergère una giri, mademoiselle Adolphe, che aveva una chioma lunghissima e bionda. Appuntamento fu preso al Café Napolitain, e quando mademoiselle Adolphe, a scanso di equivoci, sciolse quella dovizia capillare, Gemito le si buttò in ginocchio davanti, e adorando esclamò: • No" mademoiselle Adolphe! Madtmoiulle Solei!!•. Un mese durò la lavorazione della Medusa. E intanto i soldi scemavano. Dal primo piano, Gemito passò al secondo; poi al ter-zo, al quarto, al quinto; e finalmente al sesto, che i francesi, dal nome dell'architetto Mansard, chiamano ma,isarde. Salire pili su, non ern possibile. Dalla mansardt dell'H0tel Favart, Gemito passò direttamente ~ Villa Scoppa. Tornò alle sue abitudini napoletane. Dormiva con la redingort e la rosetta della Lcgion d'Onore all'occhiello. Viveva con la figliola Giuseppina e col marito di lei, Giuseppe De Cristoforo. Al nipotino impose nome Alessandro; e poiché ad Alessandro un Bucefalo ci vuole, gli fabbricò con le sue mani di fanciulla un magnifico cavallo di legno, enorme, articolato e degno veramente di un re. Mon nel 1929, a settantasei anni, che non è una grande età, in rispetto alla straordinaria longevità dei pazzi. Morl parlando di Alessandro. Dall'alto del Vomero, una voce gridò: • O t mmègas tèth11~ke11! •· Ma come le voci che al tempo di Auj(usto avevano annu,,ciato di notte dalle coste dell'Epiro la morte del dio Thamuz, anche questa voce non fu capita. Dal Parco Grifeo il corteo scese lentamente tra gli eucalipti. Il mare bri}. lava sotto il sole, in segno di lutto i negozi avevano chiuse le porte e accesi i lumi. Arrivati davanti alla marina, i becchini d\m tratto si sentirono la bara più leggera sulla spalla. Corse un po' di scompiidio trn i personaggi ufficiali. C"n sìgnore in tuha levò la mano a indicare il golfo: scortato da due delfini. Gemito navigava verso i mari della Grecia. ALHERTO SAVINIO
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