Omnibus - anno I - n. 35 - 27 novembre 1937

IL SOFM DELLE D'IUSll ITALl&II ill.W )])~~@]& e HE POSTO occupa la letteratura italiana nella cultura media francese? t. presto detto. Dei classici si conosce Dante perché descrisse « a vivaci colori » l'inferno, il purgatorio e il paradiso; ma soprattutto l'inferno. Boccaccio perché è diventato sinonimo di galanteria ridanciana. Petrarca perché è stato ad Avignone, e questo dà materia di molte conferenze ai membri del ·comité France-Jtalie. Machiavelli per le sue idee e diaboliche > che terrorizzano i buoni radicali o li attraggono come un frutto proibito. E per i classici, è quasi tutto. Dei moderni si conosce Alfieri perché ha detto male dei Galli. Pellico, enormemente, non si sa perché (ma non si sa nemmeno in Italia), e molti ritengono onestamente che sia il più grande scrittore italiano dell'Ottocento (« La littiratu.re italienne? ... Ah1 mais ou.i1 uou.s ave.e Pellico.' > : discorso da noi udito decine di volte). Manzoni, molti sanno che esiste ma pochi lo leggono, ritenendolo per lo più troppo serio e lroppo denso. Gli intellettuali scoprono adesso Leopardi e, a dire il vero, ne sono incantati ; ma non conoscendo, salvo rarissime eccezioni, l'italiano, non arrivano più in là di un entusiasmo generico per le idee che Leopardi esprime, non per la grandezza della sua arte. Carducci è abbastanza noto e l'Inno a Satana è quasi popolare. Di Pascoli poco si parla. D'Annunzio lo conoscono tutti, ma per ragioni per lo più extra-letterarie. Quanto a Verga, tre o quattro specialisti lo hanno letto attentamente e si sforzano invano di farlo ammirare dai loro connazionali. Veniamo ai più recenti. Chi non è rimasto a Giacosa, a Fogau.aro o a Rovetta, si è spinto fino alla Serao e alla Deledda: ma senza eccessivo tra- ~porto, né si può dire che queste scrittrici incontrino il successo, poniamo, di una Emily BrontC. Si conoscono le opere più importanti di Pirandello e di Papini, si comincia ad apprezzare Palazzeschi (soprattutto per merito delle Nouvelles Littéraires) e si legge qua e là Moravia. I raffinati non risparmiano elogi a Ungaretti, a Cecchi, a CardarelH e a pochi altri, ma fuori del loro cerchio questi nomi trovano 'ìCarsa risonanza. Ci sono dieci francesi che conoscono Malaparte per cento (o mille) italiani che conoscono Cocteau. E si traduce un po' a casaccio, Ojetti, Repaci, Puccini, Fiwni, ecc. .vla son messi quasi tutti sullo stesso piano, con qualche lode sbrigativa e frettolosa dei recensori. Nessun libro nostro raggiunge le tirature di certi discutibili romanzi inglesi, americani, russi o scandinavi. Si direbbe che nei salotti della media bor- • ghesia non sia chic parlare di letteratura italiana, e che negli ambienti più all'avanguardia se ne parli per pura nravaganza. Il fenomeno è per lo meno strano, da parte di gente che pure non manca di curiosità, E non si può spiegare col partito preso perché, ad esempio, nella pittura, nella musica (senza parlare del canto). nelle scienze e nello sport nessuno ci nega il posto al quale abbiamo diritto. li fatto è che per i francesj noi non si"mo scrittori interessanti. .e di ieri questo ~iudiz.io di una rivista che va per la maggiore, a proposito di una recente pubblicazione italiana alla quale collaborano alcuni fra i nostri giovani più ambiziosi : « .\1ais qu.tlle /ittératu.re subalter·,,el PIER ANTONIO Quarantotti Gambini, prima del romanzo La rosa rossa (Treves, Milano 1937), si era fatto leggere per tre lunghi racconti, raccolri nel volume: J nostri simi'li (Solaria, Firenze, 1933). Erano storie narrate autobiograficamente, sebbene la autobiografia fosse lontana da esse. Un per10naggio narrava i casi suoi: eppure non accadeva mai di trovare nelle sue narrazioni qual~ cosa che apparisse nella luce discretamente familiare alla memoria dell'autore. Gli ambienti medesimi variavano: ora una cittadina istriana, poi una scuola di allievi ufficiali, poi di nuovo un paese dell'Istria. Soltanto i personaggi avevano risalto sullo sfondo: pochissimo il descrittivo, e, sem• mai, legato, necessario a quelli. Nel suo recente romanzo La rosa rossa, che già apparve in Pan, nel 1935, Quarantouj Gambini resta ancora il narratore vblto a precisare acutamente personaggi; in più, tuttavia, c'è un'attenzione quasi affettuosa alle G<>Siestriane che nei racconti precedenti mancava. Non più, come allora, "8&!, t, ll 1ut.o oeuuurio dJ Glott.o", - 110om• p11H il tempo!" Et quel rablichage dans la crìtique! >. Ecco la chiave del mistero : « letteraturn subalterna > : cioè, secondo Parigi, peggio che inferiore, perché inferiorità non esclude indipendenza ; subalterna, e quindi soggetta al dominio delle altre letterature. Il giudizio è superficiale, s'intende, ma soltanto in senso assoluto; applicato ad alcune nostre produzioni è purtroppo esatto. Troppi nostri scrittori, presi dalla superstizione di essere « al corrente >, scrivono seguendo le orme dei francesi, inglesi, americani più in voga. Abbiamo invece potuto notare che quando i nostri rimangono profondamente italiani nello spi.rito e nella forma, magari i francesi continuano a non leggerli, ma, quasi per istinto, li rispettano di più. Bisogna anche aggiungere che non sarebbç troppo difficile far ricredere i nostri vicini dal loro _giudizio negativo. Il lettore francese medio, meglio ancora del raffinato, desidera imparare e non nasconde la sua naturale alt.raz.ione verso le cose italiane. Se conosce un po' la nostra lingua esprime lea·lmente il suo stupore per le scoperte gradevoli che viene compiendo. Abbiamo sentito parecchia gente sostenere che Barilli, Comisso, Alvaro, Cecchi e molti altri scrittori nostri son più artisti e mostrano più ingegno di tanti romanzieri e saggisti, i nomi dei quali son sulle bocche di tutti in Europa. Il guaio è che in Francia l'italiano lo conosce una piccola minoranza, e che la cosiddetta élite, salvo le solite eccezioni, non lo conosce affatto. Ma di anno in anno, sotto questo punto di vista, la situazione migliora; e possiamo preved~re che un giorno non lontano anche i più esigenti si decideranno a seguire l'esempio dell'uomo medio; e che dopo averci meglio conosciuti, intendano che fra noi la « letteratura subalterna> è un fenomeno trascurabile di fronte ad una fioritura di ingegni originali che anche le più vecchie nazioni letterarie ci potrebbero invidiare. SILVIO PARINI Quarantotti Gambini ama luoghi e situazioni eccezionali; tanti lettori, i quali con sorpresa lessero le pagine dei •Tre crocifissi•, dove gli ambienti e le cose erano viste felicemente in una allucinazione, pub dani che ora restino, dapprima, delusi. Siamo di fronte a un autore più piano, lieto spesso d'un'aria, diremmo, veneziana e goldoniana. Comunque, non si tratta che di apparenze: l'immaginazione di Quarantotti Gambini non è nell'intimo mutata. Dive• nuto narratore più bravo, ha apparenze più tranquillanti; par quasi che eviti i momenti d'eccezione; e invece hon è cosl. Tutto il suo romanzo intende, ora più che mai, cogliere momenti eccezionali; forse di nuovo c'è questo: cib accade meno esternamente. Qualcosa di simile 11i poteva dire già fin da •La casa dei melograni•, il terzo racconto dei Nostri rimi/i. Insomma, mentre avanti Quarantotti Gambini pareva ambisse a descrivere personaggi e luoghi straordinari, ora mira consapevolmente a cogliere lo straordinario nei personaggi e nei luoghi più comuni. U .'.'10 tra i più notevoli romanzi pubblicati quest'anno negli Stati Uniti è di un negro, un negro che scrive in inglese, quell'inglese d'America che, pur essendo diverso in ogni scrittore, in ogni scuola d.i. scrittori, ha qualcosa di così costante in tutti da potersi già quasi chiamare americano. La scrittura di questo romanziere di colore non è im• paraticcia; mostra che egli pensa e scrive in un modo molto vicino al modo di pensare e capire di tanti scrittori americani bianchi. Si chiama Waters Edw1lrd Turpin e ha ventisette anni. Nativo di non so prechamente che luogo delle provincie meridionali bagnate dall'Atlantico, ha fatto gli studi che laggiù può fare un cittadino di colore : ha frequentato la scuola elementare negra di un villaggio negro, poi è stato al Morgan College (negro) di Balti• mora, poi al Teachers College (non negro) di Columbia; e ora insegna aJ collegio negro Storer di Harpers Ferry nel West Virginia. Imparare per insegnare, questa sua pratica di vita costituisce anche il sottinteso messaggio che nel suo primo romanzo Turpin porta agli uomini di pelle nera. Egli infatti 4Cmbra credere che l'inferiorità dei ne$'ri, almeno in America, di fronte agli altri uomini, sia, come forse tutte le inferiorità, di natura culturale; se non nell'individuo almeno nella razza, nella massa. Nel senso, vuol dire, che la razza ha ancora il sangue vergine, o quasi vergine, di cultura; nel senso, insomma, che un negro ancora oggi nasce senza nulla o quasi nulla di già scontato e superato in lui. Perciò esorta, anzitutto, a imparare, ossia a elevarsi individualmente, e poi a insegnare, ossia a render comune della razza quella elevazione in modo che lo sforzo di ognuno entri nel sangue. Si trova così a p0Nella Rosa rossa tutto sta all'apparenza più tranquillamente. Vi si racconta una vicenda che ha poco di nuovo. Siamo in provincia, fra gente modestamente patrizia. Due vecchi sposi non altro hanno da fare che attendere la morte nella quiete della loro camera gialla. Hanno le loro piccole manie, i loro ricordi. Piero, il marito, per esempio, si picca d'aslronomia; Ines, Ja moglie, ha un bauletto dove tiene i suoi ricordi. C'era materia per un quadretto di genere, e veramente Quarantotti Gambini sa rie'(ocare bene una vecchia Istria, che ancora sente gli echi dei valzer viennesi. Tutto è quieto finché non arriva in cua un cugino: il conte Paolo, cx-generale dtgli Absbu.rgo. Questo personaggio, che è fone il plù drammatico della Rosa rossa, rompe lo stagno della vita familiare. Ines ~ Piero si destano per un attimo, cd è in tale attimo che accadono fatti che dovrebbero stare al centro del romanzo. L'arrivo del generale scompiglia la vita di Ines, di Piero e anche di Basilia, qualcosa come una governante che, abitando in casa da lemizzare contro i negri che cercano di salvarsi individualmente e dalle terre di dolore del sud migrano in Harlem. No, egli dice, un negro che si è e elevato>, ogni negro che si è « elevato>, deve1 proprio perché si è elevato, restare (o tornare) nelle terre della persecuzione, del dolore e dell'antica schiavitù a « elevare > gli altri. Tutto questo, che pur sembra estraneo all'arte, ispira punto per punto l'arte di Turpin. Ed è ispirazione artistica poiché, sotto l'apparenza d'intellettualismo, è amore del cora~o, rispetto per il dolore, fede accanita negli uomini per una realtà più alta. T hese low grou.nds (editore Harper & Brothers, New York) si chiama il romanzo: un titolo che abbraccia un si• gnificato di terra e di bassezza umana insieme, ma senza disperazione. A rappresentare il terrore in cui vivono i negri delle provincie sud-atlantiche v'è, aJ centro del libro, un episodio di linciaggio. t episodio che non riguarda direttamente nessuno degli « eroi , del romanzo e che non lega con le vere e proprie vicissitudini di questi. t come un'ombra. Un povero operaio negro qualunque che, in seguito a una disputa per questioni di salario col padrone bianco in cui escono feriti entrambi (ed entrambi, si pensa, allo stesso modo colpevoli), è strozzato dalla folla nel suo letto d'ospedale e impiccato in pia-za. A questo punto, si rivela il carattere dei vari personaggi: di questi negri che fuggono verso l'aria libera di Harlem e delle grandi città; di quelli che, potendo fuggire anch'essi, preferiscono invece restare; e della massa impotente che resta perché non può fuggire e che, nel pànico, è avida di fuga. Jimmy Lew Prince è l' « eroe » che resta, e Turpin lo esalta per il suo coraggio, ma si guarda bene dal farne un decenni, ha quasi l'aria della parente povera. Il generale da anni era assente dalla casa, che è anche dei suoi avi (Quarantotti ha una gran predilezione per l'intrico dcUe parentele, e per l'imbroglio dei cognomi .nobili istriani); e ora vi torna del tutto mutato. Ma il racconto non si ferma a una discreta poesia evocativa. L'occhio del narratore è tutto sui penonaggi della commedia. Ognuno 'recita la sua pane: Piero improvvisamente, sorpreso dalle novità, trova un'evidenza che lo fa diventare forse il penonaggio meglio riuscito di Quarantotti Gambini. Il generale sarà il personaggio più interessante; Piero è quello più comicamente vero. La commedia vorrebbe trovare il suo senso in una misteriosa rosa rossa. Una rosa rossa trovò il generale una mattina nella sua camera, quando, semplice ufficiale subalterno dell'imperatore, dopo un breve soggiorno fra i parenti, stava per partire. Non ci aveva più pensato: il ricor.do ritorna nell'ozio. Ma ecco, una rosa rossa, di nuovo, dopo tanti anni, apparire nella sua stanza. t Basilia, la zitella di casa, che ve la porta, e il generale si commuove di tale scopena, e di sapere alla fine chi gli aveva dato, in quel tempo, un segno d'affetto. Ma le cose non stanno cosl. La rosa rossa di tanti anni avanti non l'aveva portala Basilia, ma Ines. Come ora, anche essere perfetto, un «buono>. e Eroe> per eccellenza, Jimmy Lew Prince è tale solo in quanto riesce (e questo non sempre) a vincere la propria e bassezza > : perciò non di rado appare duro, ingiusto, maniaco. Nel mostrarci questo, la persistenza del male tra lo stesso fiorire del bene, e addirittura la collaborazione del male al bene ove si abbia fede nel bene e nel meglio, Turpin ha una mano umanissima da gran.- de scrittore. La vita dei negri a Baltimora, Filadelfia, New York, ne11e cucine, nelle botteghe, nei locali notturni di Harlem, e nelle scuole, o nelle terre della persecuzione, pei campi dove sr coltiva il cotone e il tabacco, e nei posti di mare e di fiume dove si preparano le ostriche in scatola, attorno alla cittadina dove avviene il linciaggio, è resa in momenti essenziali che sempre suonano di quel dolore, e sempre portano a quell'accento di fede. I rapporti, in codesta vita, dei vari persona~gi tra loro, l'amore di Jim Prince (nonno del nostro Jimmy Lew Prince) e di Carrie, la crudeltà di Jim verso Carrie, la fuga di costei con le figlie e poi la sua tresca con Lew Gruny, uomo di Dio, nata da un'irresistibile attrazione fisica che i due provano mentre sono in chiesa a cantare spiritu.als, la tresca contemporanea di Martha, figlia di Carrie, col figlio di Grundy, l'assassinio involontario che Lew Grundy commette in persona di Carrie, sono condotti con una veemenza realistica che certo ha le sue radici letterarie nei romanzi di James Farrell, ma che sale, per quell'accento di fede, a un andamento quasi epico di cui può avere un'idea indiretta chi ha visto, al cinema, Alleluja di Vidor. Quello che più conta, in tutto questo, è che nessun grido di accusa contro il bianco ne viene fuori. Gli uomi• ni bianchi, che passano nello sfondo, sono più o meno buoni e più o meno cattivi come i negri. Eppure il libro intero è, per la sua bellezza, un grido; ma non di razza, non di parte; è un grido di semplice umanità che non vuole H male. E suona come nella notte un pianto di fanciullo malato che non si sa se è bianco o negro. ELIÒ VITTORINI il lontano soggiorno di Paolo aveva portato gran scompiglio nella casa: uno scompiglio sentimentale. Intanto il generale muore improvvisamente; la mattina stessa della sua morte Piero scopre da certe let~ tere trovate nel bauletto di Ines, lasciato aperto da lei nèlla confusione, come sua moglie abbia avuto un amore segreto. Quarantotti Gambini è abile in questa commedia di sentimenti, e la sua abiliti. par che si fenni tuttavia alla scena della morte del generale e della scoperta di Piero. Piez::oin seguito potrà si mettersi il cuore in pace, perch~ non Paolo era quello delle lettere, ma un ungherese d.i passaggio, e si trattb d'un'amicizia del tutto • spirituale•; comunque, a questo punto, la commedìa dei vecchietti presi drammatica~ mente dai ricordi, si sperde per un momento dietro ad altri intrighi. C'è Basilia, c'è il suo misterioso affetto per il defunto generale. Basilia si avverte fin dal primo capitolo che non è personaggio secondario del romanzo. Quarantotti Gambini la se• gue in un certo suo strambo amore; e ne1le pagine di questa storia amorosa sta certa debolezza della Rosa rossa. Sono pagine forse, più che raccontate, riempite di fatti. Comunque, il motivo dominante resiste: l'arrivo del generale ha portato tanto scompiglio, la sua morte è avvenuta in una situazione tra drammatica e comica; poi ,,aaDII ~~ffill@~lW® 1 I GRANDI AVVENIMENTI, come le guerre, finisconoacmpre con l'avere una loro letteratura( o, per intenderci m.eg , una loro poe11a. La campagna abu: sina ha già i suoi libri, aggiungendo a1 quali le corrispondenze di guerr.a dei gior• nalisti -potremmocavarne una singolare antologia. Ma un1-letteratura di guerra si svi: luppa auai lentamente; e può trovare J suoi autori quando ormai l'avvenimento t tutto nella memoria. Comunque, è naturale che, per quello che riguarda l'Etiopia, i taccuini e i giornali di battaglia siano venuti fuori subito; specie quelli che, tenuti di giorno in giorno, sono il diario d'un tempo ormai definito nella nostra memoria. L.a campagna etiopica non è definita nella nostra memoria soltanto da due date: il due ottobre, giorno del passaggio del Mare~, e il oc:i maggio, giorno dell'ingresso m Addis Abeba del Maresciallo Badoglio; questi i limiti militari; ma il tempo della campagna etiopica è molto più vasto nella • mente degli italiani. Va dal rebbraio del 193◄, quando cominciarono le prime partenze, alla primavera del 1956, giorni in cui si attesero grandi eventi. La campagna abissioa ha avutd un fronte africano, ::~l;er~rn::~1t tn:,;p/i~=:~e Ni~ 11 ~e:; delle sani.ioni, e di tutto questo è certo che dovrà tenerne conto la letteratura. Potremo avere romanzi e racconti che documentino quel tempo; mentre ora soprat• tutto abbiamo i diari diretti della campagna..dovuti a combattenti di ogni arma. Alessandro Pavolini ha scritto con Disp,. rata il romanzo i.li una squadriglia, e tanti altri 1Crittorihanno pubblicato il loro giornale etiopico. Fra i taccuini di battaglia, singolare è quello di un capitano delle truppe indi• gene, pubblicalo in Fr-ancia, presso Plon, in una cdii.ione adornata di di1egni tolti anch'eui dal taccuino della campagna. li capitano Caccia Dominioni di Si11avengo non mostra ambiz.ioniletterarie. Avuto modo di pubblicare all'estero i suoi appunti di combattente, ha creduto di rare soprattutto opera di propaganda. Qu~te testirnonianz.c dirette a stranieri hanno una Ìln• portanza non soltanto letteraria. Comunque, nelle pagine del suo Amha,a~ Paolo Caccia Dominioni ci fa vedere come il suo non sia un diario grczw, 5Critto per cato. D'altra parte, non ne esistono di diari scritti per caso; e l'abitudine di prendere appunti quotidiani ~ propria di una categoria di persone singolarmente coltivate. Paolo Caccia Dominioni racconta piccoli aneddoti; non fona mai i s11oiricordi con fini romanzeschi: vuole, in primo luogo, fare capire quanto grande sia stato lo afono d'un esercito nella 1ua marcia in un territorio non soltanto straniero. Queste mc.morie dimostrano, a chi ha stimato la g1..1•e•1 abissina una campagna 1pccialmente militare, come lo spirito dei combattenti foue un po' quello dei pionieri che conquistano pet.t.oper pezzo un paese, non soltanto con le anni. Ci accorgiamo di es.seredi fronte a una grande marcia di pionieri. Il nemico non è certo qucUo primitivo che avevano a combattere i pionieri dell'Ovest aroe• ricano; ma un esercito non privo di qualità belliche moderne. Tuttavia le divisioni italiane non si trovano soltanto di fronte un nemico, ma il paCK africano. La novità del paese tropicale non poteva che imponi al 'iOldato italiano. Il pac1c africano ha apparenze sconcertanti. Paolo Caccia Dominioni parla, a un certo punto nel suo taccuino, di terre sataniche; ma la sua non era che una impressione quasi diremmo letteraria. ln(attl, un suo collega a qµetla definii.ione si mette a ridere: e Perché sataniche? E un terreno buonissimo, Non bisogna mica giudicarlo al ouo a.petto lunare! Basterà disciplinare le acque, scavar quakhe canale per l'irrigazione e vedrete che paese rertile ne verrà fuori >. L'occhio del soldato pioniere può avere abbagli soltanto per un istante, In fondo, non lo interessa il pittoresco; lo esclude anzi ; e va piuttosto diritto a valutazioni pratiche. Paolo Caccia Dominioni ha scritto il diario del ooldato pioniere, e un po' anche quello dell'italiano colto, e forse dilettante d'a'rte, che viene a trovarsi in campagna. Caccia Dominioni mo1tra il suo animo in certe allusioni estetizzanti, e in certo calmo considerare. Di questi italiani che potevano bcniuimo restare nella tranquillità dei loro studi e dei loro diletti, e ehe invece vi hanno rinu,pdato• signorilmente, la campagna etiopica non det•e averne avuti pochi. GIULIO DAZZI le cose è destino che si appianino. L'ul• tima pagina ritrova quello che è il vero accento di tutto il romanzo: • A poco a poco i due vecchietti cominciarono a sentire un sopore che non potevano più riscuotere. I giorni somigliavano ai giorni, e le ore alle ore, e la loro vita era come una lunga giornata sul palchetto in camera gialla •. La commedia goldoniana finisce con una melanconia amara che rammenta alcuni narratori russi. Viene in mente Gogol, quello delle novelle. Forse molti lettori italiani penseranno a Fogazzaro e a Svevo, e saranno nel vero. Ma i personaggi di Fogazzaro avevano altre cure, che poi erano quelle del loro autore. Nel caso nostro, tutto il contrario. Le cure e le manie dei personaggi contano qu ·, soprattutto, per dare luogo a commedia. In quanto a Svevo, è certo l'au. tore cui Quarantotti Gambini deve di più Gli è regionalmente vicino, e da lui devono essergli giunti i più utili insegnamenti. Quel guardare le cose con gran4 dissima calma, quel cercare nei caratteri i momenti più fuggenti, tutti gli autori della Venezia Giulia lo devono a Italo Svevo. Svevo specialmente h1 iniziato una tradizione narrativa italiana vicina non per diléttantismo a molti narratori europei. ARRIGO BENEDETTI

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