SONO APPARSI, in qutltc ultime settimane, due volumi di scrittori toscani: uno, di Guelfo Civinini, si intitola alla buona: e Trattoria di paese > (Mondadori, Milano), e sono prose descrittive, lievemente lirichr, che, raccolte insieme, l'Editore ha voluto presentare come romanto, con tutti gli inconvenienti che produce simile innocente contraffazione, ,-ia ai danni del pubblico che dell'autore medesìmo ; l'altro è di Bruno Cicognani: e L'omino che ha spento i (oc.hi > (Trcves, Milano): titolo moraleggiante, sebbene di cono decisamente regionale. Quell'osteria paeiana di Civinini, e quest'c omino dai rochi> in luogo di e uomo>, sono come scJ,Cni che 2,ecomunano due scrittori divcniuimi. I racconti di Civinini, che, giorni fa, hanno avuto un riconoscimento risonante col Premio Viattggio, sono bouetti bonariamente idilliaci. Dell'idillio hanno l'animo e i personaggi: la loro psicologia, già di per s~ esile, viene ad ogni capoverso sacrificata aì fini di un bel qi!°adrctto con donne e uomini che sono pa.storeUe e pastori d'Arcadia, Anche i poveri diavoli hanno una loro belle:u.a; tutto vuole euerc visto con occhio volontariamente poetico. Cicognani, poi, è l'autore della «Velia>, un romanzo fra i più fitti di cose che siano stati scritti in Italia: fitta la psicologia dei personaggi da apparire tormentata, fitto il colore lf>Calc, da ammauatt qua e li la linea del racconto. Due scrittori diversi, Ch·inini e Cicognani: ma n.i.nno insieme lo stesso per un attaccamento ormai raro alla loro regione. L'ultimo volume di Cicognani, che è tutto di bozzetti e prose descrittive, ha u.na trìstcua che si stempera in vaga melanconia. Semmai, di questo scrittore meriterebbe citare un ultimissimo racconto non ancora in volume, e apparso su di una rivista: quello del vecchio scapolo che, corteggiando la vedova, si innamora della serva, e la porta con sé, fino a che questa gli morirà consunta. Cicognani ha il gusto di certa società. fiorentina, e di certe situazioni: lui, poi, nel raccontare, carica le tinte, quasi per dare corpo alla narrazione. Civinini e Cicognani li vediamo insieme per il loro attaccamento alla tradizione ldtcraria toscana. Altri scrittori, nati in Tnv,rna, portano della loro regione lont:im»imi $4:gni; spesso rivelano la loro na- ~ita ..op,attutto nei loro pregi; come in certa asciuttezza sia dell'immaginazione, sia dello stile. Mentre questi due dimostrano di eucre toscani in tutto: non solo nelle vìrtù, anzi spesso nei difetti. e La Voce >, che ~ da un lato aiutò nei toscani certa loro attitudine naturale all'irn.prcssione e al bou.etto, da un altro svegliò in loro 11·1a avveduteua critica che prima mancava, quasi non cs.i1te per Civinini e Cico• gnani. Esiste per Palazuschi e per Soffici: due scrittori, forse per ora gli unici, che possano mettere in bocca aì loro personaggi parole vernacole senza farci inorridire. 11 Palazzcschi di e Carburo e Birchio >, quella novelletta del e Palio dei buffi > scritta in fiorentino, eppure per nulla dialettale: il Soffici di « Elettra> e delle e Vedove>, cioè di e Arlecchino>. Civinini e Cicognani, sebbene all'appa• renza se ne distacchino mille miglia, uno con un tono crepuscolare che gli deriva da Gouano, l'altro con un animismo che, certi momenti, rammenta Pascoli, certi altri, la letteratura ru.ua, uanno subito dietro fucini. Il destino di molte pagine è di restare regionali anche se scritte in buon italiano. La regione, in tali casi, è come un atteggiamento morale. Cosl con1ìnua ad esistere pur oggì una letteratura regionale toscana. Forse siamo all'ultimo, e se ne ragiona soltanto, come nel nostro caso, quando ci si incontri con icrittori che la sollevino un poco dal grigiore in cui giace. li clima, a quella letteratura, glielo dà una Firenze provinciale.., o una campagna, un contado visti con occhi degli abitanti della città. t. la Firenze che abbiamo conosciuto tutti in Palazzcschi; ma Palazzcschi è lo scrittore moderno che descrive con distacco quei luoghi e quelle persone. La sua moralità non ! più quella della gente che descrive: proprio da tale conditlone viene fuori una poesia piena di novità. Al contrario, gli scrittori toscani che si diceva. La loro moralità finisce sempre col• l'essere quella medesima delle persone di cu.i raccontano fatti e precisano sentimenti. t il ca10 di Renato Fucini: qu.i soprattutto la loro parentela con lui. e Scampagnata >, uno dei racconti più singolari dc e Le Veglie>, è fin che si vuole pieno di verità., ma quanla indulgenza a facili effetti! Il ragatt0 infernale che scompiglia le naturali finzioni fra ospiti e ospitanti; le donne che caricano l'ospite di commissioni quando costui se ne va, no" sono infedeltà al vero, sono scmplicen,~ .• e un vero a portata di tutti. Fucini, in fondo, la compativa quella brava gent~: era dclia sua rana. Cosl tanta letteratura italiana e toscana sul finire del secolo. Letteratura indulgente verso i lettori. Chi racconta non ha da dire nulla di nuovo a chi legge. t come per le storielle comiche: se u.no le ripete fra sé, non ci prova gusto: oc.. corre essere in due per trarne certa soddisfarione: uno che dica, uno che ascolti. Fucini si ritrovò ad essere uno che dice; e sempre ebbe a farlo con la modestia di chi butta avanti le sue parole per un impegno provvisorio. Di Il la sua fortuna presso i lettori che finivano col trovarlo amabile; di U la sua precarietà di scrittore. A Fucini mancò quel tanto di impegno letterario per cui uno scrittore fa diventare nuove le cose magari vecchie ehe va dicendo agli altri. Quel tanto di impegno che permette di imporre i propri personaggi. Fucini lasciava che i suoi pcrsO• naggi glieli imponesse a caso il gusto della gente: l'andano fra narrativo e aneddotico delle famiglie toscane e italiane trent'anni fa. Né sono pochi gli scrittori ita• liani che si an-c1ero a quelle imposizioni. Anche fuori non mancarono; ma se Mau· passant e Ceco( hanno l'aria di accettare i tipi che i loro lettori imponevano, era che quei tipi appartenevano già. a una letteratura. Flaubert e Tobtoi avevano già dato il via; avevano mcs.so autori e let• tori sulla pista di importantissime scoperte. Maupassant e Ceco( sono quello che avrebbe potuto essere Fucini se dietro di sé aveuc avuto, non il buon senso familiare toscano, ma una seria letteratura verista. Al contrario, l'ottimo Neri resta un po' la continuazione di certa stampa umoristica toscana: di essa, svolge con maggiore intelligenza il gioco e per gioco ne ddlnìsce i caratteri. t come un burattinaio che, per ottenere successo, sa che deve far dire certe cose ai suoi pupazzi. Ma Fucini, se non si può dire che abbia avuto precedenti nei Toscani dell'6oo come il Nobili, il Pclosini, i1 Pratesi, non ha avuto veri e propri continuatori. Civinini e Cicognani mirano evidentemente altrove; giova a lutti e du.c una diversa educazione, che si può identificare all'ingrosso con la poesia crepuscolare per l'uno, e con certo animismo fr;. russo e pascoliano per l'altro. La parentela tuttavia resta; cd è nella loro fedeltà alla Regione. Una fedeltà rara ormai, della quale, sia bene o male, oggi molti scrmori italiani non con• tinuano a sentir bisogno. ARRIGO BENEDETTI RENATOFUOilfl ALLA PESCA UN TITANO A ~o~:. 0 1i8~~:!c~:o,B:~;o:e:n<B;~~~: logo ragionato delle opere principali del B., si apre con una dedica a Gabriele d' An• nunz.io: e In queste pagine consacrate a Beethoven, paragono l'autore delle Nove Sinfonie a Michelangelo. Non a caso d:i.lle vostre opere splende la luce dei due gent. Michelangiolesca è la Lou1 Vitoe che intcr• prcta, con potenza pari a quella dell'artefice esaltato, le Profezie della Sistina: bce• thoveniano ~ il Più che l'omor,, dominato dalla " maschera del sordo Beethoven " la quale " insegna il coraggio e la solitudine, la pazienu. e la lotta ailcnziosa ". e La vostra vita è stata coerente con le vostre parole. Voi avete attuato quella con• ceùone eroica che ispirb a Beethoven, nel periodo centra1e della 1ua vita, l'Eroico, la Sinfonio del Dutino, il Concerto dell'lmperotore >. Ma non è tutto, perché Beethoven era anche buono, come Minuzzolo: infatti scri• ve il Bruers: e Beethoven non è stato soltanto il genio che all'Eroe ha innaluto uno de.i più grandi monumenti d'arte; ma anche è stato il celebratore della bontà, colui che ha sentito e interpretato la vita degli umili>. Dopo la dedica viene l'avvertcnz:a, come è naturale in un libro di 90 pagine. Dice l'avvertenza: e Questo libro è dovuto a una circostanza eccezionale: l'csccuz:ionc di un ciclo beethoveniano, con musica incisa per radiogrammofono, svoltosi in ca- ~ mia, dal secondo semestre 1936 al primo semestre 1937, con interventi) di amici, uniti a mc nell'amore per la musica e nel culto per l'opera di Beethoven. A servigio dei compagni, cominciai a compilare, per ogni esecuzione, piccoli commenti che, via via, anche per l'affettuosa, crescente c,igcnza dei bravi ascoltatori, assunsero le proponioni di veri e propri programmi da concerto>. Ed ecco qualche pensiero sparso, qualche perla tolta dalla collana: e Beethoven al contrario (di Rossini e Mo1.art}, é un apostolo> (pag. 27}. e Egli nasce nel dolore> (pag. 27). e Datore di forza> (pag. 18). e Nella Ginestra il dolore umano diventa dolore universale; nella Nona cede alla Gioia univcnale > (pag. 30). e Platonico cristiano nelle idee, plutarchiano nell'etica > (pag. 30). « L'arte di Beethoven è wcialc > (pag. 30). A pagina 31 si rivclaoo l'estremo coraggio .. I, profC'fl.da novità di vedute critiche dcli' Autore: e Cito a paragone Dante. Ma esiste u.n altro artista, il solo che con Dante poua essere accostato a Beethoven ... >. Indovinate, indovinate un po'? e Michclange• lo... >. Infatti: e Analogie profonde csiuono fra il ca~ttcre morale e fisico dei due gcnL.> (pag. 32). (Gcn! è sempre scritto con l'accento circonflciso · sull'i in tutto il libro}. A pagina 36 ecco un'affermazione che l&Kia perplessi: « Descrivendo l'opera 123, io anerirò la cattolicità di Beethoven > ! e: B. fu cattolico per quella sua caratte· ristica tendenza di equilibrare lo spirito con la materia ... il tetragono ottimismo è uno degli elementi fondamentali a dimostrazione del cattolicismo di Beethoven > (pag. 37). « Il cattolicismo é commedia, non tragedia> (pag. 37). Ma che cosa è dunque Beethoven? « ... il propagatore di un Verbo> (col V maiuscolo), (pag. 38). e Egli ! l'Austerità fatta persona (pa• gin a 38), (con I' A maiuscola}. 2 solo questo? No. e Egli era noi prima che noi fouimo, sarà noi dopo che noi saremo ... > (pag, 38). Chiariti que1ti punti, si pusa al Catalogo ragionato. L'Opera :14-, per pianoforte e violino, é eo,l definita: e Lu.cc, fiori e d.tnt..e >; l'Opera 68: e Deli.:r.iose e intime impressioni di serenità in un bel mattino di primavera >. ( LEOPARDI EIL suo ANTAGONISTD 110 davvero atroce bisticcio, d'un grnttesco apocalittico, che è sfuggito all'attenzione del Moroncìni: • li Fcrrari del Vico farà. un ateo, come di Dante fu fatto un miscredente e un liberale alla foggia moderna. Nel dumila gli eruditi nmmentatevj dimostreranno il Man- ::toni panteista, e il Leopardi quacchero. Ma nel dumila il Leopardi non avrà d'eminente nell'opi.nione degli uomini nf anco la spina dorsale, perchl i bachi della sepoltura glie l'avranno appianata•. Quel ~one era potentissimo nel Tommaseo, più potente, a volte, della sua stessa fede cristiana: non c'è bisogno di psicanalisi per accorgersene: unto è vero che il più noto aspetto di Niccolò è proprio quello del maldicente. ~ UANDO aJl'aria molle dei centenari i prati sovrabbondano di malva e di camomilla, punge lo spirito un'acerba nost~lgia di_ sapori forti, d'e~~ p_ic: canti; e ,e si è un poco uman11t1, c1 li sorprende a scandire i due esametri di Virgilio che esaltano nei secoli la panzanella: Thcatylit t:t rapido fc.uis mcuoribu1 11CStu allia nrpillumqut: ht:rbH contundit olentu. Nascono fantasie incongrue di celebrazioni a rovescio. Si pensa a una commemorv.ione di Oan1c affidata in parti eguali a Cecco Angiolicri e a Cecco d'A.Koli. Si. vorrebbe paneAirista del Tasso il suo amico Galileo, e del Monti il Foscolo o viceversa. Per dire le lodi del Carducci si richiamerebbero ai propri corpi le ombre invelenite d1 Mario Rapisardi c d1 Pietro Fanfani. Che 11ff,latura di armi e di unghie! Che ridda di colpi ma.ncinj! Che magnifica scappata finale di livida. razzi I In quest'ordine d'idee (o di capricci) 11 discorto ufficiale pel centenario del Uopardi spelte• rchbe di pieno diritto a Niccolò Tommaseo. Che tra quel da Rcca.nati e quel da Sebenico ci fosse una rugf;'ine annosa è noto piU o meno a quanti hanno una certa dimestichezza con la cronaca spicciola dell'OttOCC'nto .romantico . ."\fa nessuno saprlt mai quante se ne sian dette in pubblico e in pri,·ato, a voce e per iscritto, dir~uamcntc e indirctt~mentc, quei due lctterat1&,in1i che in fatto d1 schermaglie la sapevano lunga. Lin'ampill raccolta, nondimeno, delle più significative contumelÌi'. uscile da quelle penne illustri si può trovare in un articolo del Moroncini, pubblicato nella Nm,va Antologia del J6 mar.lo 1931. Ma il Moroncini, benemerito per tanti rispetti, era uno di quei l,eoparditti non dirò arrabbiati, bensì idolatri, che non ammettono essere nel loro nume macchia o imperfezione di sorta. Pcrcib nC'I racconto onde egli accompagna la sua ghiotta silloge la colpa ! tutta del Tommaseo, il quale sarebbe stato il primo ad attaccar briga per vanità offesa e al povero Leopardi non avrebbe perdonato n~ in vita n~ in morte, neppure trenta e più anni dopo il 14 giugno 1837. Lasciamo queste inquisizioni, che non approdano a nulla. Dato e non concesso che il Tommaseo sia stato il primo a intinger la penna nel fiele, bisognerebbe provare che a fargliela intinge• re e a persistere nei severi giudizi sia stata la vanità ferita e non altra men bassa. ragione. Comunque, qudl'auribuirc al Leopardi la incontaminatczza di Cristo e al Tommaseo la baHezza di Cmda, come fa il ::'i.toroncini, è per lo meno opua di cat1ivo avvocato. A"esse il Leopardi opposto uno sdegnoso silenzio o un generoso perdono alle acredini e a1 mali umori del Tommaseo! Invece il Leopardi a,•cva anche lui il suo fiele e anche lui v'intingeva la penna volentieri. Prova ne è questo epigramma (ben temprato e appuntato, bench~ un po' lunghetto) ch'egli dettò nel 1836, quando il Tommaseo era a Parigi: Oh sfortuna1a semprt: Italia, poi che CostiilnTin lo scettro Tolte al11 palria, cd alla Grecia dirdcl Suddita, serva, incatt:na1a il piede Foui d'a!lor. :'\.Jille ruine e scrmpi Soffristi: in odio unl\·erult: e u-nmo CreK• di .'["iomoin giorno; Tal che quasi è posposto L'haliano al Giudro. Or con pallida guam.ia Stai la pt•te 1spr,tt1ndo. Al fine è tcdto A far11 nota in Francia Niccolò Tomm11co. Fiele per fiele, cpigr111mmaper epigramma, confesso che dal punto di vista dell'arte preferisco di molto il distico fiero e snello del Tommaseo contro il Leopardi, che ancora oggi nuoce più alla reputazione del Dalmata di quanto dia gloria al suo nome la su11 magnanima opera a pro di Venezia nel 1848 e nel 18-49: Natura con un pugno lo •irobbò: C1n1a, gli diuc. 1r.ta; rd c1 cantò. L'epigramma, scritto mentre il Leopardi era vivo, non è davvero impestato con lo 1.uc• chcro; ma •pparc addirittura atroce perché consegnato in una lettera a Gino Capponi dc\ 17 luglio 18371 ci~ di appen11 un mese dopo la mo1tc del Leopardi. E nella lettera è preceduto, ,ra l'whro, da queste parole:• Il Leopardi è morto: ho pregato un po' anco per lui. Affettuoso d1 fondo, credo non fosse; e mc lo prova il piactre al Giordani•· Il I\Ioroncini, COnlftlt:ntnndo, parili d'empietà e di cinismo e, scandalizzato, per poco non si fa il segno della croce. Perché? lo son sicuro che il Tommaseo avrà pregato davvero per il Lcop•rdi morto, e non già da tartufo, mli da quel sincero cristiano che era. Poi s'è la,ciato riprendere dal dttllonc maledico e non ha potuto fare a meno di riferire al Capponi l'cpi~ra:mma. Ccme un anno prima, scrivendo da Parigi al Cantù, non poté fare a meno di congegnare contro il Leopardi queMaledico egli era con voluttà, come solo pub esserlo un filologo esperto di tutti i segreti della parola. La sua non è una maldicenza leg~ra, spensierata, da salotto: di quelle maldicenze che rendono cosi amabilmente pepate le pagine di ccMi memorialisti mondani. No, eccolo Il al suo tavolino: scruta i vocaboli, li palpa, li fiuta: sceglie quelli più velenosi, ne e1tr2e i sucehi che lascino sulla pelle il più irritante bruciore. Eccolo Il a distillar concetti, a combinar giochi di parole e bisticci, a pensart e soppesare epigrammi. Eppure, vedete come nell'epigramma tristemente famoso la punta acuita dal Tommaseo per ferire il Leopardi ai ritorce contro il Tommaseo stcuo. Aveva voluto offendere, e invece loda. Chi è che fa i poeti? La nlltura: anzi, la natura minis1ra di Oìo, di quel Dio - come dirà il Tommaseo sttsso in un momento migliore - che manda i poeti e le rose. P~ta 1t11stitur. E qu11l è il privilegio dei poeti? Il c11nto. Ora il Tommueo riconosce che il Leopardi fu fatto poeta dalla natura, la quale i;i:l'impose di cantare. Ma la natura, si dirà, er-2 irata. Si, ma il canto non è mai iracondo, ha sempre in si un fondo di dolc,·zza che annulla l'ira e la tramuta in consol11zionc, siA pure inconsapc,·olc: aV\ 1icnc, cioè, unn catarsi. E allora. ecco che l'epigramma del Tomma1eo, crudele quanto volete, si risoh·e nei V'E MODO e modo di presentare al pubblico i resultati di un'inchiesta, e di costringerlo a prestare o·recchio alla te;i che l'inchiesta ha suggerito, e di cui lo scrittore è più o meno persuaso, ma sempre abbastanza perché non gli manchi il coraggio di non tenerla per sé. Esiste un modo aperto la cui efficacia non è forse pari alla speranza di chi lo segueJ il quale consiste nell'articolo di giornale o nel saggio che descrive il fenomeno e vi trae sopra le conclusioni; esiste, dopo innumerevoli altre sfumature, un modo velato pieno di riguardi e di delicatezze, e di lunga e profonda portata per quanto lentissi• mo e ambiguo, che è il romanzo a sfondo più o meno evidentemente sociale, il quale a sua volta, seguendo la regola già enunciata, riuscirà tanto più valido quanto meno metterà avanti quei suoi propositi. A ,vero dire, ogni romanzo che si rispetti presuppone un giudizio morale, più o meno deeiso e universale a seconda dell' eccellenza dello scrittore, e da questo giudizio morale con facilità traspare in che rapporti lo scrittore si mantenga verso la società; ma per romanzo sociale conviene intendere un romanzo in cui la quistione sociale viene in primo piano, non è soltanto suggerita al lettore accorto; anche nel caso dei generi let• terari, distinguere serve a meglio capire. Il romanzo La chasu du malin di Jean Prévost, che la Nouvtllt Rtvut Françaist ha terminato adesso di pubblicare a puntate e che presto compa• rirà nelle vetrine dei librai, risponde in tutto e per tutto ai requisiti del romanzo sociale, e precisamente di quel romanzo sociale che si fa premura di non spaventare i lettori mostrandosi di primo acchito per quel che è. Argomento del libro risulta la reazione che in un gruppo di giovani di un deter• m.inc1to ambiente e mentalità, suscita la vita quale g·li appare al loro ingresso nel mondo; come cioè vi si oppongono ovvero vi si adeguano. Non manca l'amore, ma anche l'amore è in funzione, più che non appaia, di quello scopo preconcetto. Nel quale anche il protagonista del libro finisce per an-· negare in pieno, nonostante i tenta· tivi di rivolta che non gli sono mancati. Ve-diamo nelle prime pagine questi giovanotti, reduci di fresco da studi tecnici e scientifici superiori (uno è architetto e ingeiTnere civile, come si direbbe da noi, l'altro dovrebbe diventare medico, e cosl via), godersi insieme le vacanze in una spiaggia bretone; veniamo messi al corrente dei loro progetti: colui che è architetto, Roger Dann<:ry, non manca di mani• festare idee di indipendenza. Innamorato del proprio mestiere, vorrà farsi strada senza esitazioni e rinunce ai propri ideali; quello stesso soggiorno balneare gli permette di dar prova della dirittura del suo carattere aJlorché, povero, rinuncerà a un lavoro fruttifero che non potrebbe accettare con la coscienza completamente tranquilla. Su questa spiaggia quel grunpo di a• miei che il tempo dovrà disperdere, in• co1ltra il deputato Crouwn, il tipico uomo politico dei tempi nuovi, il quale si assumerà un giorno di raccogliere e indirizzare le loro ambizioni giovanili e le loro aspirazioni di rinnovamento. Il romanzo prosegue sulla falsa riga del suo prota$onista Dannery; assistiamo, a Parigi, ai suoi amori, a un flirt innocuo con la moglie del deversi dolcissimi che Alcssandro PMrio, l'amico del Tommaseo e del Leopardi, compose in memoria del suo Giacomo: St: per dr1c.rro strano Il dubbio ti traeva senu. riposo, Morla 1rcmulo c. lt:nto In arcana mt:1tizia il tuo lamen10. Prr precipite via St: riù dal sacro Ver Ri,•i lontano, Non ru bt:1trmmia il disperato 1c«nto, E l'affeuo il ,·olRc,·a ìn armonia Che al Cit:lo risalls. Si direbbe che dalle premesse del Tommaseo, poste là con intento di offesa, il Pocrio abbia tratto la conacguenu vera: che la poesia è sempre consolatrice, che consolare è la sua funzione, e che il cuore da. cui esu nasce, nell'atto che essa nasce, può cucr fe.• rito, ma non già cPcerbato e tur~ido d'odio. Questo aveva già detto il Poerio nel t83-4, vivente il Leopardi, in alcune 1tanu abboz:,. zatc, bdlissime, dirette proprio al Leopardi: Ma, come il ragRio cht: dovunque offende Si 1orec. in 1ho t:d alla patria toma, Tale il tuo veno atcc.nde; Ed il tuo disperar coli si adorna E trnfigur1 di beata luce, Che al Ver, cui chiami crtort:, altrui conduce. E manda •• tuoi lamenti innamorati L'c.trmo verdeggiar ddl'ahra aponda I suoi 1pirti odorati. Spuao l'anima mia ti fé profonda Di gioia nel luo e.arme, c. sol mi dolsi Che. dall'1ffanno tuo pace raccolsi. Oi,·crsità - si vorrà dire - di generi lette• rari, cioè ode o canzone nel Poerio ed epi• gr:lm.mA nel Tommaseo? O mcglio, per non incorrere in scomuniche critiche, stato d'ani• mo lirico ne-I Poerio e satirico nel Tommaseo? No: la diversità è tutta morale: il Pocrio non avrebbe mai scritto l'epigramma del Tommaseo; il Tommaseo avrebbe potuto scrivere le stanze del Poerio solo se fosse risalito a quella regione di pace e di luce in cui la sua nobile anima vivc\"a la sua vera vita e da cui la tonnenlata natura lo traeva Q:iùtroppo 1pcsso. putato, a un suo legame oiù scrio con una ragazza che gli si affeziona e lo ama, Mi.rette, alla sua continua difesa contro un imborghesimento che lo minaccia in mille modi, e di cui ha orrore. Il giornale fondato da Crouzon, e nel quale il deputato chiama a collaborare i suoi giovani amici, sembra diventare a un certo momento il mezzo con cui il pericolo che più teme Dannery, cioè una vita regolare e qualunque, potrà essere sventato, ma durante una dimostrazione ostile al giornale, subito dopo il famoso 6 febbraio, Crouzon resta ucciso. Con la sua morte, l'ultima ragione di rima• nere uniti che avevano gli antichi compagn.i di vacanze della spia~'?ia bre• tone cessa di esistere, mentre contemporaneamente quella morte sembra se• gnare la fine dei tentativi di ribellione di Dannery al suo destino. L'autore affida il compito di chiudere il romanzo a Dannery, che ha sposato la sua ex-amante, Mirettc, e che si dedica ormai soltanto con successo e sod• disfozione al suo mestier<- di architetto, e al suo amico Guitton, un al• tro della vecchia iquipt, un letterato, a sua .volta felice marito e padre. La morale che si può trarre dal romanzo appare evidente : è una morale di adattamento senza essere di rinun• cia. Già sul finire del libro, il protagonista e i suoi amici $Ì accorgono che quanto pil\ interessava ciascuno di loro era il loro mestiere j già considerano le loro brevi prove politiche e giornalistiche, un tra!CO~ giovanile, imputabile appunto alh ~iovll1ezza; lo spirito di indipendenza di t·ui erano orgogliosi può manifestarsi <' "ivere ed essere utile anche nell'ambito del loro mestiere. e Cerco di costruir~ delle fabbriche che siano perfette sollo qu:l.l• . siasi regime ,, dice Dannery a un c~rto punto, e queste parole, benché µiene di ottimismo, potrebbero porsi come epigrafe sulla prima pagina di questo libro che è comunque la storia di un fallimento spirituale. Questo li• bro sembra voler insegnare fra l'altro che i giovani francesi di un deterrni• nato ambiente ~no inevitabilmente destinati a continuare domani una borghesia lungamente famosa, e che a qualunque tentativo di rivolta a un simile destino è riserbato di naufragare, provocando nuove vittorie di un buon sen~ che è troppo consentaneo alla realtà ddla vita per non apparire addirittura la vita medesima. Si tratta di una morale che, nel senso che il più comprende il meno, può perfino trascendere le vicende di Roger Dannery e di quella determinata gioventù francese che egli impersona, e può essere accettata come inevitabilé, ma purché resti stabilito una volta per sempre che la gioventù deve continuare a compiere i suoi salutari errori, e ad ignorare, più a lungo che puòJ questa specie di buon senso che s'è detto. Nella Chasse du matin il personaggio più simpatico finisce col divrntarc Crouzon, abbattuto sui gradini del suo giornale. Resterebbe da parlare <lei v.ilore sul piano estetico di queo;tolibro per tanti v•!rsi intere-.,ant<'. Ma è meglio saltare a pié pari un terreno scottailte, e tacere p<'rfino di quale scarso rilievo e vitalità artistica sia• no forniti ad esempio il protagonista, e quant'altri, nel corso del romanzo, lo aiutano a portare sino alla conclusione l'impegno che nel suo nome si è a~sunto l'autore. BONSANTI Iroso, ringhioso, uggio10 a volte pel'" l'argù%ia solùtica che metteva nelle. sue censure, è però giusto riconoscere che se il Toma,a• seo fu maledico, e acerbamente m!'lledico, m&• levolo n>n fu, nel s!nso almeno che non de• siderò mai deliberatamente il male di alcuno. Gli fu familiare la malignità (una malignità inquisitoria, di rigorista. acuita, come s'è deuo, da una sorta di sadi1mo tutto filologico), ma l'odio non lo conobbe e la cupezza del rancore gli fu estnmea. Pronto a perdonare e a riconciliarsi, riconobbe d'altra parte i propri torti con una generosità che è veramente di pochi, confessò con sincera umiltà le proprie colpe e ne chiese perdono non solo a Dio, ma agli uomini. E, comunque, vi era in lui un amore operoso sino all'abneguione, quasi un bisogno di soffrire per gli altri, e una sete di sacrifizio co1l grande che quelle ombre quaai scompaiono in questa luce. Degno veramente che • in un momento d'af• (etto• il Manzoni ~li dicesse (è il Tommaseo stesso che riferisce)• una di quelle parole che vanno intese sen::ta vanità pcrch'è appunto l'affetto che le detta, ma che compenserebbero una intera vita di ben più duri sacrifi.ti: - Ell'è un diamante•. Insomma, una tempra generosa fino all'c• roi1mo. E fu proprio quel suo eroismo d'uomo del Risorgimento che gli fece stimar nociva la lettura del Leopardi alla giovcnt\1 italiana del suo tempo, • troppo abbisogn11.ntc ", com'egli si espresse, •d'affetti e d'idee che dalla sconsolata diffide-nzn e dall'oz:ioso lamento 111 muovano alle operose 11pcranze e ag:li atti animosi-.. Sbngliava, forse, chf il pessimismo del Leopardi non induce fiacchezza e può tramutani, corne nbbiam sentito dal Poerio, in alto conforto. Ma è quel che pcnsav11no col Tommaseo altri grandi uomini della su11g. eneruionc: il l\h.zzini, il Capponi e, almeno per quel che spetta :tllc O~re-tu tt1ornli, lo stesso Dc Sanc1is. S'intende però che nessuno di questi mise nelle proprie censure l'acredine con cui formulò le sue il Tommaseo. (continua) PIETRO PAOLO TROMPEO
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