Omnibus - anno I - n. 16 - 17 luglio 1937

OCCORRE molto coraggio a una donna per compiere da sola un volo transatlantico? > Da quando atterrai col mio ap1>arccchio nel campo di William Gallaghcr, presso Londondcrry, dopo circa 14 ore di volo da Harbour Grace, questa domanda mi è stata fatta ccn- • tinaia di volte. E se evito di rispondere, gl'inquisitori si fanno più esigenti: < Non ebbe paura>, mi chiedono, e sollevandosi da terra? E più tardi, quando vide le fiamme scaturire dallo 5<:appamcnto, non si spaventò?>. DI solito, nei romanzi, in quegli istanti supremi in cui la morte sembra certa, il protagonista, inevitabilmente, si vede « passare davanti > tutta la propria vita. In letteratura que~to sarà forse vero, ma. nella vita reale non so. So soltanto che nessuno di quanti, $fuggiti a un pericolo grave, mi hanno raccontato le loro espericn. zc, ha confessato una simile caleido· <.eopica vi,.ionc. Discorrevo un giorno, ricordo, con un famoso pilota civile. Poco tempo prima, in una tcmpc• sta ad est di Cleveland, una delle ali del ,;uo apparecchio si era staccata. L'incidente si ('fa verificato così bru• scarnente, nel buìo e nella pioggia, chf', sulle prime, il pilota non capì che cosa ~li fosse succe~. Sentiva solo di aver perduto il controllo del suo aeroplano. e Dev'essere stato spaventoso>, OS· M·rvai. e Sciocchezze! > mi rispose. e Avevo tro1>po da fare. Dovevo acccrt..'"lrtllise l'apparecchio era davvero perduto, prima di abbandonarlo>. e Ma che cosa pensavate?> imistei. L'aviatore si irrattò la tc,;ta: e Mah! Non so. Soprattutto ero felice di pos• sedere un paracadute. La cosa. più im• portante era di potersene servire. Men• tre l'apparecchio galleggiava nell'oscurità (strana quella gran calma, giacché il motore si era spento), ebbi anche troppo tempo per pensare. Mi prcoc• cupai del posto dove sarei atterrato: ,pcravo, vicino a una casa. Odio cammi,iare! > Riferisco questa storia perché rivela qual sorta di pcn ..icri si hanno di solito negli istanti di pericolo. Jn quei J"Q,Omrnti, forse, sono i oarticolari irrilevanti che preoccupano di più. L'incubo di un disastro imminente galvanizza la maggior parte delle perone, nello sforzo supremo per ~pravviverc. Vigliacco o eroe, ciascuno fa del suo meglio. Nel caso di un gllasto t;rave, a terra, in aria o in acqua, c'è generalmente tanto da fare, e così ra• pidamcnte, che ogni sfor-ro è diretto n. quello scopo, e non rimane energia, tempo, né voglia di ta ..tarsi il e polso spirituale>, per accertare se si ha l.t temperatura del coraggio o della viltà. Una volta, nuotavo nel canale di Long lsland. Quattro di noi erano in acqua, gli altri a_bordo della barca a vela che ci ospitava, ferma ma disan• corata. Improvvisamente il vento, mutando dirc.;ione, gonfiò le vele : l'im• barcazione si mos,c e filò via rapida. Noi nuotatori fummo abbandonati. L'acqua era fredda, la spiaggia lontana un chilometro e mezzo. Immersa già da molto tempo, ero stanca. Pro- • vai un acuto senw di infelicità. Avrei potuto, certo, sollevare le braccia e abbandonarmi a un accesso pittoresco (e probabilmente fatale) d'isterismo; e mentre i miei polmoni stanchi si riempivano d'acqua vedermi pas'.':ar davanti come un film tutta la mia vi. ta >. Ma non ebbi né visioni, né iste• rismo. Adoperai tutta la mia energia per mantenermi a galla. L'unica cosa da fare era evidentemente di prendersela comoda : così facemmo, economizzando le nostre forte, finché non arrivarono a raccoglierci. Quando, giorni fa, raccontai questa storia a un amico, egli mi ricordò che i giornali avevano riportato delle mie convenazioni telefoniche con mio marito, dopo il mio volo solitario dal- !' America all'Irlanda. e Gli dicevi >, mi ricordava l'amico, e che dopo aver visto le fiamme, decidesti di volar basso sull'oceano, perché preferivi affogare che morir bruciata>. Era vero. Avevo detto proprio così. Dopo Jc prime ore del mio volo, quan• do avevo vi5to scaturire quelle fiamme dall'oscurità, l'acqua mi era sembrata una fine più amica del fuoco. Quello non era « eroismo > : era forse il contrario. Di un fatto solo posso C'>scrproprio certa, cd i che non mi abbandonai a « vani rimpianti > e che mi tormentai ben poco. La mia im• pre'>a comportava un azzardo, ma l'azz.irdo è un:t. delle debolezze umane. Suppongo che ci sia un certo fascino nel giocare contro una posta alta. La posta, in quella partita, era naturalmente la vita. Molti dri disconi che rhi sono ltati d<·dicati nelle "corse \Cttimane hanno ,ouolincato l'idea che il coraggio è considerato un attributo unicamente maschile. Tale punto di vista mi sembra strano. Le donne, secondo me, sono coraggiose quanto gli uomini, sebbene in loro questa qualità si manifesti diversamente. Alcuni aspetti di coraggio femminile sono considerati addirittura trascurabili. Per escmpiQ il cora~~io richiesto dal parto, o quello dimostrato da una madre nel tirar su i figli, nessuno li nota. Un'altra specie di coraggio è la rinunzia di molte donne moderne, che sacrificano la loro carriera per rimanere semplicemente 'tnadri, mogli e massaie. Attraverso i secoli, le donne sono state educate ad altre prove. La signora Bertrand Russcll afferma, perfino, che sono state educa te « alla timide-1:- za >. Un timido che o~ è orobabilm<'nte molto più coraggioso 1i chi è definito ardito. ~ da chiedersi se una persona immaginosa, vibrante, abbia più o meno coraggio di una persona flemmatica.. La soa immaginazione gli dipinge i pc• ricoli da superare, mentre l'altro tende a non percepire che le sensazioni immediate. :Ma la stess.., immaginazione che evoca il rischio è stimolata daJ. la visione della meta: incentivo che deve mancar molto ai temperamenti freddi. Ralph Blumenfeld, direttore del « Daily Express >, mi disse un giorno : e Ritiro la mia teoria preferita : che una donna non abbia mai fatto nulla di realmente notevole>. Blumcnfeld basava il suo cavalleresco apprer.tamento sul racconto del mio volo transatlantico, che gli avevo appena descritto. C'erano stati nebbia e temporale. Su, in alto, il ghiaccio formatosi sulle ali e altrove aveva minacciato imminenti guai. L'altimetro mi aveva tradita per la prima volta, in dodici anni. Potevo soltanto intuire la mia distanza dall'acqua, essendo costretta dal pericolo del gelo a volar basso quanto potevo. 11 compito più importante era in quel momento di tener l'apparecchio a una altezza costante, giudicandola dall'indicatore della velocità d'ascesa, che indica se si sale o si scende, ma Don la vera altitudine. Dovevo nello stesso tempo sorvegliare la velocità del mo• tore, il consumo del combustibile e una douina di altre cose, mentre mi sforzavo di mantenere la mia rotta. Avevo abbastanza da fare. I miei occhi non potev:i.no :i.bbandonare gli strumenti dalla cui precisione dipen• deva la mia vita. Tutti i miei sensi do• vevano e-.serc svegli. Ero troppo occu• pata per preoccuparmi, e troppo intere-.sata a governare l'apparecchio, per chiedenni che cosa sarebbe accaduto se il motore -.i fosse fermato. Per quel che riguarda il volo, non feci nulla di straordinario. Ccntinai:t di piloti, con infinita più abilità ed esperienza di me, hanno volato con visibilità nulla per moltissime ore, e con tempo assai pel?~iore di quello che incontrai io. Una simile esperienza, per esempio, può anche essere giornaliera per i piloti delle linee postali. Ci sono anche aviatrici capaci di eseguire voli splendidi con i (Oli istrumenti, e il loro numero va sempre aumentando. Forse una delle ragioni che m'impediva di preoccuparmi era il fatto che ero riposata e in buona salute. La stanchezza è amica intima della paura. Ma in nessun momento del mio volo transatlantico fui realmente stanca. L'unico i,;tante di stanchezza che ricordo, (ù veno le prime ore della mattina, prima di avvistare l'Irlanda. Uscita da un banco di nuvole vidi, al di sotto di me, brillare il sole 5U un bianco tappeto di nuvole. più accecante di un campo di neve. Perfino con gli occhiali neri, dopo venti minuti, i miei occhi non sopportavano più quel martirio. Decisi al• lora di scendere attraverso le nuvole per ritrovare l'ombra, e di continllare a volare basso sul mare per avere un po' di refrigerio. Alla fine del volo mi sentivo f reschissima. E non si trattava soltanto della gioia della riuscita. Dopo tutto, una notte di intensa attività non dovrebbe essere una prova troppo dura per un individuo in buone condizioni f.sichL, Il mio volo transatlantico si iniziò da Harbour Gracc, in Terranova. Il giovedì, nel pomeriggio, Bernt Balchen, un meccanico ed io, volammo dall'aeroporto di Tcterboro (New Jersey), a St. A.IIELli EARl!ART E 800 .IIARITO John (New Dnmswick); il venerdì giun• gemmo a Harbour (?ra~e. Bernt Balchen pilotò l' apparecchio m 9uella •~ppa preliminare, mentre Edd1e Gorsk1 cd io riposavamo raggomitolati nel poco spazio della cabina che non era occu• pato dal combustibile di riserva. Come passai i minuti che precedette• ro la partenza, a Harbour Grace? Credete che mi aggirassi intorno all'apparecchio, controllando questo o quello, e dando noia ai due uomini che cono• scevano meglio di me il mestiere? ~ forse che mi attaccassi al telefono, a ricevere gli ultimi bollettini mete?rolo• ~ici, gli auguri di buona fortuna, 1 consigli e le raccomandazioni? O forse mi dedicassi alla costruzione di una nuova carta meteorologica~ dcli' Atlantico, in base ai dati che arrivavano ogni mezz'ora da mio marito, seduto col no• stro buon amico il dottor .Jamcs H. Kimball nell'Ufficio Meteorologico di New York? Non feci nulla di tutto questo. Inve• ce mc ne andai a letto, e dormii tranquilla in un piccolo albergo. Perciò fui riposata e pronta a qualunque cosa la notte dovesse portarmi. _ Dopo quel breve sonno, misi in un sacco da montagna le mie e.arte, un po' di cibo, gli occhiali di ricamb~ un~ lampadina elettrica e un coltello. Gh abiti di ricambio che avevo con mc, per il c~ di un ritardo (nel 1928 eravamo rimasti fermi a Trepasscy per tredici giomi), li consegnai a Balchen per• ché li riportasse a casa. Quindi raggiunsi gli uomini. Pensammo ai preparativi dell'ultimo minuto. Il motore, già riscaldato, can• tava il dolce canto dell'energia imbrigliata, tutti i suoi cinquecento e cavai• li > tesi alla corsa. Non più tesi di mc, certo. Sapevo in• fatti che, a meno di non partire quella sera stessa, avrei dovuto sopportare un rinvio in-.opportabilc. li tempo stava cambiando sull'Atlantico. Avevo sperato di partire verso le cinque. Invece, le lancette dell'orologio segnavano le sette e l'oscurità minacciava di rendere il dc. collo pericoloso o impossibile. In tali circostanze era molto più duro attendere che partire e fu con un profondo sollievo che mi sedetti finalmente nella carlinga, ubbidendo al segnale di Eddie. « Okay, buona fortuna>, disse Balchcn. Pochi minuti dopo ero partita. < Come ha avuto il coraggio di par. tirc? Non è stato quello il momento più brutto? >. Questa domanda me I' hanno fatta molte volte. Come già si è capito, la risposta è qua!i il contrario di quel che tutti si aspettano. Dopo tutto, quella non fu che un'altra partenza fra tante, con un'aggiunta di carico che presentava un problema imm,·diato di volo. Se avessi avuto paura faica di entrare in un aeroplano avrei abbandonato l'aviazione già da molto tempo. Ma a mc piace volare. E dunque, che ne so, io, del coraggio? AMELIA EARHART I .A: BIAMO tt.K.MATO stamane un giovane vestito di blu che, all'aspetto, pareva a Roma solo di p:usaggio. Si trattava del signor Delle Fratte Alessandro di Roma. Costui dopo 13. prima sorpresa, e dopo essersi accertato della nostra qualità di giornalisti, ci ha detto con aria lusingata: c. Sono arrivato ora dall'estero, dove ero andato anni fa per lavorare. Sono stato in Svizura e in Francia. In Svizzera, ci sono rimasto per otto anni. Ero a Dornaeh Bruck, nella Svizzera tedesca. Facevo il macellaio, una vita che lauù non è come in Italia. I macellai in Svizzera ranno pochi affari. Là si mangia soprattutto maiale, patate, piselli, fagioli, e anche marmellata magari insieme alle patate. li padrone della mia macelleria era pt'rÒ assai ricco, aveva cinque negozi a Basilea, e un ammazzatdio che gli fruttava. Ricordo che una volta, nell'amma,:zatoio, un bove, mentre tutti credevano che fosse morto, e stava a pancia all'aria, dette un calcio in faccia a uno di noi che si accingeva a scuoiarlo. Forse si trattava di una stiratura di muscoli, perché quella bestia era morta ; fatto sta che dette un calcio ; e restammo cosl spaventati come se avessimo visto un fa11tasma. Nessuno di noi per alcuni giomi, mangiò cardi bove. IL TORO E LA GIOVENCA e: Un'altra volta, un toro che stava già per essere ammazzato, quando si sentl colpire dal percussore di acciaio, dette uno strattone alla fune che lo teneva legato, e a capo basso si liberò. Travolse tutti. Noi ci salvammo su scale di legno e af. ferrando certe funi sospese per aria. Il toro correva furioso per l'ammazzatoio; mezzo accecato dal sangue che glj usciva dalla fronte ferita, rovesciava tutto; i cavalletti di legno che ci servivano per scannare i capretti furono ridotti in briciole. Restammo a lungo presi dallo spavento; l'anim:ile ogni tanto pareva avveders.i di noi; si gettava oontro la scaletta di legno, su cui eravamo saliti, e tentava di f;, la cadere. Alla fine, il padrone riusci a trovare una fune, e a fare un laccio. Cominciammo a tirare quel laccio, ma si dovette tentare un centi11aìo di volte. A tutti dolevano le mani. Alla fine, Fritz, che era un gal'7onc bavarese, disse: ·• Date qua "' Prese il laccio e lo lanciò: il toro ci restò. Da allora Fritz fu chiamato Buffalo Bill. Ma era ormai sera, e non potemmo ammazzare il toro. Lo tr>sC.inammo nella stalla e decidemmo di ammazzarlo il giorno dopo. Aveva una larga fcrit;t sulla fronte, il san• gue gli era entrato nella bocca, e fra i denti aveva una bava rossa che lo ren· deva, all'apparenza, ancora più infuriato. La mattina dopo, invece, il toro pareva docile. Si lasciò trascinare finò alla porta dell'ammanatoio. Là si fermò. Noi tiravamo in cinque, ma non si riusciva a smuoverlo d'un passo. 11 padrone bestemmiava, e arrivò, molto imprudentemente, a battere la bestia. La bestia pareva di sasso. Ricorremmo ad un trucco; per un altra porta, introducemmo nell'ammazzatoio uua bella giovenca; e allora il toro entrò. Fu fa. cile legarlo all'anello e dargli il colpo mor• tale. La vacca, ricordo che lo stava a. vedere come se nulla fosse. c. Un'altra sorpresa che si ha negli ammazzatoi sono le vacche pregne. Qua.ndo nessuno se l'aspetta, si trova nel ventre della bestia macellata un vitellino, Ne trovammo uno che dava segni di vita; ma appena tolto dal ventre si afflosciò. I bovari tante volte non ne sanno nulla: le vacche durante i pascoli non è difficile che restino pregne. LE TRECOE DI JOSETTE c. Ma dopo ouo anni huciai la Svizzera e mi recai a Valdois, vicino a Belfort 1 che è una città francese. Là. non feci il macellaio; conoscevo un po' di tessitura perché da ragazzo ero stato in una fabbrica di stoffe, e fui assunto. Mi trovai in mezzo alle donne. Dentro, avevamo pochi rapporti con esse: si lavorava a cottimo e non bisognava perdere tempo; ma fuori c'era da divertirsi. Erano brave ragane. li sabato, nel pomeriggio, invece del riposo come c't in Italia, dovevamo pulire le ~acchine. Era un lavoro noioso. Una volta, _ mentre io pulivo una macchina, udii gridare dietro di me. M.i voltai e vidi Josctte, TESSERDIARICONOSCIME una brava ragazza, che era in una posi• i.ione inverosimile. Una puleggia aveva preso i suoi capelli e l'attirava, al punto chf' poteva staccarle di colpo la testa. Fu un attimo: mi gettai verso l'interruttore della corrente elettrica e feci in tempo a fermare le macchine. La ragazza era ulva, ma si mise a pianger-e per il suo ciuffo. Poi quella fabbrica chiuse, e mi tro\•ai senu lavoro. e Ho passato molti giorni senza lavoro. Mi misi a girare la Francia, e ho fatto tutti i mes~ieri. A Parigi, ho fatto perfino il sarto. fu un siciliano di nome Ferrante che mi disse: "Vieni con me.,. Ma non imparai nulla: non sapevo tenere l'ago in mano; finii collo sti1are gli abiti, e questo sapevo f,arlo abbastanza bene. Ricordo che il mio padrone, tulle le domeniche, voleva che gli stirassi i pantaloni bianchi. Ma presto me ne andai da Parigi, e mi fermai a Roussu nel dipartimento del Drame. C'erano molti italiani, e mi dis• scro che si poteva trovar lavoro nei poderi o nei boschi. I contadini francesi ccr• cavano la mano d'opera; erano contrari ad assumere ex operai; ma quando $i trattava d italiani non badavano ai mt-- stieri che si erano fatti prima. Cosl d'estattmi misi a fare il contadino; d'inverno il boscaiolo. A fare il boscaiolo c'era da gua• dagnare, a patto che si fosse disposti a stare lontani dal paese per settimane, in fondo ad una foresta, con alberi altì come qui non se ne vedono. 6000 OALLINE c. Eppure non [cci per molto tempo quel mestiere. Non mi andava: non c'era da andar da accordo coi miei padroni. Vicino a Roussas c'è un convento di frati trappisti: è in collina, in un bel posto, ma non è un convento come tutti gli altri. l frati trappisti sono divisi in due categorie: quelli poveri vestono di bianco tdicono la Messa, quelli ricchi vestono color tabacco e lavorano. La specialità dei trap· pisti di Rouuas è la cioccolata e le galline. Cioccolata ne fabbricano a quintali e galli~e ne_ .hanno migliaia. C'era gran di· sciplina, a desinare bisognava dire le pregh!e1e in coro; poi guai se sul momento della rabbia uno si metteva a bestemmiare. Si guadagnava bene e c'era cioccolata a volontà. Ma si vede che anche in quel luogo non dovevo restarci a lungo. e: Fra i trappisti ogni frate ha le sue mansioni, e ce n'è uno che è addetto alle galline. Costui si chiamava Père Augustin, era un ottima persona, uno studioso chl' leggeva i libn nel pollaio. Aveva sotto di sé molti garzoni di fuori, e ci fu una set• timana che anch'io fui con lui. Una mattina Père Augustin mì viene a dire: " Sentite, giovanotto, io devo andare a Roussas, pensate voi alle galline ,.. li la\·Oro mi parve facile, e, appena partito il frate, mi misi a preparare il pastone. Dar da mangiare a 5000 polli non è poi una grande fatica: si tratta di mescolare se• mola, granturco e acqua. Ora, un po' per economiuare semola, un po' per fare cosa gradita alle galline, pensa.i di utilizzare i rifiuti di cacao. Il cacao prima di es~cr tostato è a chicchi grossi come una pru• gna; quando è tostato la buccia va via e viene gettata alle immondizie. Mi parve che invece si potesse utilizza~. Lo dissi a due garzoni e anche essi ammi.scro che si poteva benissimo utilizzare tutta quella roba. Mescolammo così cacao, semola, granturco e acqua; poi demmo da mangiare alle bestie. Fu come un epidemia. Cominciarono a morire una dopo l'altra; il cacao è nocivo ai polli come ìl prezzemolo ai conigli e ai pappagalli. Tutto il convento accorse e naturalmente mi urlarono di andar via. e: Bestemmiavo come un ture.o. Era di giovedl: il giorno dopo sarebbe stata \'Ì• gilia; ma il Paùre Guardiano decise che non si poteva buttar via tutta quella grazia di Dio. Distribul polli e galline a tutto il paese, e tutto il paese guastò la vigilia, come del resto la guastarono al cor.vento. Ci fu anche una polemica sui giornali. Il Sindaco di Roussas, che era del Fronte Popolare, fece scrivere sul Populoire che i frati avevano regalato ai poveri polli morti avvelenati. Non t.v che sia accaduto in seguito. Sono partito e dopo due {!:iorni ero alla frontiera italiana >.

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