Omnibus - anno I - n. 13 - 26 giugno 1937

' ~, REQUENTAVO allora il_ )ice~ e n?~ l\if ):,,\J. avevo ancora compiuto 1 sed1c1 anni. Il mio professore di matematica, chiamato da tutti monsieur Grassin, era belga d'origine e a noi scolari sembrava più che uno straniero, un intruso. Portava lunghe strisce di capçlli chiari, slavati, tese sul cranio da un·a pomata, di cui, chi gli era vicino, sentiva il cattivo odore; i suoi occhi erano duri, cilestri; i lineamenti regolarissimi ; i baffi bene intonati con la carnagione d'un biondo rossiccio, che ricordava i colori lisci e cotti delle bambole. L.l sua corporatura era quella d'un bcll'uomo, di mezza età, tutto muscoli e ~ervi ; i quattro passi marz.iali e agili, sempre gli stessi, coi quali saliva alla cattedra, non si sono cancellati dalla mia memoria, e neppure i suoi abiti, tagliati con un'eleganza geome• trica, da uniforme. I suoi grossi anel• li, la spilla della cravatta, i bottoni massicci dei polsini inamiclati, spie• cavano infatti come le decorazioni di una divisa. Nessuno come lui sapeva mantenere una disciplina di ferro, una <lisci• plina, vorrei dire, umiliante. Le ragazze, durante le_ interrogazio• ni di Grassin, impallidivano e sembra• vano paralizzate. Fu allora che comin• ciai ad osservare Anita Falanga, dap• prima con curiosità, poi con il batti• cuore con cui si assiste, ansiosi, a ce1ti spettacoli acrobatici. Anita aveva la mia stessa età. Alta, un poco pingue, aveva delle gambe sottili. In piedi, vicino alla lavagna, oscillava come se strofinasse insieme le ginocchia, cd in quei movimenti sotto il grembiule lucido le si profilavano le membra. M'ero convinto che Grassin, dietro quella sua faccia dura, nascondesse dei pensieri turpi. L'interrogazione della mia compagna mi sembrava sempre protiatta oltre i limiti della convenicn7,a. Quel prestigio, quella forza che parevano emanare dalla persona di Grassin mi davano una specie nausea. Dive"'amente dalle compagne, Anita si l~c;ciava fis..a.re, rimproverare, incoraggtarc o deridere, con un sorriso indokntr, come se pensasse a tutt'altro, ma .soprattutto a se stessa, al suo corpo sazio e stanco di restare cosl a )un• go, in piedi, sulla predella. Con la logica della mia età attribuivo a Gr,,ssin quei pensieri che annebbiavano il mio cervello. A poco a po~ co, ~enza nemmeno accorgermene, mi ero innamorato della Falanga. E, per una stranezza forse non infrequente, quell'amore era nato dall'antipatia r dalla gelosia che suscitava in mc Grassin. Non avevo mai rivolto alla mia compagna che parole insignificanti. Forse, senza uno stimolo straordinario, la bellezza della Falanga, anche a me, come agli altri, sarebbe servita di pretesto a ironie recitate con l'impeto ingenuo degli adolescenti. La bellezza d'An~ così precoce, matura, era di quelle che, troppo visibili e, si potreb• be dire, pubbliche, i ragazzi guardano con diffidenza. Innamorarsene non sarebbe una prova di forza, ma di dcbo• lnza. QuMi una vergogna. Ma ecco che in me si definì il pensino che Grassin fosse toccato da quel fascino. Poi, il piacere della scoperta mi diede, col senso del mio acume, anche una presunzione di fona. Cominciai a almanaccare e a progettare una relazione colla Falanga. Un giorno, durante un intervallo, sentii ch'essa raccontava a un'amica di cose « stomachevoli, vergognose». [I risultato strano che certe parole acquistano nei discorsi delle donne (e pareva che la Falanga pronunciando proprio quelle ne sottintendesse delle più acri) mi immobilizzò. Parlavano di Grassin ! « Dunque è vero! > esclamai con una soddisfazione clamorosa. « Che cosa è vero? > mi chiese Anita, accorgendosi di me. « Che quel Grassin ... Che quel Grassin .è un porco>, proruppi. L'amica della Falanga arrossì. Anita mi guardò, dapprima con superbia, ma poi, dopo un indugio, sorrise, striz• zando gli occhi con una specie di furbo e complice languore. Abbracciata, con una mossa elegante, la compagna, s'allontanò. La mia esaltazione da quel giorno mi condusse a delle stranezze. Interrogato da Grassin (in matematica ero agguerrito) rispondevo con una voce tonante. Risolvevo sulla lavagna certe facili equazioni con una rapidità aggressiva. Ma, con un gesto freddo e normale, Grassin mi congedava e mi rimandava al mio posto. Un altro giorno m'accorsi che Anita aveva sul volto certe piacevoli chiazze di cipria e sulle labbra un po' di rossetto. M' aspettavo che Grassin l' in• terrogasse; e così avvenne. Anita indiffcrente si mosse; c'era sulle sue labbra punteggiate di rosso una piega bizzarra, ironica e soddisfatta. Grassin invece pareva cupo. Seguiva certe operazioni assurde e, si sarebbe detto, sfacciate, che la Falanga scriveva sulla lavagna. A un tratto Anita si voltò verso la classe; c'era un silenzio di ghiaccio; subito dopo Anita cominciò, col gesso, a ridisegnare, sempre nello str-sso posto, una lineetta. Grassin si levò dalla cattedra, ripulì la lavagna, in c;ilenzio, lasciando scritta, in un an- ~olo, solo la formula. Anita riprincipiò 11 calcolo con quella sua aria docile e assente. Grassin la corresse, le dettò certi passaggi. Con una calligrafia accurata ~nita segnava le cifre dettatele, ne scriveva anche delle proprie, ma subito le cancellava e rimaneva nell~attesa pigra di un nuovo suggerimento. Che avvenisse nell'intimo dei due soffrivo di non capirlo. Ma ero certo che vi si stabiliva una specie di contatto, repugnantc. « Sono ammissibili queste cose?» gridava una mia voce interna soffocata dall'ira. Due giorni dopo Gra5sin interrogò la Falanga e le diede da risolvere quella stessa equazione. Annata d'una sua nuova e rigida svogliatezza Anita prese a scrivere i primi passaggi, poi s'arrestò di colpo annunciando che non le riusciva di continuare. Nell'aula s'udì un bru~ìo. Grassin, come sorpreso dall'atteggiamento della Falanga, diede un colpo sulla cattedra: tutti tacquero. La voce di Anita si alzò fresca e improvvisa. « Professore, è inutile che si arrabbi ... La matematica io non la ca• pisco. Mi ci sforzo, ma non la capisco». Quelle parole risuonarono nell'aula come l'espressione del mio stes- ~o entusiasmo. Ero liberato, ero allegro, ero certo, finalmente, che Anita non faceva che prendersi giuoco cli Gras\in ... Aspettavo con ansia la collera di quest'ultimo. Invece Grassin am• monì : « Ma è lei, benedetta figliuo• la, che s'arrabbia... Lo vedo, lo vedo bene che si sforza. Ed è proprio per questo che non è possibile ch'io m'arrabbi. Ed è proprio per questo che la interrogo>. Quest'ultima frase la disse con dolcezza. Mi parve che nella sua fisionomia qualcosa si decomponesse. Anita, invece, sembrava che neppure lo ascoltasse; e in quell'atteggiamento rimase per un bel pezzo. Grassin le spiegò un'altra vc,lta la formula. Ricordo ancora il braccio di Grassin agitarsi contro ,)a superficie nera della lavagna. I suoi gesti che m'avevano sempre. ~at~ l'idea di. un prestigio virile, mv1d1ab1le, quel giorno non mi sembrarono più che i gesti meccanici di un insegnante, quasi d'un vecchio. Ma il giorno dopo Grassin interrogò la Falanga per la terza volta consecutiva sulla medesima equazione. Non so quale effetto suscitasse in me quelto fatto. Sorpresa? Indignazione? Consapevolezza d'un arbitrio? Non ricordo neppure come l'interrogazione si svolgesse. Rammento solo che a un tratto quasi sospinto da una forza non mia mi alzai gridando: « f:. l'ora di smetterla!». Furono ascoltati alcuni dei miei com• pagni, Anita, i genitori di quest'ultima, i miei. Sospeso dalle lezioni a tempo indefinito passavo il mio tempo fra gli interrogatori (a casa, o nell'ufficio del preside) e certe torbide elucubrazioni su quanto m'era accaduto e stava per conseguirne. Negavo d'aver avuto rapporti d'alcun genere con Anita. Tutte le indagini non potevano che confermare questi miei dinieghi. li mio sc~tto ~appresentava quanto di più inspiegabile fosse accaduto, da tempo, nell'ambiente della scuola. La sugge• stione fisica che Anita aveva esercitata su di me era scomparsa. Non ne restava più nulla, tranne un ricordo. La paura e la vergogna avevano preso il posto di ogni stato d'animo precedente, ma non dell'odio per Grassin e tale odio, che era stato il pretesto dei miei sogni im• possibili, era divenuto ora il pretesto per dimenticarmene. Mi lagnavo col preside e con mio pa• drc delle stranezze di monsieur Gras• sin, delle sue interrogazioni opprimenti, della sua crudeltà disciplinare, delle sue invenzioni da despota. Dicevo di non capire come e perché, proprio quel giorno, avessi perso la testa ... li preside era un bel vecchio, che.,,mi ascoltava con un'aria astuta, e poi mi appioppava dei nomignoli : « Il nostro Don Chi• sciatte ... Il nostro Orlando Furioso ... Il paladino dei bei tosann ! >. Mio padre, anche lui, m'investiva con un furore ironico. Mia madre si dimostrava turbata, umiliata, come se mi fossi co• pcrto di non so che disonore. Eppure le circostanze deponevano tutte a mia discolpa. Tra me e Anita non c'era stata relazione di sorta: era facile accertarsene. Ma anche quando tutti ne furono persuasi, sembrava che lo fossero contro genio. Mia madre un giorno mi fece un discorso involuto, afflitto. Mi disse che nell'ufficio del preside qualcuno mi aspettava; che, parlando con questa persona, avrei capito l'importan• za del mio stupido gesto e del dolore in cui avevo gettato e due famiglie>. Pcrò non volle dirmi chi fosse la persona. Con ansia e con rabbia io continuavo a sostenere che non solo per Grassin, ma per tutti gli altri era venuta l'ora di smetterla. Che non ½vevo fatto niente di male, che non ne potevo più, che non avevo segreti, io, e non ce ne dovevano essere neppure per me. Fu giuocoforza ch'io mi recassi dal preside... Il liceo era deserto, gli scolari n'erano usciti da più d'un'ora. Il bidello andò a annunziare la mia ve• nuta; poi mi fece entrare nell'anticamera della presidenza e Accòmodati e aspetta», mi disse con una cert'aria. « Chi c'è? > gli chiesi, avvilito. « Chi c'è! Chi c'è! Chi ci ha da essere? C'è la mamma della Falanga, signorino bello», mi rispose col suo accento meridionale. e con quella sua prosopopea da maggiordomo. Non volle sentir al• tro e scomparve. Cominciò l'attesa. Dalla direzione come da un mondo estraneo veniva il suono di due voci. Non seppi resistere alla voglia e accostai l'orecchio alla porta. Là dentro si discorreva d'una bella ragazza. Distinsi la voce d'una signora, una voce vellutata, elegante, che mi fece una strnna impressione. li preside era allegro, ogni tanto si sentivano le sue risate. L<' parole non mi riusciva di distinguerle tutte. « Possibile che discorrano d'Anita? > pensavo. « E. molto sviluppa• ta ... », sentii dire. La parola «amore» fu pronunziata due o tre volte. Che sull'amore tutti sapessero molto più di mc? Che, sul mio stesso caso, capissero ciò ch'io non potevo comprendere? Consumato, nel mio sfogo involontario, tutto ciò che si sarebbe potuto chiamare un innamoramento, io giudicavo ciò ch'ero statò da ciò che ero. Non ammettevo d' essermi « cotto ». Chi poteva provarlo? La mia difendi• bilità giuridica, nel mio pensiero, sostituiva la realtà dei fatti. Orbene, io sentivo gli altri almanaccare sul mio «amoretto», volerne capire ciò di cui non sarebbero mai riusciti a farsi nemmeno un'idea. Quella parola «amore> finii con l'odiarla, col non poterci pensare senza arro'l.Sire di rabbia e di vergogna. C'era qualcosa di illecito nel ricordare ciò che avevo vissuto e qualcosa di illecito, di presuntuoso, di sciocco, nella curiosità altrui, nella volontà d'intro· mettervisi e di rimescolare quei miei ricordi. Senza nemmeno accorgermi della scoperta, stavo intuendo, e proprio per l' atteggiamento dei « grandi >, come l'amore fosse più una realtà senza rimedio che una colpa. A distanza di anni capii, infine, che il solo scopo del mio confronto con la :~~; 1 ~;~;.alanga era la curiosità di qucIntrodotto, dopo lunga attesa, nell'ufficio del prrside, dapprima ci fu imbarazzo. La signora Falanga a me parve bellissima. Nel vecchio ufficio si spandeva un suo profumo piacevole e lussuoso. Il preside fece un gesto per cederle l'iniziativa del discorso, ma la signora, con dei sorrisi e con dei cenni di diniego, andò a sedersi in un posto lontano e quasi in ombra ; di lì poteva, a suo agio, fissarmi. li preside cominciò una sua oraz.ione, rivolgendosi ora a me, ora alla signora, che lo ricam• biava con amabili mosse del capo; due o tre volte non riuscì a terminare le frasi. Capii questo: la convenienza sug• geriva, ormai, ch'io mi trasferissi in un altro istituto. La colpa era mia, di nessun altro che mia. I genitori d'Anita desideravano che le chiacchiere sulla figliuola fossero spente sul nascere. Non era giusto che Anita dovesse subire le conseguenze di quant'era successo. Il preside, sinceramente, s'augurava ch'io mi pentissi. E che mi comportassi assai meglio nel nuovo istituto. Mio padre e mia madre, addoloratìssimi, già co• noscevano il provvedimento; era stato un loro desiderio che il mio preside me lo comunicasse, e in presenza della signora che « nella persona di sua figlia > avevo offeso. Chiedessi dunque scusa, solennemente, alla signora, la quale, nella sua bontà, si compiaceva di perdonarmi. « Non è veroJ signora? » domandò il preside. « Ma certo>, gli fu risposto con un sorriso simpatico e una bella voce elegante. La mia nuova scuola era lontana. Era un edificio costruito da poco, qua.si alla periferia della città. Mi ci volevano due lunghe corse tranviarie per re• carmici. Tutto un viaggio, melanconico, strano. Nessuno della mia classe mi riusciva simpatico; i volti, i modi dci miei compagni mì davano la stessa impressione squallida, dura, dei quartieri sconosciuti che contemplavo dai finestrini del tranyai. Nessuno del resto sapeva perché fossi lì. La diffidenza mi consi~liava di non stringere alcuna amicizia ... Nella mia classe non c'erano ragazze, ma ad Anita pensavo con un penoso stupore; la sua immagine si stampava nel mio ricordo nitida ed insignificante. Per questo tutto era do· vuto dunque succedere? Eppure come dopo uno strapazzo e dopo un sonno giovanile si ha una sensazione di fora inattesa e leggera, così, un bel momento, io mi ritrovai non pili avvilito, ma anzi arricchito: il mio ca• so cessò d'esser torbido e fu soltanto bizzarro; Tra le studentesse delle altre sezioni ne avevo notato solo una. Era magra nella parte superiore del corpo, non così in quella inferiore, stranamente forte e ben fatta. Attraversava i cor• ridoi con passo svelto, allegro. li suo sguardo mi cercava e mi fissava, poi, con un incomprensibile scintilllo. L'avevo dovuta osservare q'1asi per forza. Sgattaiolavo lontano da quei suoi occhi subito preso dallo spavento. « Non ricomincerà mica lo scherzo! Sarebbe buffa! > pensavo, per esorcizzarmi. Un giorno questa ragazza, durante un in• tervallo, mi venne direttamente incontro, dall'angolo opposto d'un cortile. « Tanti saluti dalla Falanga », mi disse, e passò via. Per due giorni rimasi come intontito. Infine maturò in me una decisione eroica. Dovevo parlare con quella ragazza, chiederle delle spiegazioni, qualun• que cosa potesse costarmi. Un pomeriggio la seguii all'uscita. li coraggio di raggiungerla e di parlarle mi manca.va, ma anche quello di recedere dal mio proposito. Ed essa s'era ben accorta di me! Mi pareva di leggerlo nel suo passo! Con mio stupore1 in una stradina deserta, in fondo alla quale cominciavano a vedersi certi campi, essa si voltò. « Ebbene, cosa vuoi? > mi chiese a bruciapelo, quando fui costretto a raggiungerla. « Che ne sa... che ne sa lei della Falanga? > « Sanno tutto, le donne, non te ne sei ancora accorto? » Rimasi senza fiato. Cerca,·'.) inutilmente qualche parola maschia e sfrontata. lnvecf" guardavo in terra con un'aria stupida e rabbiosa. D'improvviso mi parve che :.e anch'io le avessi dato del tu tutto sarebbe riuscito più fatile. « Ma a te .A.LESS.A.NDRO DUMAS che te ne viene in ta.Ka a interessarti dei fatti de$'li altri? » dissi. « Oh Dio! I fatti degh altri ! > mi rispose, facen• do per ironia la voce svenevole. « Ma si capisce ... sei cotto, poverino! > « Nemmeno per sogno! > prorupoi. li nostro diverbio a poco a poco si mutò. Lei era instancabilmente curiosa, io accanito nel volerle dipingere, a mio modo, I.a mia storia. Il suo tono si fece comumcativo. Che piacere per me discorrere - e con una ragazza - di queJlo che era stato per tanto tempo la mia ver• gogna. E vantarmene! Con che soddisfazione mi sbizzarrivo alle spalle di Gra.55in, del mio preside, della signora Falanga ! La mia improvvisata amica mi ascoltava e rideva. Quant'era diversa questa ragazza dall'altra, da quell'Anita che pareva sempre sognare, vivere astratta, pigra e vanesia nell'alone della propria bellezza. Se m'avessero visto i predicatori, i tormentatori, quelli che sembravano conoscere tanto bene, ai miei danni, l'amore! Ero emozionato. Ci trovavamo ai margini dell'abitato, già nella campagna suburbana. Non ricordo più i nostri discorsi. Ricordo quell'impressione di scaltrezza, di soregiudicatezza e di forza che s'accendeva in me. Quell'impressione di vendicarmi di tutto e di tutti. Ricordo anche l'orgogliosa delizia del mio primo bacio d'amore. MARIO ROBERTAZZI ILVISOONTDEI BRAGELODI t in vendita in tutte le librerie il primo volume di questo celebre romanzo storico, nella traduzione integrale di Tomaso :\1:oniccllie illustrato con disegni di Gustavino. Prezzo del volume : Rilegato in brochure Llre 30 - Rile~ato in tela e oro Llre 40 Continua intanto la pubblicazione a dispense del seguito dell'opera. Costo di ogni dispensa di 16 pagine, in vendita in ogni edicola, cent. 70. .A:bbonamento: alle 38 dispense circa del li volume Lire 20 alle 115 dispense dell'opera completa Lire 50 IUZZOLI EC.EDITORI · PIAZZACARLOERBA 6, MILAliO Abbonamento• speciale da oggi al 31 Dicembre L. 23 A.NTON ZISCHKA. AUTORE DELLA "GUERRA SEGRETA PER IL PETROLIO" LI SGIBIZI contro l monopoli ILLUSTRATO L. 15 00 11 1111111•1•/tlm/1•0, Il lt'fl"" ,.,.,,,,. 1,,.,.,11,•. lii l111111 Nt"II: Il /H"t 0 01•t•. Il t•t111t•t•IIÌ 11I t•11l1•t• t• 1•111•IJIIIH". l11 fu•11 ! 11111 Nllllt•llt•II. I 1•ut1·t111I t11•ti/lt·lttll. 1·1111•01(• tll lt•/1110··. B o DI p I A. I

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