Nord e Sud - anno XX - n. 167 - novembre 1973

NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Luigi Compagna, Il « j' accuse » di Montanelli - Girolamo Cotroneo, Un1 equazione sbagliata - Antonino de Arcangelis, La vita e la morte fra due censimenti' - Oscar Mammì, La guerra in Medio Oriente - Francesco Compagna, Gli squilibri più avanzati e scritti di Walter Berardi, Aurelio Bruzzo, Michele Cataudella, Andrea Cèndali, Guido Compagna, Tullio D' Aponte, Maria Laura Gasparini, Antonino Laganà, Corrado Scattaretico, Vittorio Sirianni, Giuseppe Talamo ANNO XX - NTJOVA SERIE - NOVEMBRE 1973 - N. 167 (228) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI BibliotecaGino Bianco

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XX - NOVEMBRE 1973 - 167 (228) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 -. 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200- Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scientifiche Italiane - Via Chiatamone 7, Napoli BibliotecaGino Bianco

SOMMARIO Luigi Compagna Girolamo Cotroneo Antonino de Arcangelis Oscar Mammì Andrea Cendàli Maria Laura Gasparini Walter Berardi Guido Compagna Aurelio Bruzzo Tullio D'Aponte Editoriale [3] Il « j' accuse » di Montanelli [ 6] Un'equazione sbagliata [10] La vita e la morte fra due censimenti [22] Cronache parlamentari La guerra in Medio Oriente [33] Giornale a più voci L'acqua in Sicilia [38] Un programma per l'energia [41] Una proposta per i cardiopatici della Campania [ 45] Napoli città problema DC: la comn1-issione alla prova [ 49] Argomenti I porti dell'alto Adriatico [52] Le regioni e l'urbanistica commerciale [80] Documenti Francesco Compagna Gli squilibri più avanzati [91] Recensioni Antonino Laganà Sartre e gl'intellettuali [ 102] Vittorio Sirianni Miti e realtà del dirigente [107] Corrado Scattaretico Uno studio sul Salernitano [ 112] Giuseppe Talamo La Calabria fra Bonaparte e Mural [ 116 J Letteratura Michele Cataudella Gasparo Gozzi traduttore di Boursault [119] Biblioteca Gino Bianco

Editoriale Nei giorni più caldi della guerra del Kippur, Giovanni Spadolini, in un articolo su « La Stampa», aveva parlato di « censimento delle coscienze » sul tema del diritto di Israele all'esistenza e sulla necessità di riconoscere, affermare e ribadire tale diritto con la massima serenità di spirito e con la massima severità d'intenti. Spadolini si era rivolto in particolare all'Europa den1ocratica, nel senso etico-politico prima ancora e più ancora che geografico-territoriale dell'espressione, con una formula che, lontana da ogni schematis1no e da qualsiasi manicheismo, potesse risuscitare e rianimare, dinnanzi ad un test così decisivo, quella passione europea che uo1nini come Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli avevano acceso e nella quale uomini come Adenauer, De Gasperi e Schuman avevano creduto, ed alla quale avrebbero comunque fatto appello per resistere al ricatto del petrolio con diversa energia, e magari anche con diverso stile, rispetto a quello dimostrato dagli attuali ministri degli esteri europei. L'esito dell'incontro di Bruxelles ha brutalmente ricordato quanto quel censimento sia passivo per la vitalità di quella passione nell'animo dei leaders europei di oggi, e quanto una gretta rivendicazione d'indipendenza dai legami con l'alleato a,nericano ed una non meno gretta sottomissione alle pressioni degli arabi abbiano potuto prevalere sulle correnti di opinioni europee che pur si erano espresse, con buona pace dei comunisti, in pubbliche manifestazioni di solidarietà verso Israele. « Anche l'Olanda - si leggeva in un editoriale de 'La Voce Repubblicana' il 7 novembre - il piccolo, coraggios~ paese che aveva incassato per primo la bordata dell'embargo deciso dagli sceicchi del petrolio ha dovuto subire. Nessuna solidarietà le è venuta dai paesi più grossi della Comunità ed ha dovuto evidenteniente cedere dinnanzi all'intesa tra britannici, francesi e tedeschi. Che si tratti di riavere· il petrolio altrimenti non concesso dagli arabi è palese come è palese che si tratta di una maniera storicamente non illustre di giocare un ruolo internazionale ». Il metodo usato dagli sceicchi, che ha finito col piegare gli europei ad una vera e propria« sovranità limit_ata », è là stesso dei terroristi, e non si ved'e come « Il Popolo » abbia potuto rintracciare nel documento di Bruxelles « un salto qualitativo nella ricerca di una posizione politica comune da parte 3 BibliotecaGino Bianco

Editoriale dei Nove». Laddove non vi è stato alcun passo avanti sul « faticoso cammino dell'unità », ha notato « L'Avanti! », ma, al contrario, « una battuta d'arresto ». Si è trattato di un occasionale accordo d'interessi fra « paesi chiusi in una gretta visione dell'avvenire, ognuno dei quali vuole simultaneamente essere solo, non conipromettersi, e ottenere la solidarietà degli altri », la cui astuzia nazional-petrolifera non può comunque far dimenticare che, come ha ricordato Arrigo Benedetti su « Il Mondo », « la Comunità europea nel suo insie1ne, e in ogni paese singolo, non hanno più una politica estera, e che alla diplomazia si è sostituita la furbizia del debole ansioso di non essere frainteso per non dispiacere a nessuno e fatalmente frainteso da tutti ». Trent'anni dopo la nascita del federalisn10 europeo, una incredibile frantumazione di volontà politica ha portato l'Europa a comprare l'affiusso di carburante con pubbliche rinuncie alla solidarietà verso I sraele, che, voglia o meno l'ambiguità_ democristiana o la doppiezza comunista considerarle tali, si configurano come pubbliche rinuncie al significato e alla dignità dell'Europa democratica. Certo i comunisti possono scrivere sui loro giornali che « l'arma del petrolio accelera i tempi della discussione comunitaria >>, se ci tengono tanto a dimostrare quanto distante sia la loro idea dell'Europa rispetto agl'ideali della sovranazionalità democratica, e se davvero ritengono sia giunto il momento di spiegare all'opinione pubblica e alle altre forze politiche quale sia il loro programma di politica estera, quale futuro essi auspichino per il nostro continente in nome di quello che essi presentano come l'europeismo dell' equidistanza e comunque e dovunque dell' anti-imperialismo. « Soltanto lo zelo per gl'interessi di grande potenza dell'Unione Sovietica - ha scritto Carlo Casalegno, il giornalista che forse più degli altri e meglio degli altri ha sentito il dramma del vuoto europeo - può spiegare l'accettazione entusiastica d'una sovranità limitata imposta all'Europa dal ricatto permanente dei petrolieri arabi. O può giustificare la falsificazione dei fatti per cui gli sceicchi d'oro diventano vittime del neocolonialismo e protagonisti d'una lotta di liberazione, i monarchi reazionari d'un anacronistico medioevo e i falsi rivoluzionari del socialismo islamico sono proposti all'Europa come interlocutori privilegiati; e s~ chiede agli occidentali non soltanto di pagare con più denaro e con maggiori cedimenti politici il petrolio che hanno fatto sgorgare dal deserto, ma di stringere legami d'attiva an1icizia con i ricattatori e di rallegrarsi che le royalties pagate dalla nostra industria servano a finanziare la guerra contro Israele ». Abbiamo detto più volte su questa rivista che la politica araba dei comunisti, condivisa da parecchi cattolici travolti dalla passione terzo4 BibliotecaGino Bianco

Editoriale mondista o ossequienti alle ipocrisie coranico-conciliari delle gerarchie ecclesiastiche, risponde perfettamente agl'interessi imperialistici · ( questi si!) dell'Unione Sovietica. Essa tende ad allargare la sfera d'influenza sovietica dal Golfo Persico al Nord Africa, ad allontanare gli americani dal Mediterraneo e ad isolarli dagli alleati europei, giocando su una doppia finzione: che Israele possa sopravvivere senza .alleati e senza garanzie contro un mondo arabo esaltato dal nazionalismo, e che la neutralizzazione del Mediterraneo assicuri la pacifica indipendenza dei paesi che vi si affacciano « Ma per gl'italiani, e gli occidentali - ammoniva giustamente Casalegno - questa politica equivarrebbe a un suicidio; basterebbe la satellizzazione dell'Italia, Paese di frontiera, per aggravare rovinosamente la debolezza già drammatica di un'Europa disunita e senza coraggio ». 5 BibliotecaGino Bianco

Il «j'accuse» di Montanelli di Luigi Compagna Tra clamorose crisi della stampa quotidiana e periodica, accesi dibattiti su monopolio televisivo e libertà d'antenna, annunci di sempre più potenti e più invadenti mass-media, i problemi del giornalismo nelle società contemporanee si vanno configurando come problemi le cui implicazioni, diverse quanto complesse, investono profondamente le radici stesse di queste società. Insomma, oggi più tangibilmente che in passato, direbbe Giovanni Spadolini, nella difesa o nell'offesa alla libertà di stampa si incarna la difesa o l'offesa della libertà tout-court. Eppure i problemi del giornalismo in Italia sono stati finora affrontati, il più delle volte, con spirito intimamente illiberale e con opinioni piuttosto discutibili: vittimismo nella denuncia ed astrattezza nell'analisi della propria condizione sembrano oggi portare parecchi giornalisti a ritenere che vi possano essere sicure medicine legislative contro le insidie e contro le lusinghe dell'asservimento giornalistico ai « padroni » dei giornali, o ai potenti della politica. Laddove è nella coscienza professionale dei giornalisti stessi il più forte presidio contro l'asservimento; ed in ogni caso, a proposito di regolamentazione, si deve ricordare quanto ebbe a dire 150 anni or sono John Adams, all'epoca in cui i grandi giornali d'informazione vendevano meno di cinque1nila copie: « La regolamentazione della stampa è uno dei problemi più difficili da risolvere e anche dei più pericolosi. Non si può governare senza farvi ricorso né, finora; dopo avervi fatto ricorso ». Accanto ad uno sgradevole corporativismo, quello che induce spesso i comitati di redazione ad associare la battaglia per la libertà di stampa a quella per l'inamovibilità del posto di lavoro, è dilagata in questi ultimi anni la fastidiosa e pericolosa tendenza ad un oggettivismo di maniera e di comodo. Un atteggiamento la cui massima aspirazione sembra essere, nella migliore delle ipotesi - anzi, nella più oggettiva-, quella di rendere sempre più sfumate le differenze professionali fra un giornalista ed un notaio, in uno spirito di malintes~ e catechistica fedeltà alle esperienze anglosassoni. Un ogget6 Biblioteca Gino Bianco

Il « j' accuse» di Montanelli tivismo che, nei suoi presupposti ideali e nella sua capacità d'indagine, è comunque lontano da quella « psicosi d'accertamento », di cui ha dichiarato di soffrire Alberto Ronchey e che è una delle malattie più nobili del giornalismo anticonformista, di tradizione e vocazione pannunziana, continuamente nutrito ed arricchito dal peso dei « fatti » e dei « dati », ma che non per questo sente l'esigenza di salvarsi dal dubbio tragico del pensiero critico e di rifugiarsi nell'ambigua e semplicistica formula dell'« avalutatività », o de « i fatti separati dalle opinioni ». Gli inquinamenti del corporativismo e i luoghi comuni sull' oggettivismo hanno contribuito ad aggravare il malessere del giornalismo italiano non meno di quei « gruppi di pressione» e di quelle « concentrazioni » finanziarie o industriali che, per finalità estranee a quelle della scrupolosa informazione - e spesso anche della civile formazione - dell'opinione pubblica, si adoperano per controllare i giornali più diffusi. In questo senso si devono condi_videre i punti essenziali del j' accuse che Indro Montanelli ha rivolto alle più evidenti distorsioni sul modo d'intendere la professione giornalistica nel nostro paese, e che superano certamente l'arco della polemica, o se si vuole dell'insofferenza, del più famoso giornalista nei confronti del più famoso quotidiano nazionale. Analoghe a quelle di Montanelli sono d'altra parte alcune delle considerazioni di Jean-Louis Servan-Schreiber, nel suo stimolante e documentatissimo Il potere d'inforrnare. Su quello che sembra essere per esempio il problema capitale del nostro tempo, e cioè se i nuovissimi sistemi elettronici uccideranno definitivamente l'informazione scritta, Servan Schreiber pensa che« il solo elemento il cui avvenire non può essere messo in causa da qualsiasi novità tecnologica, il solo che resisterebbe all'eventuale abbandono delìa carta stampata come supporto materiale, resterà la qualità redazionale (contenuto, stile, presentazione). In grande maggioranza i padroni della stampa, non se ne sono ancora accorti e questa cecità costituisce il solo pericolo serio e globale che pesa sulla stampa». E la qualità redazionale - e qui il discorso meriterebbe di essere approfondito e sviluppato nel senso della qualità del direttore -· è appunto quella che, a giudizio di Montanelli, è oggi maggiormente esposta, con tutti i rischi di libertà che è facile immaginare, agli assalti convergenti del corporativismo e dell'oggettivismo imperanti. Ma se i rilievi di. Montanelli sono convincenti come diagnosi, lo sono un po' meno come prognosi: perché non si esce dalle anguste secche dell'oggettivismo promuovendo i lettori del giornale a 7 BibliotecaGino Bianco

Luigi Conzpagna « maggioranza silenziosa», di cui il giornalista debba tener conto innanzitutto e soprattutto. Il rischio è quello di un conformismo di tipo diverso, ma egualmente illiberale, nel senso che impedirebbe ai lettori di identificare nei giornalisti coloro dai quali, secondo l'efficace immagine di Charles Mc Ilwain, la minoranza del « popolo ubriaco» può sentirsi per così dire garantita dalla maggioranza del « popolo sobrio ». Lo stesso Montanelli, in un eccellente articolo su « La Stampa )> del 4 novembre scorso, invitava a diffidare dello stato d'animo della maggioranza dei lettori americani, pronta a celebrare come eroi del buon costume, della patria e della morale Woodward e Bernstein, i due giornalisti del « Washington Post », che avevano ricostruito il clamoroso scandalo del Watergate. A Woodward e a Bernstein, suggeriva Montanelli, dovevano riconoscersi meriti di grande mestiere e di ottimo fiuto; nondimeno la coscienza di un giornalismo animato da risorse di fermezza ideale e di intelligenza politica restava ferita dal fatto che « la gioia di mettere Nixon nei guai faceva premio sul dolore che l'America ci si trovasse », e quindi dal fatto di aver soggia- · ciuto acriticamente agli umori, sempre più mutevoli, di una maggioranza, sempre meno silenziosa. Nelle attuali società democratiche la maggioranza, lo aveva intuito Tocqueville e lo ribadiva Vittorio de Caprariis, tende a configurarsi in una massa « anonima, etero-diretta, tendenzialmente conformista e gregaria, più evoluta certo delle moltitudini di cent'anni fa, ma meno coltivata degli esigui gruppi di elettori di un tempo, preda facile di possenti emozioni, poco propensa all'istintivo controllo critico delle informazioni, incline alle soluzioni estreme come a quelle che meglio colpiscono l'imn1aginazione ed appaiono più semplici e più semplicemente traducibili in pratica, pronta alla ritirata più vergognosa ed alla crociata più risoluta, che vuole tutto ed il contrario di tutto, e l'uno e l'altro neilo stesso momento ». Di qui· la richiesta sempre più pressante che il giornalista sia essenzialmente lo« storico dell'istante », come diceva Camus, nonché la disponibilità sempre più manifesta, nonostante i facili schemi dell'oggettività o de «•i fatti separati dalle opinioni», ad un giornalismo più brillante che scrupoloso, più impressionistico che documentato, più informativo - sommariamente - che informato - seriamente -, più protestatario che critico. Questa richiesta, non meno di questa disponibilità, conferma che quella che comunemente si dice la crisi del giornalismo è soprattutto c;risi etico-politica. Se si pensa al contributo che nella storia del 8 Bib.liotecaGino Bianco

Il « j' accuse» di Montanelli nostro paese certi grandi studiosi (Nitti, Einaudi, Omodeo, Salvemini e tanti altri) hanno voluto e saputo dare ai giornali e alle riviste, infrangendo le regole del più gretto neutralismo accademico e recando impulsi decisivi alla circolazione delle idee ed all'interpretazione dei fatti, si deve riconoscere quanto il giornalismo soffra oggi anch'esso di un vuoto di leadership etico-politica. Un vuoto che la stagione pannunziana del giornalismo italiano riusciva forse a dissimulare, e che, proprio tenendo conto della lezione pannunziana, H giornalismo italiano può trovare la forza di riempire. LUIGI COMPAGNA 9 BipliotecaGino Bianco

Un'equazione sbagliata di Girolamo Cotroneo Le ipotesi e le teorie sulle origini del fascismo italiano ed europeo sono ormai tante da rendere estremamente improbabile proporne di nuove. Aveva forse ragione Angelo Tasca quando sosteneva che « definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia», senza tentare di spiegarlo attraverso categorie generali sul tipo « dittatura del capitale all'epoca della decadenza »; « dittatura del grande capitale »; « dittatura del capitale finanziario »; « dittatura apertamente terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario »; « dittatura delle ' duecento famiglie' », e così via: categorie, diceva Tas_ca, che non sorprendono il fascismo nel suo divenire, chei impediscono di cogliere quella « differenza specifica » che lo caratterizza in un dato paese o in una data epoca, non essendo esso « un soggetto di cui basti ricercare gli attributi, ma la risultante di tutta una situazione dalla quale non può essere disgiunto ». , Sulla validità· della metodologia proposta da Tasca non oseremmo., né forse potremmo, avanzare riserva alcuna: tuttavia, poiché ogni generazione riscrive la storia, è evidente che la maniera in cui Tasca « leggeva » il fenomeno storico del fascismo non può più essere quella in cui l'hanno letta, o la leggono, gli storici posteriori o quelli contemporanei, anche quando si muovono, almeno come presupposto ideologico di fondo 1 sulla linea dell'autore di Nascita e avve·nto del fascismo. Naturalmente non è questo un fatto che ci disturba: il problema è invece quello di vedere la legittimità dei risultati ai quali può approdare una metodologia .che al carattere individualizzante de1la ricerca storica (quello, nel nostro caso, indicato da Angelo Tasca), sostituisca quello generalizzante, di tipo astrattamente sociologico, che si propone di spiegare un accadimento storico non già attraverso l'analisi dei particolari (cioè attraverso l'individualità del fatto storico), bensì attraverso alcuni meccanismi fondamentali, dai quali dovrebbe risu1tare una sorta di uniformità di comportamenti. In altre parole, è per noi cattiva metodo~ogia quella che, post-f actum,. unifica forze, strutture e ten10 BibliotecaGino Bianco

Un'equazione sbagliata <lenze sostanzialmente eterogenee in un unico fenomeno, stabilendo nessi di causalità universale, per coordinare storiograficamente avvenimenti legati fra di loro soltanto in maniera particolare e contingente. Per venire al caso specifico da cui abbiamo preso le mosse, cioè alle interpretazioni contemporanee del fascismo, ci sembra che alcuni settori della nostra storiografia, invece di ristudiare a fondo la genesi del fascisn10, soprattutto alla luce della dinamica dei nuovi fascismi apparsi in quest'ultimo trentennio, - il che permetterebbe di meglio intendere il problema e di evitare tanti gravi errori politici -, abbia preso la strada di spiegarlo per via deterministica - e quindi aprioristica e astratta -, attraverso un'equazione non nuova in se stessa, ma che oggi sembra condizionare largamente la letteratura antifascista sul fascismo. Si tratta dell'equazione secondo la quale il fascismo non sarebbe altro che l'altra faccia del liberalismo, quella che quest'ultimo assumerebbe ogni qualvolta i detentori del privilegio economico trovano di fronte a sé una forza organizzata che minaccia di incidere, oltre i limiti della tollerabilità, quello stesso privilegio (sempre garantito, in via di principio, dal sistema liberale). Non vorremmo arrivare al punto di sostenere che questa è poco meno che una formula magica con la quale tutto si spiega (anche se certi storici la usano proprio come lex unica che spiega la genesi del fascismo, con la stessa certezza scientifica con cui si afferma che la legge di gravità regola il movimento dei corpi). Vorremmo invece tentare un discorso più ambizioso che, pur concedendo spazio ai sostenitùri di questa teoria, cerchi soprattutto di individuarne i limiti, almeno quelli più evidenti, riducendola così a spiegazione particolare della nascita di un certo tipo di fascismo in un certo paese (l'Italia, se si vuole), ma inidonea a essere assunta come legge u;niversale. Come prima si diceva, non si tratta di un'interpretazione nuova, ricollegandosi al celebre discorso del fascismo (italiano), visto non come « rivoluzione », bensì come «rivelazione» dell'autentico vòlto della borghesia cosiddetta liberale. Ma prima di avanzare i possibili argomenti contrari, è forse necessario un chiarimento preliminare riguardante le ragioni per cui' questa tesi - anche se mai dimenticata dagli storici italiani, particolarmente da quelli marxisti - abbia avuto proprio di recente un rilancio clamoroso: come dimostra il fatto che soltanto fra il gennaio e il maggio di quest'anno sono apparse ben tre opere diverse - un volume collettivo 11 Bibl_iotecaGino Bianco

Girolanw Cotroneo di Einaudi dal titolo Fascismo e società italiana, inaugurato da un saggio di Guido Quazza; un libro di Nicola Tranfaglia, pubblicato da Feltrinelli con il titolo Dallo stato liberale al regime fascista; la traduzione italiana, anch'essa per i tipi di Feltrinelli, dello studio di Reinhard Kiihnl, Due forme di dominio borghése: liberalismo e fascismo - tutte centrate sulla tesi secondo cui la prospettiva della « continuità» fra stato liberale e fascismo, appare, sono parole di Guido Quazza, assai più utile di quella della «frattura», per cogliere « i significati più importanti del posto che la storia del fascismo ha nella storia d'Italia». Preferiremmo sbagliarci: ma, a nostro avviso, il radicalizzarsi della situazione politica italiana nel corso di questi ultimi anni (non dobbiamo infatti mai dimenticare che le interpretazioni storiche nascono o rinascono sotto la suggestione della situazione politica del presente) ha provocato una notevole dilatazione del concetto di fascismo. Oggi, cioè, si tende a fare cadere sotto l'etichetta di « fascista», o ad attribuire una matrice e una potenzialità fascista, a forze politiche (e, se si vuole, anche a forze economiche: ma qui il discorso, come si vedrà, è alquanto diverso) che con il fascismo non hanno nulla a che dividere, e che anzi a esso fieramente si oppongono. Quali vantaggi, sul piano pratico-politico, possa apportare alla stessa sinistra marxista questa tesi, non sta a noi dirlo (anche se pare certo che essa g1ova soprattutto alle frange estremiste che, identificando lo stato democratico e liberale con il fascismo, pensano di potere applicare nei confronti del primo quel tipo di lotta politica che, semmai, potrebbe essere utile nei confronti del secondo: e ciò spiegherebbe certe- manifestazioni aberranti, nei confronti delle quali la stessa sinistra marxista « ufficiale» è costretta spesso a prendere le distanze). In ogni modo, è evidente che la massiccia presenza di una tale tendenza finisca con il condizionare, a livello culturale, le- interpretazioni storico-politiche, favorendo pertanto la diffusione della tesi tecondo cui - sono parole di Reinhard Kiihnl - « la tolleranza del liberalismo ha termine quando si mette in questione l'ordinamento borghese della prop~ietà ». Ritorneremo su quest'ultimo tema, certamente decisivo: per ora ci interessa aggiungere, onde evitare equivoci e fare torto agli autori, che né Quazza, né Tranfaglia, né Kiihnl, riportano questa tesi in maniera grossolana. Tranfaglia - il cui lavoro ha suscitato l'attenzione anche di uno storico non marxista quale Giuseppe Galasso, che lo ha favorevolmente recensito - già in 12 BioliotecaGino Bianc.o

, Un'equazione sbagliata apertura, anzi a premessa della sua ricerca, dichiara che pure se l'esperienza liberale italiana e quella fascista vanno analizzate sotto il segno della « continuità», non si possono ignorare « le rotture e i mutamenti » che fra di esse vi furono, e che sono « tutt'altro che privi di importanza ». Forse più radicale la tesi di Quazza, ritenendo lo storico torinese che pur se la « grande » borghesia non ha mai fatto, né fa, del fascismo il proprio regime ideale, tuttavia « ritiene dura ma ineludibile necessità, nel momento dello scontro più diretto, concentrare il 'comando politico', al fine di trarre dalle istituzioni il massimo potere coercitivo per respingere l'attacco rivoluzionario o, in ogni caso, per garantirsi a posteriori della grande paura di perdere tutto» (dove l'errore, a nostro avviso, sta soprattutto nel credere che soltanto la « grande »borghesia desideri, in certe circostanze, il « concentramento » del potere politico: errore tragico, come dimostrano avvenimenti recenti, che porta a sopravvalutare le capacità di resistenza « popolare » al fascismo e la consistenza quantitativa degli strati sociali che a un certo punto lo fanno proprio). Ancora, per restare nello stesso argomento, Reinhard Kiihnl rileva « che il fascismo non si deve considerare come un semplice sgherro del capitale, ma [ ...] un movimento di massa sorto spontaneamente [che] costituisce quindi un fattore politico indipendente. Il rapporto tra la classe dominante e il fascismo - prosegue lo storico tedesco - nel periodo anteriore alla' presa del potere' deve quindi essere definito come un'alleanza tra due soci indipendenti, e non come un rapporto unilaterale di dipendenza, in cui uno dei due fattori - la classe dominante - produce l'altro a suo piacimento e lo adopera come uno strumento per la realizzazione dei propri scopi ». Tutto ciò - pur mettendo variamente in rilievo le differenze - si fonda sempre sul presupposto iniziale, quello della « rivelazione», della « continuità» fra i due modi di governo: a questo punto, quindi, ci si rende vèramente conto che, nonostante tutto, la perdita del « senso del molteplice », paventata da Quazza, rischia di presentarsi veramente come tale. Perché lungo questa via. si finisce con l'instaurare un rapporto pressoché meccanico e universale, secondo cui ogni qualvolta un regime « liberale » senta minacciati alcuni dei presupposti di fondo su cui si regge - in particolare la struttura della proprietà -, scatena la reazione fascista (o si serve secondo Kiihnl ·- che qui riprende la tesi di Tasca sulle origini spontanee del fascismo - di quest'ultimo, nato per 13 BibliotecaGino Bianco

Girolarao Cotroneo conto proprio; e ci sarebbe da chiedersi da che cosa nasca o che cosa lo faccia nascere: ma questo porterebbe a un altro discorso). Ci troveremmo quindi di fronte a un fatto meccanico e deterministico, risultato, come già dall'inizio dicevamo, di un tipo · di metodologia storica a carattere generalizzante, che eleva a regola primaria e assoluta un particolare fenomeno. Il problema esige allora uno speciale chiarimento. Diamo per buona la tesi per quel che riguarda la nascita del fascismo in Italia; accettian10 cioè che esso si ponga senza soluzione di continuità (tranne che per certi aspetti marginali) nei confronti dello stato liberale. A questo punto però è legittimo porsi una domanda: come mai in altri Stati liberali (la Gran Bretagna, soprattutto, ma anche la Francia o gli Stati Uniti d'America), un fenomeno di questo genere non si è mai verificato? Nicola Tranfaglia ha tentato un breve esame comparativo, dal quale risulta che, ad esempio in Inghilterra, l'urto fra la classe operaia emergente e la coalizione aristocratica e alta e medio borghese al governo dello Stato, sia stato contenuto attraverso una serie di provvedimenti (accettazione della presenza delle Trade Unions nelle fabbriche, riconoscimento e difesa del diritto di sciopero, ecc.) che indica senza dubbio « la capacità della coalizione al potere, e soprattutto di chi ne ha la leadership, di affrontare tempestivamente e con lungimiranza i nuovi compiti che scaturiscono dall'industrializzazione del paese» (anche se poi ciò si sarebbe risolto - a dire di Tranfaglia - non già in un ridimensionamento dell'egemonia borghese, ma semplicemente nella creazione « di una struttura statale nuova in grado di accogliere il proletariato in posizione subalterna»; il che, anche ove fosse del tutto vero - ma lo è soltanto in parte, in quanto il proletariato inglese vota per un partito che ha governato l'Inghilterra per lunghi periodi - anche se ciò fosse vero, dicevamo, la distanza che separa questo tipo di egemonia dal fascismo è del tutto incommensurabile: cosa questa su cui crediamo convenga anche Tranfaglia). Qualunque conclusione si voglia trarre da questo discorso, è certo. che non sempre e dovunque l'urto fra lo Stato liberale e le forze emergenti - urto che in Inghilterra o negli Stati Uniti, durante la prima metà del secolo, è stato anche durissimo - ha portato come conseguenza la concentrazione del potere, la soppressione delle libertà civili, il fascismo in una parola. Il che dovrebbe portarci a concludere che la natura del liberalismo, i suoi presupposti filosofico-politici, non siano poi così perversi come si 14 BioliotecaGino Bianco

I Un'equazione sbagliata cerca di fare credere; e le sue possibilità di recepire le istanze emergenti siano - quando ci si trova di fronte a uno Stato autenticamente liberale, il cui presupposto di fondo non è la proprietà privata, bensì la libertà, e che quindi non è disponibile a difendere la prima a danno della seconda - forse maggiori di quanto comunemente si creda. Si prenda, ad esempio, quanto dice uno dei più noti teorici della sinistra inglese, Harold J. Laski, che non è certo un simpatizzante del liberalismo, del quale ha fatto, fin dal 1936, un'analisi talora spietata: ebbene, alla fine del suo discorso, Laski giunge a una radicale distinzione fra capitalismo e liberalismo, affermando che, di fronte alle istanze sociali seguite all'industrializzazione, il capitalismo « si trovò sempre di più posto di fronte al dilemma di seguire un'esperienza liberale che avrebbe contribuito alla sua stessa distruzione, oppure, d'altra parte, di distruggere il liberalismo e di continuare a navigare su mari sconosciuti», cioè sui mari del fascismo che, sempre secondo Laski, sorge come « tecnica istituzionale del capitalismo nella sua fase di contrazione e distrugge il liberalismo ». Questa distinzione ci sembra molto importante: perché dimostra soprattutto che laddove il liberalismo politico ha preso il controllo del suo prodotto economico (cioè il capitalismo), le libertà civili non vengono mai messe in discussione e nel conflitto fra capitalismo e istituzioni liberali sono queste ad avere il sopravvento (si pensi, per esempio alla politica di nazionalizzazioni della recente storia d'Inghilterra); mentre invece soltanto laddove le istituzioni liberali perdono il controllo della struttura economica capitalistica, questa prende il sopravvento, distruggendole e dando vita a un regime, fascista o parafascista, che nulla completamente ha a vedere con un sistema liberale autentico. Per cui si potrebbe arrivare a una conclusione di tutt'altro genere: cioè che il fascismo nasca soltanto in quei paesi dove le istituzioni liberali non si sono completamente realizzate, dove la mancanza di una tradizione culturale e politica democratica ha impedito che il liberalismo, oltre e più che istituzione, diventasse una forma mentis, un habitus definitivo, essendosi anch'esso sclerotizzato sulle posizioni e conquiste iniziali (suffraggio ristretto, parlamenti poco rappresentativi, indifferenza dello Stato in materia economica, ecc.), senza recepire le nuove istanze emergenti; dove invece il liberalismo e le sue istituzioni politiche hanno portato alle conseguenze più avanzate le posizioni di partenza, colpendo, ove necessario, attraverso le indispensabili nazionalizzazioni o con una politica economica antimo15 BibliotecaGino Bianco

Girolamo Cotroneo nopolistica, lo stesso capitalismo, non vi :è stata mai la necessità di uno scontro frontale fra le diverse componenti dello Stato, in cui la classe (diciamo così) economica, pur di non perdere i privilegi, ha concentrato nelle proprie mani tutto il potere politico distruggendo le libertà civili. Non essendo degli storici non possiamo proporre analisi dettagliate: tuttavia anche una conoscenza semplicemente superficiale delle vicende storiche del nostro secolo ci rivela come i paesi che hanno conosciuto o conoscono l'onta (non la si potrebbe chiamare altrimenti) del fascismo, sono quelli - come in Europa l'Italia, la Germania, la penisola iberica o la Grecia, e fuori d'Europa gli stati sudamericani - dove la tradizione culturale liberale era pressoché inesistente e dove mai le istituzioni liberali avevano veramente avuto presa, avevano acceso passioni tali da indurre la più parte dei cittadini a difenderle di fronte all'aggressione capitalistica (o magari, ma questo sarebbe un altro discorso, di fronte alle aggressioni di una sinistra massimalista, anch'essa negatrice delle libertà politiche cosjddette borghesi, sia pure, contrariamente al fascismo, con l'ipotetica prospettiva di costituirne di nuove). E che questa conclusione contenga una parte cospicua di verità, lo conferma anche l'analisi di Reinhard Kiihnl, il quale scrive che « a causa della lunga assuefazione alle forme di pensiero e di condotta dello Stato autoritario, la borghesia tedesca era più suscettibile al contagio delle ideologie autoritarie e fasciste di quanto non lo fossero la borghesia inglese, francese o belga »; e ciò, prosegue Kiihnl, « vale anche, in forma attenuata, per l'Italia ». La diagnosi non ci sembra affatto sbagliata, anche se Tranfaglia la respinge sostenendo che la mancanza di tradizioni liberali in Italia e in Germania « sono da attribuirsi evidentemente, e almeno in buona parte, al modello dello sviluppo capitalistico nei due paesi piuttosto che ~ come potrebbe dedursi da quella formulazione - a vizi congeniti e razionalmente inesplicabili». Quale che sia stato il motivo della mancanza di questa tradizione non ci pare in ogni caso rilevante e decisivo: resta il fatto, accettato anc;he da uno storico come Kiihnl non certo sospetto di simpatie per il liberalesimo, che sono più facilmente preda del fascismo le nazioni prive di una cultura liberale nel senso vero della parola, di quanto lo siano quelle che quella stessa cultura abbiano profondamente interiorizzato. Di questo è ancora prova l'osservazione che Enzo Collotti - neppure lui vicino ideologicamente alla politica liberale - ha rivolto a un'altra delle proposte interpretative 16 BibliotecaGino Bianco

, Un'equazione sbagliata di Kiihnl, e che è un altro dei luoghi comuni della letteratura sul fascismo: cioè che alla base della formazione e della presa del potere, in Italia e in Germania, del movimento fascista, vi sia la crisi economica e sociale seguita alla prima guerra mondiale; argomento questo, secondo Ktihnl, che « non bisogna sottovalutare ». A parte il fatto che la storia recente e recentissima ha dimostrato che affinché il fascismo vada al potere non è affatto necessario che un paese attraversi una profonda crisi come quelle postbelliche, secondo noi la spiegazione di un fenomeno storico attraverso il concetto di « crisi » è spiegazione paradeterministica e quindi reazionaria (non dimentichiamo che il concetto di « crisi » fa parte del bagaglio culturale di pensatori come Splenger, o come Ortega y Gasset, o come Huizinga, che lo introdussero nella cultura europea nel ventennio fra le due guerre mondiali). Comunque sia, alla tesi di Ktihnl, facilmente Collotti ha potuto obiettare « che la crisi succeduta alla prima guerra mondiale non investì soltanto l'Italia e la Germania, ma percorse il fronte delle potenze vincitrici al pari dei paesi vinti »; per cui « resta sempre da chiarire perché proprio Italia e Germania furono maggiormente vulnerabili dalla crisi». Ne viene come naturale conseguenza - è sempre Collotti a parlare - che la sola crisi non può essere « l'elemento sufficiente dal. quale scaturisce il fascismo, anche se è il coefficiente necessario per la sua affermazione. Il carattere esplosivo della crisi - conclude Collotti riprendendo il tema di Kiihnl - va collegato alla mancanza di una tradizione liberale e democratica, mancanza che spiega la predisposizione della borghesia tedesca per le ideologie autoritarie e fasciste, a differenza della borghesia inglese e francese e a similitudine di quella italiana». A questo punto l'equazione liberalismo uguale fascismo (potenziale, almeno) comincia a mostrare le prime inesattezze: nella tradizione politica liberale - pensiamo a T. H. Green, a Tocqueville, a Stua.rt-Mill, a Hobhousè - si trova certo la difesa della libertà economica e della proprietà privata; ma dove si legge che essa deve essere difesa fino al punto di sopprimere le libertà civili?. Prendiamo, ad esempio, uno fra i n1eno duttili, forse perché fra i più antichi, teorici del liberalismo, cioè quel Locke per il quale, secondo Harold J. Laski, « lo Stato è una società di proprietari ». Ebbene, nei ·Due trattati sul governo, Locke così scriveva: « Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nesun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l'opera 17 BibliotecaGino Bianco -

Girolamo Cotroneo delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto con1une di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò che è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone ». Nonostante le aperture sociali che l'affermazione lockiana, soprattutto nella frase finale, contiene, è evidente che si tratta di una difesa del diritto di proprietà. Ma su che cosa si fonda questa difesa? Sul concetto del « lavoro », del lavoro diretto, diremmo fisico o addirittura manuale: è chiaro allora che si tratta di concetti - espressi, si pensi nel 1690 - ricchi di vastissime implicazioni e suscettibili di uno sviluppo progressista enorme: basti inoltre pensare, come prima si diceva, alla frase finale, con la quale si limita l'egoismo individuale e si lascia aperta la porta al vantaggio non soltanto proprio, ma anche degli altri. Per contrasto, si legga una delle definizioni che Hegel, nel 1816-17, dava della proprietà: « Il predicato del mio, che è per sé meramente pratico, e che la cosa ottiene mediante il giudizio del possesso dapprima con l'impadronimento esteriore, ha qui però il significato: che io metto in essa il mio volere personale. Mediante questa determinazione, il possesso è proprietà; la quale, come possesso è mezzo, ma, come esistenza della personalità, è scopo ». La differenza fra le due posizioni è abissale: per l'inglese Locke è il « lavoro » ad attribuire il « predicato del mio » alla cosa; per il tedesco Hegel è il « volere », che non si cura per nulla, come invece avveniva in Locke, degli eventuali diritti e necessità altrui. A questo punto, allora, ogni commento diventa superfluo: la lettura dei due testi (abbiamo citato il meno « liberale » fra gli scrittori inglesi e, .nonostante tutto, uno fra i più « liberali » dei filosofi tedeschi) potrebbe da sola bastare a individuare i motivi di fondo che dividono la tradizione liberale inglese dal pensiero politico della Germania e quindi la genesi remota dell'avvento o non avvento del fascismo. Naturalmente ci guarderemmo bene dall'includere lo Hegel fra i precursori del fascismo europe_o: gli studi di Eric Weil e di 18 BioliotecaGino Bianco

, Un'equazione sbagliata Herbert Marcuse ci hanno resi abbastanza scaltriti al proposito. Tuttavia, la tradizione liberale non fa propri, o non fa in tutto propri, nomi come quelli di Hegel, di Julius Sthal, di Treitschke, e nemmeno di Pareto (i quali, ad esempio, non vengono praticamente menzionati nella recente analisi del liberalesimo fatta da Nicola Matteucci - contrariamente tuttavia a un De Ruggiero che riteneva « superficialissima opinione » quella che considerava il popolo tedesco« estraneo al movimento liberale del secolo XIX»), bensì quelli di Locke, di Montesquieu, di Kant, di Tocqueville, di Stuart-Mill, ecc., presso i quali, sia pure in forme diverse, in epoche diverse, a seguito di certe esigenze, la priorità delle libertà « civili » su tutte le altre viene sempre rigorosamente mantenuta; e di questo crediamo non vi sia bisogno neppure di portare esempi. L'obiezione a questo argomento è facilmente prevedibile, ma, riteniamo, altrettanto facilmente confutabile: una cosa, si dirà, è la dottrina, una cosa le pagine dei libri, un altro (e ben alt,ro!) il concreto processo storico-politico. A parte il fatto, di cui abbiamo detto fin troppo, che non è per nulla provato, perché non universalmente accaduto, che il sistema politico liberale si trasformi dovunque e sempre, in date circostanze, in fascismo, che non è affatto vero che sempre e ovunque il conflitto con le classi e le istanze emergenti abbia indotto i sistemi liberali ad attuare la concentrazione dei poteri, a parte questo, dicevamo, l'argomento, in quanto proveniente quasi sempre da studiosi di parte marxista, potrebbe essere rovesciato a loro sfavore. Prendiamo il fenomeno (aberrante: lo ammettono persino i politici marxisti, molto meno obiettivi e sereni degli storici)· dello stalinismo: è implicito nella teoria marxiana dello Stato? oppure lo dobbiamo interpretare come la soluzione radicale dei conflitti politici interni allo sviluppo del socialismo, delle diverse visioni del processo di accumulazione socialista, in cui una delle parti. - quella egemone - impone alle altre con la forza il proprio modello, allo stesso modo, allora, secondo cui il potere capitalista impone il proprio modello di sviluppo a coloro che lo rifiutano e che tentano di demolirlo, iden- · tifi.cando arbitrariamente la propria visione del « bene comune » con quella di tutti? Se lo stalinismo lo si interpreta come degenerazione non necessaria del ·marxismo, non si dovrebbe allora applicare un cattivo storicismo per spiegare la· degenerazione dello Stato liberale e vederlo necessaric1.mente sconfinare nel fascismo (soprattutto ove si pensi che mentre è storicamente dimostrabile che nell'età mo19 Bibli_otecaGino Bianco -

Girolamo Cotroneo derna il liberalismo in molti paesi, che :pure hanno conosciuto e conoscono le lotte sociali, non è approdato al fascismo, lo stesso non può dirsi degli Stati socialisti europei che tutti hanno fatto - e ancora continuano a fare - le spese dello stalinismo). Per questo, fin dall'inizio, sostenevamo che è un procedimento metodologico sostanzialmente errato quello di individuare dei meccanismi storici che scatterebbero sempre allo stesso modo: perché ove, sulla semplice base dell'accaduto, si accetti l'equazione liberalismo uguale fascismo, non si vede poi perché non si debba accettare quella secondo cui il marxismo è uguale allo stalinismo (o che lo contiene in potenza come il liberalismo conterrebbe il fascismo). Non siamo manichei e quindi non rovesciamo gli schemi storici da una parte sull'altra, soprattutto perché non crediamo negli schemi storici: siamo invece per una metodologia storica individualizzante, capace cioè di cogliere le singole situazioni, i singoli fenomeni storici nel loro divenire specifico, senza cercare leggi generali. E respingiamo l'equazione liberalismo uguale fascismo, pur profondamente persuasi che la democrazia liberale non rappresenti il massimo della perfezione. Tuttavia riteniamo che, meglio di qualsiasi altro sistema politico, essa abbia in sé la forza di correggere le gravissime contraddizioni che ancora presenta (ma quale sistema politico non ne presenta?), senza ricorrere alla violenza istituzionalizzata ogni qualvolta si trovi in difficoltà: del resto, nessun regime politico riesce ad essere così critico nei confronti di se stesso come quello liberale, il quale dalla rivoluzione inglese in avanti non ha fatto che recitare la propria autocritica, che proporre modifiche di vario genere all'interno delle proprie strutture, salvaguardando soltanto i principi universali della libertà (e non quelli della proprietà). Ma questo è un discorso di altra natura: per ritornare a quello da cui abbiamo preso le mosse, è certo che il modo con cui abbiamo impostato il problema del fascismo - che cioè esso non si manifesta dove esistono una tradizione e uno Stato liberale, ma soltanto dove questi non esistono - ripropone il problema della valutazione dello Stato prefascista italiano, il quale, proprio sulla base della nostra stessa analisi, non dovrebbe essere considerato uno Stato liberale; perché se effettivamente avesse avuto queste caratteristiche e queste strutture, sarebbe stato immune dal bacillo fascista, come lo sono stati la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Non è un'argome°:tazione che ci disturba: le parti20 Bio.liotecaGino Bianco

, Un'equazione sbagliata colari circostanze in cui si realizzò il processo di unificazione nazionale, impedirono che il filone autenticamente liberale del pensiero politico italiano - quello di Mazzini e di Cattaneo - diventasse egemone nel momento in cui il nuovo Stato costruiva le proprie strutture politiche e economiche. L'egemonia culturale di Croce, poi, come tante volte abbiamo detto, è stata poco più che una fable convenue: inoltre - n1omento da tenere sempre presente -· è soprattutto intorno al 1930, cioè durante il fascismo imperante, che Croce scopre l'autentica dimensione liberale, quella che, con1e ha scritto nella Storia d'Europa, non teme, quando è necessario, la « socializzazione o statificazione » dei mezzi di produzione, colpendo al cuore il principio, su cui il liberalismo in origine si era fondato, della proprietà privata. E se non giungeva - come il liberalismo non giunge mai, o non è giunto ancora - • alla tesi della soppressione integrale della proprietà privata, non era per difendere ingiusti privilegi, ma perché preoccupato dal fatto che, assieme alla proprietà privata, si rischia di .sopprimere anche le libertà civili, che anche per Croce, in quanto erede del pensiero liberale europeo, hanno sempre e dovunque la priorità. Tuttavia non è un semplice caso che Arrigo Benedetti abbia scritto di recente come ai tempi « della famosa polemica Einaudi-Croce » avesse l'impressione« che Einaudi guardasse al mondo come l'aveva conosciuto lui giudicandolo eterno; e che Croce, pur così ostinatamente affezionato al suo, capisse che tutto cambia, anche la società, e che quindi non è da escludersi un sistema economico non·· liberista in un paese libero ». Si tratta, a nostro avviso, •di un discorso coerentemente liberale, che riapre quello che è il problema di fondo del nostro tempo: avere fantasia politica sufficiente per creare soluzioni nuove, che garantiscano sempre e comunque la libertà. Sia Quazza che Tranfaglia ritengono che il filone illtberale (da essi spesso identificato con quello « liberale ») continui anche dopo l'esperienza quasi trentennale della Repubblica: se è veramente così - e l'avanzata politica del fascismo non consente di scartare del tutto l'ipot~si - · gravi responsabilità pesano su tutti e non solo sulle forze del liberalismo politico. Non si dimentichi infatti che Angelo Tasca, fra le tante possibili « definizioni » del fascismo, collocava anche « gli errori delle sinistre »: e fra gli errori delle sinistre non si potrebbe mettere anche quello q.i volere· a tutti i costi dilatare il concetto di fascismo, includendovi quel liberalismo politico che, per natura e pos1z1one, ne rappresenta l'esatta antitesi? GIROLAMO COTRONEO 21 BibliotecaGino Bianco

La vita e la morte fra due censimenti di Antonino de Arcangelis I fenomeni di ordine anagrafico assumono particolare significato in occasione dei censimenti: le mutazioni decennali di essi consentono infatti di analizzare obiettivamente, prescindendo dalle modeste variazioni annuali, la eventuale necessità di correggere quelle tendenze spontanee che, alla luce delle valutazioni di altro · genere che il censimento fornisce, non è opportuno lasciare libere di esprimersi. I rilievi statistici relativi al problema della vita e della morte assumono poi particolare importanza in una nazione che intende porre in cantiere una. ristrutturazione ed un ammodernamento dei propri servizi sanitari ed assistenziali. Questo problema in Italia non dovrebbe prescindere dalle valutazioni degli squilibri territoriali del settore che, unitamente agli squilibri di altri settori, rendono decisamente sdoppiato il profilo di benessere delle popolazioni, quando non si esprimono, in talune categorie ed in taluni territori, su piani di deciso malessere. Se l'analisi dei dati relativi alla natalità ed alla mortalità - questi ultimi indici abbastanza significativi della diffusione di una cattiva salute - dovesse risultare diversa nelle varie regioni, dovrebbe essere meditata, da parte dei programmatori della riforma sanitaria, l'eventualità di adattare territorialmente il piano delle nuove strutture onde renderlo più aderente ai diversi profili, ottenendo così una migliore capacità risolutiva e quindi un miglior rapporto fra costi e ricavi che, nelle condizioni finanziarie in cui versa lo Stato italiano, non può essere certo considerato privo d'importanza. Per questi motivi, nello sviluppo del nostro esame, più che alle cifre assolute, presteremo attenzione alle variazioni delle percentuali dei contributi dei territori, che manifestano le maggiori differenziazioni, ai valori nazionali di vita e di morte; ed in tal modo troveremo o meno conferma, nel settore della salute pubblica, alle tesi che fanno della questione meridionale il vero nodo della politica italiana. t ben nota la problematica italiana rappresentata dagli eccessi 22 BibliotecaGino Bianco ., '

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