Nord e Sud - anno XIX - n. 148 - aprile 1972

I NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Girolamo Cotroneo, Una dichiarazione di fallimento - Roberto Berardi, Il mito liceale del diluvio - Autori vari, Il Piano economico I972 - Manlio Di Lalla, Croce tra fascismo e antifascismo e scritti di Vittorio Barbati, Angerio Filangieri, Felice Ippolito, Ugo Leone, Lanfraneo Orsini, Sergio Talia. f ANNO XIX - NUOVA SERIE - APRJLE 1972 - N. 148 (209) E D I z I o r-.J I se I E N T I F I e H E I T A L I AN E - N A p o L I

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XIX - APRILE 1972 - N. 148 (209) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, s~mestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200 - Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Sci~ntifiche Itàliane - Via Carducci 29, Napoli

SOMMARIO Editoriale [ 3 J Girolamo Cotroneo Una dichiarazione di fallimento [7] Roberto Berardi Il mito liceale del diluvio [ 14] Autori vari Il Piano economico 1972 [20] Giornale a più voci Lanfranco Orsini Il tempo contato [26 J Ugo Leone Un'energia più pulita [28] Sergio Talia Il trasporto gratuito [31] Argomenti Vittorio Barbati La questione mediterranea [34 J Regioni Angerio Filangieri I centri antichi della Campania [51] Saggi Manlio Di Lalla Croce tra fascismo e antifascismo [ 69] Documenti Felice Ippolito Geologia e pianificazione in Basilicata [116]

Editoriale Lo scioglimento delle Camere ed il ricorso anticipato alle elezioni politiche hanno dato ragione a 1nolte delle preoccupazioni e delle indicazioni che, nel corso di questi anni, avevamo cercato di far valere nei confronti di quelle forze politiche e sindacali, i cui equivoci, le cui incertezze, le cui illusioni, ci se,nbrava servissero soltanto ad aggirare i gravi problemi del paese: proble1ni di fronte ai quali, a nostro giudizio, troppi erano coloro eh.e alla difficile scelta « riformatrice » preferivano il facile atteggia1nento « riformistico ». La realtà di un paese come il nostro, travagliato da profondi squilibri economici e da tremende ingiustizie sociali, in cui nuovi squilibri crescono sui vecchi e nuove ingiustizie si sommano a ingiustizie « storiche », avrebbe dovuto suggerire alla classe politica un c01nportamento assai più coerente e, se si vuole, assai più intetligente di quello tenuto: di quello grazie al quale non è stata risparmiata agli italiani degli anni '70 l'umiliazione ed il disgusto di sentire ancora paurosamente so~peso sul proprio avvenire lo spettro del fascismo, sempre pronto ad insinuarsi nel seno di una dernocrazia che smarrisce il proprio contenuto ideale, ad uccidere la libertà quando essa non riesce a valicare i confini delle classi o delle categorie più forti, ed immancabilmente regredisce fino a diventare privilegio e non più libertà. In questo senso l'« insorgenza populista», che nel triennio 1968-1971 ha imperversato in Italia e dalle cui tentazioni conformistiche, e spesso anche opportunistiche, questa rivista non si è mai lasciata condizionare, comportava un rischio fondamentale: il rischio eh.e la continuità storica e la legittimità politica dell'Italia moderna, eh.e nell'esperienza risorgimentale seppe recuperare sui secoli il proprio ritardo sugli Stati europei, potesse di nuovo interrompersi a vantaggio di quell'Italia eh.e moderna non è, e che nei suoi contraddittori travestimenti ed ondeggiamenti (filocomunisti ma antidivorzisti, assembleari ma stalinisti, sociologi del dissenso ma dalle cattedre) non riuscirà mai a mascherare completamente l'arretratezza reazionaria del proprio disavanzo risorgimentale, della propria ostilità verso la concezione liberal-democratica dello Stato, della propria riluttanza nell'intraprendere la via dell'Europa. Fu proprio nel venir meno di questa continuità, nel tramonto dello Stato liberale, nella disintegrazione del patrimonio risorgimentale, nel distacco dall'Europa che ebbe origine, nel 1922, la più odiosa vicenda storica del 3

Editoriale nostro paese; ed oggi i risultati del populismo e del sinistrismo, delle imperdonabili indulgenze cui la sinistra (anche quella democratica, talvolta) si è prestata nei confronti dell'estremismo, dal 1968 in poi, sono stati, come scrivevamo nell'editoriale di marzo, quelli « di dare prima ossigeno, e poi vigore, al fenomeno neofascista ». Vi sono oggi due grossi problemi di continuità su cui richiamare, in uno stretto legame di interdipendenza, l'attenzione del paese in questa vigilia elettorale, che, giova ripeterlo, deve essere l'occasione di un civile confronto di idee e di programmi e non di polemiche tendenziose o addirittura di scontri sanguinosi. Questi problemi sono: la continuità - e saremmo tentati di dire la sopravvivenza - della legalità repubblicana e la continuità - e potrernmo dire la ripresa - del ritmo di sviluppo del nostro sistema econo1nico. Per quanto riguarda la legalità repubblicana, si tratta di ristabilire l'autorità dello Stato democratico e di tutti i suoi organi di tutela e di difesa, dalla Magistratura alle forze armate, così da restituire ai cittadini il senso della lealtà costituzionale, della lealtà costituzionale senza riserve. Per quanto riguarda la ripresa economica, si tratta di meditare alcuni dati (aumento del reddito nazionale di pochissimo superiore all'l %, crisi dell'occupazione, cronico indebitamento di tutte le strutture pubbliche), che si erano finora voluti ignorare, con atteggiamento fatalistico e ad un ternpo dernagogico, e che avevano procurato a chi, come i repubblicani, aveva sollevato delle riserve, la stupida accusa di essere degli inguaribili pessimisti o delle fastidiose Cassandre (come se, pe1 salvare Troia, non sarebbe stato necessario ascoltare Cassandra ...). A determinare prima, e ad aggravare poi, la crisi economica, hanno concorso vari fattori concornitanti: il prolungamento strisciante di dure controversie sindacali, l'aun1.ento dei costi derivato dai nuovi contratti collettivi, l'aumento dei tassi di interesse cui si è fatto ricorso nell'intento di frenare le fughe di capitali nel 1969 e nei primi mesi del 1970, la crescita del fabbisogno di cassa del Tesoro per far fronte alle disse-- state con.dizioni degli enti locali e degli enti previdenziali, ed infine il deterioramento della situazione congiunturale nei maggiori paesi industriali, accompagnato da un aggravamento delle questioni monetarie sul piano internazionale. Ma a rendere inevitabile la crisi e ad aggravarne le conseguenze, soprattutto sul piano dell'occupazione, ha certamente concorso, per la sua parte, il ritardo con il quale il governo (e i suoi consiglieri economici), le forze politiche e sindacali hanno valutato ciascuno di questi fattori. L'indifferenza per i problemi congiunturali è andata di pari passo con il velleitaris1no nei confronti dei problemi strutturali di sviluppo economico, civile, sociale del paese. 4

Editoriale Sembra che ora con1incino a manifestarsi molti ripensamenti autocritici e ci auguriamo che essi non siano suggeriti dalla contingenza elettorale, ma dalla lezione delle cose. N ai non pretendiamo che coloro sui quali si sono n1.aggiormente incentrate le nostre critiche durante gli ultimi anni ci dicano adesso che avevamo ragione; ma ci rallegreremmo se, da oggi in poi, quanti fino a ieri avevano sottovalutato le nostre preoccupazioni si facessero carico dei problemi che abbiamo sollevato in questo triennio, e che sono innanzitutto problemi di priorità e di compatibilità; e se essi facessero proprie talune delle indicazioni che, ai fini di una ripresa della produzione e degli investùnenti, del risanan1ento finanziario e di una diversa e migliore qualificazione sociale e civile dello sviluppo economico, avevan10 cercato di far valere su questa rivista già dal 1968, se non da prima. La verità è che tutte le forze di ispirazione democratica, qualunque sia il responso del 7 maggio, debbono riconoscere l'esigenza che i contenuti della politica di governo non siano strumentalizzati in funzione delle fonnule di schieramento, ma che siano gli schieramenti a formarsi e a saldarsi in funzione di ragionevoli e razionali accordi sui contenuti dei programmi di partito e di governo. Si deve dire a questo proposito che i socialisti non possono pretendere di imporre agli altri partiti democratici un patteggiamento con i comunisti, patteggiamento che fra l'altro farebbe venir meno lo stimolo a quel generale confronto sui problemi di una moderna società industriale che le forze della sinistra non hanno ancora saputo avviare, se non appunto in termini di « patteggianiento », con l'opposizione comunista. Se gli « equilibri più avanzati » significassero questo, il discorso con i socialisti rischierebbe di chiudersi: perché la sfida al comunismo non può comunque prescindere da una molto diversa valutazione dei problemi di sicurezza internazionale del nostro paese. Il discorso con i socialisti, invece, si potrebbe avviare ad un chiarimento, se agli « equilibri più avanzati » - interpretati in maniera inaccettabile dall'on. Mancini e in maniera discutibile dall' on. De Martino (che negli ultimi tempi ci è parso più cauto e sfumato di Mancini) - si potesse attribuire il significato che ad essi ha attrib_uito l'on. Mariotti nella sua recente intervista al «Mondo »: riforn1.e che, incidendo sulle strutture economiche e sociali, correggano vecchi squilibri e consentano di creare nuovi equilibri, fra Nord e Sud, fra redditi dell'industria e redditi dell'agricoltura, fra consumi individuali e consu111.isociali; riforme che contribuiscano per la loro parte all' au,nento dei rit1ni e dei tassi di sviluppo economico; rifanne non viziate da inquinanienti corporativistici e da degenerazioni massin1alistiche; riform.e attuate nel quadro di una rigorosamente concordata politica di prio_rità e di 'co111patibilità. Tanto più che Mariotti ha 5

Editoriale accompagnato questa sua interpretazione della formula demartiniana degli « equilibri più avanzati » con una ferma dichiar_azione sulla inconciliabilità fra coscienza autononia del PSI e rztorno al frontismo. Perciò sta a De Martino e a Mancini chiarire in primo luogo se condividono l'ipotesi ragionata di Giolitti in tutte le sue parti e in tutte le sue iwiplicazioni, anche in quelle che si riferiscono al controllo della distribuzione del reddito, e in particolare del reddito del lavoro, e in secondo luogo se accettano l'interpretazione che degli « equilibri più avanzati » ha dato Mariotti. Potrebbe essere proprio questa interpretazione a restituire alla politica di centro-sinistra quella giusta dimensione di incontro tra libertà liberatrice e capacità riformatrice, che essa deve avere e che solo può renderla superiore ad una mera operazion.e parlamentare. Perché, in quanto liberatrice, la libertà non può certo considerars'i meno riformatrice nel campo sociale di quel giustizialismo populista, di cui uomini come Mario ?annunzio e Vittorio De Caprariis avrebbero denunziato l'inutilità, e di cui le condizioni del paese attestano esaurientemente la pericolosità . • 6

Una dichiarazione di fallimento di Girolamo Cotroneo Vi è sempre un momento nella vita di un uomo in cui si sente il bisogno di tirare le somme, di fare il riepilogo di quanto si è vissuto, di tracciare un bilancio della propria esperienza. Di solito è un n1omento negativo; il desiderio di affidare alle carte i propri stati d'animo, infatti, e tipico di autori inclinati al pessimismo (si pensi ai più celebri diaristi dell'età moderna: a Kierkegaard, ad esempio, o a Kafka); e anche per chi non sarebbe affatto portato a questo genere di letteratura intimistica, i momenti in cui maggiormente si sente l'esigenza di manifestare i propri sentimenti, di confessarsi pubblicamente in tutta sincerità, sono i momenti di amarezza o di delusione, i momenti in cui tutto ciò su cui si è fatto sicuro affidamento, cio per cui si e lottato e sofferto, sembra definitivamente tramontare. Quando poi a fare dichiarazioni di sfiducia, a tracciare un bilancio catastrofico, a giungere a conclusioni amarissime, è un intellettuale di prestigio, impegnato nella cultura e nella vita civile del proprio tempo, allora la confessione va ben al di là della persona di lui, per coinvolgere tutta una generazione di intellettuali che, alla distanza, si sarebbe rivelata del tutto inadeguata ai propri compiti, che si sarebbe dimostrata incapace di guidare la cultura (e, di conseguenza, la politica) di un paese lungo una via di sviluppo e di progresso civile e morale. C'è in tutto questo, però, una certa dose di presunzione: in tale modo, infatti, l'insoddisfazione personale (anche se spesso del tutto legittima) per la maniera in cui si sono svolte le vicende politicoculturali di un paese in un p~rticolare momento della sua storia, viene addebitata a tutta una generazione, che sarebbe stata incapace di cogliere certi fermenti e di indirizzarli lungo una strada sicura. Come si diceva, è un procedimento discutibile: perché, chi lamenta un fallimento culturale, partè dal presupposto che le ragioni di questo fallimento siano dovute al fatto che una generazione di intellettuali non avrebbe risposto compatta al richiamo di una ideologia la quale, ove invece fosse stata portata avanti, avrebbe evitato ogni delusione e superato ogni scompenso successi7

Girolamo Cotroneo vamente verificatosi. Così, il « deluso » soltanto sarebbe stato nel giusto e gli altri, invece, in torto. La crisi che in questo momento attraversa il nostro paese, che travaglia la nostra vita politica, che minaccia le nostre libere istituzioni e soprattutto la nostra cultura, si presta certamente a questo genere di considerazioni di natura pessirnistica: per cui ogni intellettuale si convince che se l'ideologia cui egli aderisce avesse potuto diventare« dominante », tutto ciò che oggi si verifica avrebbe potuto tranquillamente essere evitato. Ma, come è noto, nelle vicende storiche non esiste la controprova: per cui nessuno (tranne i soli ti dommatici di varie razze e colori) può essere in grado di dire come sarebbero andate le cose se fossero state seguite altre vie. Per tutte queste ragioni sorprende fortemente che uno studioso tutt'altro che mediocre, come Norberto Bobbio, ripubblicando presso le edizioni Einaudi i suoi pregevoli lavori su Carlo Cattaneo, li abbia fatti precedere da un'amara prefazione (che è appunto una sorta di confessione) in cui parla senza mezzi termini del completo fallimento della società italiana uscita dalla Resistenza, di una generazione di intellettuali il cui bilancio « è stato disastroso » e che già può dirsi condannata « dal tribunale della storia » se non da quel1o della « coscienza »; dell'inutilità, da parte dell'intellettuale di quella generazione, di credere « di essere ancora sulla cresta dell'onda quando [ ...] sta per essere sommerso », e di altre affermazioni più o meno di questo genere. Non saremmo certo noi a stupirci chè Norberto Bobbio sia approdato a queste conclusioni: diremmo che è la logica conseguenza di un atteggiamento culturale che era viziato alla base da una posizione politica oscillante fra l'astratto giacobinismo e il ragionevole illnminismo. Comunque sia, che la situazione nella quale viviamo si presti, come prima dicevamo, a considerazioni assai amare è certamente vero; la nostra libertà è oggi assai più minacciata di quanto non lo fosse soltanto pochi anni addietro: e di questo vi sono precise ragioni e responsabilità, da cui non sono certo esenti molti intellettuali italiani sempre pronti a dare il loro « pregiudizio favorevole » ai vincitori dell'oggi o a quelli che ritengono i vincitori del don1ani. Ma questo sarebbe un altro discorso. Ciò. che invece più sorprende è il motivo addotto da Bobbio per giustificare il proprio pessimismo, la propria sfiducia nel presente e soprattutto nel futuro del nostro paese: il quale motivo sarebbe poi, in poche parole, il mancato accoglimento, da parte della nostra cultura, del più vigoroso n1essaggio di « filosofia civile » esistente 8

Una dichiarazione di f allin1ento nella nostra tradizione, cioè quello « neo-illuministico » di Carlo Cattaneo. Naturalmente avere rifiutato Cattaneo significa avere rifiutato una «mentalità», un modo particolare di vedere i problemi dello sviluppo morale e politico: questo rifiuto avrebbe provocato alla distanza quella crisi cui oggi assistiamo e di cui Bobbio si è fatto il portavoce. Non saremo certo noi a rifiutarci di vedere in Cattaneo il più vigoroso e il più moderno fra gli scrittori italiani dell'Ottocento; e, ancora, non saremo certo noi a rifiutare la validità e l'attualità della filosofia « civile » proposta dallo scrittore lombardo. Ma da qui a imputare alla scarsa considerazione (ma questo, come vedremo, è discutibile) che la cultura italiana ha, o avrebbe, avuto per il neoilluminismo, di cui Cattaneo sarebbe la più valida delle incarnazioni (neo-illuminismo che, a dire di Bobbio, avrebbe avuto una breve stagione negli anni successivi alla seconda guerra mondiale), da qui, dicevamo, a individuare in questo rifiuto i motivi della crisi che attraversiamo, ci pare ne corra. Ha infatti giustan1ente notato Pietro Piovani in una breve nota sul « Corriere della Sera » che « non ha senso, oggi, ritenere che l'Italia finisca perché un sogno neoilluministico è finito »; ed ha ammonito, contro le precipitose affermazioni di Bobbio, che non bisogna dimenticare « che le filosofie del nostro Risorgimento seppero guardarsi da smilitarizzazioni così precipitose, da disarmi così arrendevoli», dal momento che « non credettero mai che- il successo fosse la misura degli ideali ». Che Bobbio abbia creduto nella « stagione neo-illuministica » da lui considerata come una sorta di « approdo finale » per la sua generazione, non può essere per nessuno motivo di scandalo (anche se c'è da chiedersi con quale periodo coincida quella stagione: sarebbe quella inaugurata da Guido De Ruggiero con Il ritorno alla ragione? ma De Ruggiero non era certo un grande estimatore di Cattaneo); che rimpianga quel successo culturale e politico che invece non è venuto; che dichiari addirittura che ad essa abbiano fatto seguito pensatori i quali « facevano risalire all'illuminismo la cagione di tutti i nostri mali, e denunciavano come eclissi della ragione lo smarrimento della propria oscura metafisica», è un suo diritto che nessuno gli contesta (anche se ci piacerebbe sapere a ·chi si riferisca nello scrivere queste cose: all'ultimo Croce, quello della Letteratura italiana del Settecento o all'Antoni della Lotta contro la ragione, che però precede, essendo· del 1942, la « stagione » neoilluminisdca ?). Ma che il « rifiuto » dell'atteggiamento mentale che caratterizzò nell'immediato· dopoguerra certi intellettuali, come 9

Girolamo Cotroneo appunto Norberto Bobbio, stia al fondo della crisi attuale, questo è davvero assai discutibile. Ma prima di affrontare questo problema; torniamo a Cattaneo. Bobbio è certamente un'autorità, la maggiore oggi in Italia, sul fondatore del « Politecnico »: per cui non è facile contraddire ciò che egli scrive. Da parte nostra sottoscriveremmo senz'altro gran parte della sua interpretazione cattaneana. C'è tuttavia qualcosa che non ci persuade riguardo la« sfortuna » di Cattaneo in Italia, che Bobbio attribuisce in certa misura anche alla prima versione italiana del marxismo, quella di Antonio Labriola, che escludeva dalla propria orbita, « non diversamente da quel che avrebbero fatto idealismo e irrazionalismo », il pensiero di Cattaneo; ma la vera sfortuna di Cattaneo sarebbe avvenuta a opera soprattutto di Gentile e di Croce. Ed è su questo che riteniamo di dovere discutere: il che poi servirà a chiarire anche l'altro problema, quello del fallimento culturale. Lasciamo stare Gentile: non era un filosofo che potesse « intendere » o « intendersi » con Cattaneo. Inoltre, nonostante Bobbio sostenga che « l'informazione » di Gentile su Cattaneo era « larga » (più larga di quella di Croce), dallo se.ritto del 1921 non ci sembra che il giudizio gentiliano andasse oltre le idee espresse da Cattaneo nel celebre Invito alli amatori della filosofia, sul quale era fondata tutta la critica di Gentile. Inoltre, pretendere che quest'ultimo aderisse toto corde alle idee di Cattaneo, lui che partiva da tutt'altre premesse, è una maniera alquanto fuorviante di impostare il problema. Comunque sia, lasciamo perdere Gentile. Saremmo però più cauti con Croce: il quale era anche lui per mentalità assai lontano da Cattaneo, ma, sul piano della filosofia « civile », non ci pare avesse molto da invidiargli (contrariamente a Gentile, assai lontano anche su questo terreno). Ma Bobbio, nonostante conosca e dimostri di apprezzare gli studi di Ferruccio Focher su questo tema, ne accomuna l'interpretazione a quella di Gentile (come del resto aveva già fatto in un saggio del 1955, che ci pare sia sfuggito all'attenzione di Bobbio, Enzo Tagliacozzo, scrivendo che Croce e Gentile « pur facendo rispettosi inchini a Cattaneo, si affrettarono a relegarlo in soffitta e ne parlarono il meno possibile », in quanto « essi non amavano ciò che soprattutto piaceva a Cattaneo, l'indirizzo positivo degli studi, le ricerche di sociologia, l'interesse per la storia universale, per la tecnica, il suo ricollegarsi all'empirismo ed allo sperimentalismo delle scienze naturali»). Come si diceva, dunque, saremmo molto più cauti nell'accostare le due interpreta10

Una dichiarazione di fallimento zioni esaminate da Bobbio: ad ogni modo, questo non cambia le cose. Per cui diamo per scontato che, come Gentile, anche Croce sia stato uua delle cause della « sfortuna» di Cattaneo, visto che, secondo Bobbio, Croce avrebbe soltanto riecheggiato, contribuendo così a tramandarlo, il giudizio di Gentile. Veniamo però alla « fortuna » di Cattaneo: qui il discorso diventa assai più interessante, in quanto proprio Bobbio ci dice che la posterità intellettuale dj Cattaneo può essere individuata nei nomi di Einaudi, Salvemini e Gobetti. Non ci pare sia poco: si tratta di tre nomi fra i più prestigiosi della cultura italiana del Novecento; se essi furono - e su questo non ci sono dubbi, dopo le lucide pagine di Bobbio al proposito - veramente dei « cattaneani », allora tutto il discorso sulla «sfortuna» di Cattaneo andrebbe rivisto, dal momento che la sua presenza è stata viva e operante se i principi etico-politici che lo ispiravano sono stati recepiti da studiosi della statura dei tre sopra nominati. Ma Bobbio aggiunge qualche altra cosa e non di scarso interesse: dice infatti che Salvemini e Einaudi, avendo creduto « in una politica ragionevole per uomini razionali », non potevano, così come era successo a Cattaneo, che restare « degli isolati »; in quanto a Gobetti, questi, dice ancora Bobbio, « fu il prototipo dell'eretico, tanto da fare coscientemente dell'eresia il necessario fermento di una storia di servi contenti o di ribelli disperati, come quella italiana». Se ciò sia vero non vogliamo qui discutere: è comunque assai probabile che lo sia; ma ciò non toglie affatto - anzi lo conferma - che Cattaneo abbia avuto la sua parte, e non insignificante, nella storia della nostra vita civile, se la sua sollecitazione è stata raccolta da studiosi della levatura di Einaudi, Salvemini, Gobetti, senza dei quali la nostra cultura sarebbe stata ancora piu povera. A questo punto è evidente che il discorso vada spostato non più sulla fortuna o sfortuna di Cattaneo, bensì sulla sfortuna che la filosofia « civile » ha nel nostro paese. Per cui è legittima la seguente domanda: perché la cultura italiana non ha recepito l'istanza di Cattaneo, e poi quella di Gobetti, di Einaudi e di Salvemini? A chi farebbe capo questa congiura del silenzio intorno a quelli che Bobbio - e noi con lui - ritiene fra i migliori momenti della tradizione culturale italiana? Da quanto abbiamo detto sopra intorno alla « sfortuna » di Cattaneo (ed è per questo che abbiamo voluto prendere le mosse proprio dà questo problema) è chiaro che Norberto Bobbio ha pronta la sua rispo_sta: naturalmente a Gentile e soprattutto a 11

Girolamo Cotroneo Croce, il quale, data la sua posizione antitetica rispetto a lui, non avrebbe degnato di uno sguardo il povero Cattaneo se non si fosse per caso trovato a scrivere la Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, nel corso della quale ebbe un «occasionale» incontro con lo scrittore milanese. Concediamo a Bobbio anche questo: è la sua opinione e, come tale, merita rispetto, anche se non crediamo affatto che « dopo il soprassalto di fervore positivistico », la filosofia italiana avrebbe continuato a essere il vecchio spiritualismo (quello che Cattaneo definiva « braminico » o « spinosiano }>), sia pure « sotto le men ti te spoglie di un nuovo idealismo ». Ma il problema che Bobbio elude, trincerandosi dietro l'interpretazione di Gentile e di Croce, è un altro: quale infatti è stata la fonte, quali i motivi ispiratori della cultura italiana del dopoguerra, di quella cultura che avrebbe accantonato Cattaneo e i suoi grandi epigoni? È stato forse lo storicismo crociano? o l'attualismo di Giovanni Gentile? Bobbio sa benissimo che non è vero, che non è affatto vero. La « dittatura » culturale di Croce è poco più che una favola, dietro la quale mediocri professori universitari hanno mascherato per lungo tempo la loro impotenza creativa; e comunque, ammesso che la si voglia ancora accreditare, essa dovrebbe essere collocata in un preciso periodo di tempo, che non è certo l'ultimo dopoguerra. Eppure (e lo dice Bobbio) è stata proprio la cultura di quest'ultimo dopoguerra, tutta intenta a « demolire » Croce (e Bobbio questo lo sa pure), che ha ancora una volta respinto Cattaneo e coloro che a esso si ispiravano: e non certo in nome di Croce (né tanto meno di Gentile) è stato consumato l'ennesimo rifiuto. E allora? Bobbio, come si diceva, il problema Io ha eluso: e lo ha fatto perché sa benissimo - e su questo potrebbe parlare in prima persona - che la cultura italiana di questi ultimi anni ha rigettato non solo la lezione « civile» che veniva da Cattaneo, da Einaudi, da Salvemini, da Gobetti, ma anche e soprattutto quella che veniva da Croce (e Bobbio non negherà che venisse). Se la cultura contemporanea ha respinto - provocando in Bobbio una crisi di sfiducia - la tradizione neo-illuministica, ha pure respinto (e i neo-illuministi hanno validamente contribuito a farlo) la tradizione storicistica; e non solo quella crociana o di ispirazione crociana, ma persino un certo aspetto (e chissà non fosse il migliore) dello stesso storicismo materialistico, accusato sprezzantemente, da un « ortodosso » del marxismo, di avere fatto fare a Marx « il bagno nel golfo di Napoli ». 12

Una dichiarazione di fallimento Tutte queste cose Norberto Bobbio, che è stato un protagonista delle vicende della cultura italiana del dopoguerra, le sa benissimo: come sa benissimo che il « grande rifiuto » del 1968 - che riteniamo essere alla base della sua attuale crisi di sfiducia - è stato portato avanti da giovani ai quali della nostra migliore tradizione culturale - quella di Cattaneo, di Labriola, di Croce, di Gobetti, di Einaudi, di Salvemini - non era mai stato detto nulla o quasi, preoccupati come erano i nostri maltres à penser di non essere accusati dì passatismo, di tradizionalismo, di oscurantismo culturale; preoccupazione che li portava a inseguire le mode culturali per non perdere l'aggancio con i grossi centri editoriali, con i detentori del potere, i quali, sia su di un versante che sull'altro, respingevano proprio quella tradizione. Certo non sono queste - o non soltanto queste - le cause degli avvenimenti del 1968; ma personalmente non saremmo portati a sottovalutare quest'ultimo punto. La « sbornia sociologica » che ha colpito la cultura italiana del dopoguerra - i cui silenzi e le cui viltà sono ancora tutti da raccontare - non poteva che produrre gli effetti che ha prodotto. Tutto questo adesso induce Bobbio a « smilitarizzare», come ha detto Piovani, a dichiarare di non avere più fiducia nella « libertà » e nella « scienza » le quali (ma non lo sapevamo già?) possono essere usate « per il bene e per il male, tanto per il benessere dell'umanità quanto per la sua rovina». Non sappiamo quale alternativa Bobbio voglia indicare: perché non può essere certo un'alternativa quella di ritenere « difficile, ingannevole, e talora inutile, il mestiere di uomini liberi » proprio in un momento in cui, come Bobbio stesso dice, sembra che « stiamo perdendo la libertà ». Ma la fuga dalla realtà non libera dalla realtà: per cui bisogna avere il coraggio di capire dove si è sbagliato, di ammetterlo e di ricominciare. Non è il momento in cui si possa piangere sul latte versato, né quello di proclamare orgogliosamente « noi l'avevamo detto». E che occorra ricominciare, anche Bobbio lo sa benissimo; e, - cosa veramente strana viste le premesse da cui è partito - lo ha detto senza esitazioni: « eppure, se abbiamo ancora qualche speranza di uscirne, è perché continuiamo a credere, nonostante tutto, che una via d'uscita ci sia; e il trovarla dipenda pur sempre dalla tenacia e .dal rigore con cui ad ogni epoca, con nuovi mezzi e in nuove forme, ma non dimenticando gl'insegnamenti del passato, ogni generazione prosegue e rinnova la battaglia per la libertà e per la verità ». GIROLAMO COTRONEO 13

Il mito liceale del diluvio di Roberto Berardi Anche quest'anno la contestazione studentesca ha travagliato numerose scuole secondarie di secondo grado: licei, istituti magistrali, professionali, artistici. Continuando nell'evoluzione già iniziatasi nel 1970-71, le agitazioni hanno assunto forme meno clamorose, si sono svolte più all'interno che all'esterno degli edifici scolastici. Vi sono stati meno cortei, meno « occupazioni », meno « scioperi », e più « assemblee permanenti », « collettivi » e simili. La contestazione è stata insomma meno appariscente, meno avvertita dal gran pubblico, n1a non per questo meno intensa, meno paralizzante dell'attività didattica. Tuttavia i giornali se ne sono occupati meno che negli anni scorsi. E si capisce. Uno sciopero col picchettaggio degli ingressi e magari qualche tafferuglio, un corteo per le vie del centro con sit-in davanti alla prefettura o al provveditorato, un'occupazione con striscioni alle finestre fanno notizia molto più che un'agitazione anche cronica, la quale si mantenga però nel chiuso degli edifici e delle aule. Ma non è questo il solo motivo per cui i grandi organi d'informazione oggi trascurano la contestazione studentesca nelle scuole secondarie, e se ne occupano solo qùando assume occasionalmente forme vistose e pubblicitarie, come fu il caso del « Castelnuovo » o delle aggressioni, gravissime ma sporadiche, contro presidi e professori. In realtà questo è il quinto anno che la contestazione giovanile si è estesa dalle università ai licei (le prime avvisaglie si ebbero nel 1967-68): non è più una novità. Si è per così dire diffusa una sorta di assuefazione, per cui si finisce col considerare un fatto naturale che le scuole secondarie abbiano vita travagliata almeno neila prin1a n1età dell'anno scolastico. Le agitazioni dell'autunno sono divenute una consuetudine anche in istituti che nel resto dell'anno sono calmi. In quelli « caldi » è ritenuta normale un'effervescenza ( si fa per dire) che duri da ottobre a febbraio. Si accetta insomma una periodicità stagionale, come per il maltempo che ci affligge nell'autunno e nell'inverno, e verso il quale l'atteggiamento più ragionevole è aspettare che passi. Solo l'avvicinarsi degli scrutini di giugno sembra ricondurre dappertutto al lavoro le masse studentesche. 14

Il mito liceale del diluvio Se si analizza il fenomeno più a fondo, si scorgono altri motivi che spiegano la diffusa indifferenza verso la contestazione dei liceali. In primo luogo ne sono travagliate quasi soltanto le scuole dei grandi agglomerati urbani. La provincia, nell'insieme, è tranquilla, a parte qualche onda morta. Sono tranquille, nella quasi totalità, le scuole la cui popolazione è inferiore alle cinquecento unità: e ciò non solo e non tanto perché la « repressione » vi sia più facile, ma piuttosto perché queste sono ancora scuole a dimensione umana, ove si possono instaurare rapporti personali continuati tra preside, professori, allievi e famiglie. Il contrario avviene in quei « mostri » che sono le scuole con mille o duemila alunni, in crescita rapida e continua, dove molto spesso i ragazzi non sanno chi sia il preside, e il preside fatica a conoscere i suoi cento o duecento insegnanti; scuole quasi sempre, e per forza di cose, prive di locali adatti e sufficienti, di palestre, cortili e attrezzature sportive; agglomerati di gioventù che diventano incubatori ideali della contestazione: qualunque ne sia lo stimolo o la giustificazione. Il fatto che negli istituti di dimensioni ridotte, che sono la grande maggioranza, e in quelli ubicati in provincia, la vita si svolga più o meno come dieci anni fa, contribuisce a togliere importanza al fenomeno della contestazione, che appare concentrata in un numero percentualmente non grande di scuole, anche se queste raccolgono un totale non indifferente di adolescenti. Altro elemento che induce all'indifferenza è che, insomma, la scuola non è la fabbrica, e se la « produzione » si arresta in qualche liceo o istituto tecnico, ne riportano danno solo gli studenti stessi (che però se ne accorgeranno solo dopo qualche anno). Chi ragiona così trascura il fatto che la scuola statale (la privata e tranquillissima, né occorre dire il perché) è mantenuta con denaro pubblico, che in tal modo è sprecato. Inoltre non si può escludere che nel fondo di questa indifferenza vi sia una motivazione classie sta più o meno inconscia: se la scuola non funziona, il figlio del benestante può sempre ricorrere alle lezioni private e soprattutto trova un soccorso e una comprensione nell'ambiente culturalizzato in cui di solito vive; ]'unico vero danneggiato è il figlio del povero, l'alunno che proviene dai ceti economicarnente e culturalmente deboli. Quali che siano i motivi per cui oggi la contestazione dei liceali fa raramente notizia, essa tuttavia esiste, anche se in forme diverse che nel passato, con1e abbiamo detto. I modi e l'andamento sono 15

Roberto Berardi abbastanza simili dappertutto. Di solito l'iniziativa è presa da pochi elementi che aderiscono o dicono di aderire ai gruppuscoli extraparlamentari. Dare indicazioni precise in questo campo è difficile, anche per la volubilità degli adolescenti, che passano con facilità da un gruppo all'altro. La loro intrapresa all'interno delle scuole ha successo grazie alla neutralità benevola della maggioranza degli studenti, che è di solito tiepida verso la politica e indifferente verso i gruppuscoli ma non si oppone agli estremisti e anzi, all'inizio di ciascuna ondata contestativa, li segue. Perché li segue? Perché un certo malcontento verso la scuola come istituzione esiste da molto tempo; l'abbiamo anche alimentato e giustificato noi, con le nostre critiche, fondatissime, mosse alle insufficienze scolastiche negli ultimi vent'anni. Nell'interruzione violenta delle lezioni, nella violalazione collettiva dei regolamenti, gli alunni sentono una forma di protesta contro le insufficienze della scuola. Alla maggioranza interessa molto meno, o non interessa affatto, il « contenuto » occasionale delle singole interruzioni: il Vietnam ieri, Feltrinelli oggi, e poi la repressione, la scuola dei padroni, l'abolizione delle pagelle, il voto unico e via dicendo. Temi ed enunciati in cui credono poco o non credono affatto .. Poi, non si oppongono agli estremisti perché sono adolescenti, e studenti, e lo spirito goliardico non è morto del tutto; e infine perché è meglio il collettivo o lo « sciopero » che i sistemi algebrici o le formule chimiche. Non si può negare che un elemento ludico coesista e si mescoli agli altri elementi scatenanti le turbolenze. L'indifferenza della maggioranza al contenuto delle agitazioni è confermata anche dal regolare, e previsto, insuccesso delle « lotte». Quanto si poteva ottenere negli spazi lasciati liberi dalle attuali strutture, soprattutto sul piano del costume interno, i liceali lo avevano già ottenuto nella fase « riformista» delle loro agitazioni, quella che prese lentamente for1na agl'inizi degli anni ses-- santa e si sviluppò sino al 1967, e fu poi sorpassata e travolta dalla contestazione « marcusiana », neoanarchica, irrazionalistica. È difficile trovare legami tra le due fasi, prima e dopo il 1967, che non siano estrinseci, e cioè non consistano soltanto nel fatto che i protagonisti sono sempre gli adolescenti, e teatro è la scuola secondariçi. La prima fase - che ebbe il suo momento drammatico, e nobile, nel caso della « Zanzara» - si svolse all'insegna della ragione; fu un moto di elevazione civile, che da un lato promosse la maturazione delle coscienze giovanili in forme di solito positive, dall'al16

Il mito liceale del diluvio tro contribuì potentemente ad ammodernare il costume scolastico rimasto largamente insensibile al mutare del costume familiare e sociale, stimolando non pochi docenti a ripensare i propri metodi didattici ed educativi, e ad aprirsi e ad aprire il loro insegnamento ai problemi contemporanei. Nell'attesa e nella speranza di una riforma legislativa che purtroppo tardava, il movimento studentesco - allora con l'iniziale minuscola - aiutò la scuola a migliorare se stessa, proprio grazie alla razionalità dell'ispirazione e alla misura nell'azione, non disgiunte dal « senso storico », dalla coscienza _edal rispetto della parte viva della tradizione. Poi giunse la grande ventata di irrazionalismo, dapprima intorno allo stendardo di Herbert Marcuse, e poi dietro altri molteplici stendardi. La contestazione studentesca, già violenta nelle università, si estese alle scuole secondarie. Il moto sino allora sostanzialmente unitario si ramificò in gruppi e gruppuscoli sempre più radicali. L'impulso riformistico cessò. Ai temi concreti di rinnovamento scolastico, in sintonia con quanto dicevano e chiedevano le forze reali della società italiana, si sovrapposero prima, e si sostituirono poi, miti astorici e antistorici di palingenesi totale, utopie sempre più slegate dalla realtà e dalla scuola, fino a proclamare la morte di quest'ultima. Vi furono invero iniziative che lì per lì furono salutate come innovatrici, ma che poi si dovevano rivelare illusorie e anche dannose, e furono riconosciute come tali anche da chi all'inizio le aveva accon1pagnate col suo consenso. Ondate massicce di scioperi, cortei di migliaia di adolescenti, occupazioni, interruzioni prolungate del1' attività didattica si susseguirono al Nord come al Sud. Vi furono molti, anche adulti: e colti, che in precedenza avevano dato non dubbie prove di equilibrio e di saggezza nei diversi campi dell'azione e del sapere, i quali furono come presi da una febbre di rinnovata adolescenza, parvero smarrire all'improvviso la maturità emotiva, e si misero alla testa delle agitazioni o le fiancheggiarono, e profetarono che i « giovani » avrebbero distrutto (subito, non in un lontano domani) la scuola ·nemica e la società putrescente e avrebbero essi, da soli, costruito una società nuova e una scuola nuova. Un nuovo mito del diluvio con una nuova età dell'oro. Anche grandi organi d'informazione, non esclusi quelli che erano e sono portavoce di interessi conservatori, diedero mano allora a blandire i « giovani » senz'ombra. di spirito critico. E poiché bisognava cercare capri espiatori, che però non fossero troppo potenti e quindi in grado di difendersi, si additarono come respon17

Roberto Berardi sabili dei mali antichi e nuovi della scuola i professori e i presidi. Soprattutto questi ultimi. Si può dire che non_ ci sia stato organo di stampa di qualche importanza che nel 1968 e nel 1969 ( e anche dopo) non abbia lanciato il suo sassolino contro il « potere dei presidi», l'« autoritarismo dei presidi» e simili. Non si ottenne, in fondo, nulla. O almeno nulla di proficuo e di costruttivo. Dopo ciascun periodo di agitazioni violente le cose tornavano al punto di prima, le lezioni riprendevano - e riprendono - come se nulla fosse accaduto. Solo la disciplina interna subì un serio deterioramento là dove presidi e professori non ebbero prestigio ed energia sufficienti per ricreare un clima di operosa educazione. Gli scioperi e le agitazioni degli studenti secondari non possono d'altra parte avere successo, perché non sono concepiti in funzione di una strategia sindacale né in vista di una negoziazione col padrone, com'è invece delle agitazioni dei salariati. Per questi lo sciopero è un momento d'un conflitto col datore di lavoro; per gli studenti, dal 1968 in poj, da quando l'utopia è divenuta il progran1n1a d'obbligo e le singole richieste sono puramente strumentali in vista di un rilancio senza fine dell'agitazione, l'astensione dalle lezioni, in qualunque forma e con qualunque motivazione avvenga, è soltanto una manifestazione simbolica. Suo unico vero contenuto è l'affermazione di un rifiuto ( della « scuola borghese », del « capitalismo », della « civiltà dei consun1i » e così via); rifiuto che, al di là degli slogans, rimane ovviamente platonico. Questo carattere prevalentemente astratto e utopistico delle agitazioni degli studenti secondari, insieme all'assenza di organismi permanenti che si propongano come interlocutori validi, dispensa ormai i responsabili della politica scolastica dal ricercare un dialogo che negli ultimi quattro anni si è rivelato illusorio e impossibile. Il dialogo ha un senso solo quando i dialoganti si muovono sullo stesso terreno. Perciò, quando a metà ottobre comincia qua e là l'ondata delle agitazioni, il « potere » si li1nita a seguirne lo sviluppo, cercando discretamente di contenerlo. Dal lato degli studenti l'atteggiamento non è diverso: si comincia con riunioni di piccoli gruppi di attivisti, con la diffusione di volantini ecc. per « riscaldare » l'ambiente; segue un'assemblea regolare (cioè regolarmente concessa) e poi, col permesso o senza permesso, una serie di assemblee piccole e grandi, di collettivi, alternati o no con sit-in ma sempre, di solito, all'interno della scuola; si spinge avanti l'azione sinché non subentra la stanchezza generale e la massa torna a poco a poco 18

Il mito liceale del diluvio a frequentare le lezioni. Ma né prima, né durante, né dopo, i promotori si propongono realmente di raggiungere uno scopo che non sia quello di « sensibilizzare » la base (la quale però in questi quattro anni ha 1nostrato di tornare indifferente non appena passata l'onda emotiva) e di effettuare una protesta si1nbolica, appunto il « rifiuto ». La contestazione in certo modo è divenuta un rito. Questo modo di procedere presenta gravi inconvenienti, oltre a quello già ricordato di procurare un danno culturale non indifferente agli studenti meno abbienti, per il gran numero di lezioni perdute. Il Ministero aveva autorizzato le assemblee studentesche ai fini di un'educazione civica e di una maturazione critica; il trasformarle in palestre di utopie verbali alimenta il senso di irresponsabilita in quella parte degli adolescenti che vi partecipa con sincera convinzione. L'insuccesso che conclude regolarmente ogni ondata agitatoria - nonostante che i promotori parlino sempre di « grande successo » nei loro discorsi e nei loro volantini - ali1nenta frustrazioni che potrebbero tradursi in futuro in un totale disinteresse per la vita associata, o alimentare il qualunquismo. Gli eccessi dànno poi argon1enti ai conservatori per bloccare ogni pur modesto tentativo di rinnovamento. Per uscire dal vicolo cieco in cui l' estremis1no utopistico li ha cacciati, gli studenti secondari non hanno altra via che il ritorno alla ragione, la scoperta della realtà, la ripresa del discorso civile avviato dai loro predecessori nella prima metà degli anni sessanta e poi interrotto dall'apparire del miraggio marcusiano. D'altra parte le forze politiche che hanno responsabilità di governo devono sforzarsi di decifrare il feno1neno al disotto delle sue apparenze urtanti e negative. Non cedere ai clamori di adolescenti fanatizzati, e politica. Non udire i clamori sarebbe un errore. Che la nostra scuola secondaria di secondo grado vada urgentemente raccordata con la società che cambia lo dicevano gia gli adulti parecchi anni fa, quando i liceali non discutevano ancora di politica né tènevano assemblee. ROBERTO BERARDI 19

Il Piano annuale 1972 di Autori vari ::• Uno degli ultimi atti del Ministero del Bilancio uscente è stata la pubbìicazione del Piano annuale 1972. Il documento è destinato a precisare gli obiettivi dell'azione pubblica nel corso dell'anno, enunciando le direttive che le autorità economiche devono perseguire per realizzarli. Esso si presenta quindi come un complemento del documento programmatico quinquennale, documento che dovrebbe presiedere alle linee di sviluppo più generali, e dare luogo a cinque documenti annuali, destinati a precisare con maggiore dettaglio le linee dell'azione pubblica nell'arco di dodici mesi. È la prima volta che un documento simile viene presentato nel nostro paese. Esso offre quindi un interesse che va assai al di là della efficacia concreta che il documento potrà ragionevolmente assumere, tenuto conto della situazione in cui ci troviamo, sia per quanto riguarda la vita politica in generale, sia per quanto riguarda in particolare l'attività della programmazione. Le prospettive politiche fissano la scadenza elettorale nella prima decade di maggio; ciò significa che governo e Parlamento potranno essere pronti per discutere il programma economico al più presto nel corso dell' estate, se non addirittura alla ripresa autunnale, quando ormai l'anno 1972 sarà troppo inoltrato perché sia legittimo discutere di programmi. D'altro canto, nel contesto dell'attività di programmazione, non si può non rilevare l'apparente incoerenza di autorità economiche che redigono piani annuali quando il piano quinquennale - che dei piani annuali dovrebbe essere la matrice - non è ancora stato né approvato dal Parlamento, né redatto nella sua forma definitiva. Il Piano 1972 riveste tuttavia un'importanza non trascurabile come affern1azione di un metodo di lavoro, che, vi è da augurarsi, potrà trovare applicazioni più ordinate e tempestive negli anni avvenire. Come tale, esso, ancorché povero di presun1ibile contenuto operativo, merita di essere esaminato con attenzione. * Questa nota è stata redatta a cura di alcuni ricercatori del Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno dell'Università di Napoli. 20

Il Piano annuale 1972 Il Piano 1972 è jmpostato sulla base di una intelaiatura formale insolita nei documenti program1natici per il rigore e il dettaglio che la contraddistinguono. Gli autori del documento, per definire l'insieme di ipotesi teoriche che servono di base al ragionamento, fanno uso del termine un po' vago di « schema di riferimento »; un economista lo definirebbe un « modello ». Modello espresso ovviamente in ter111ini verbali., ma tali da tradire ad ogni riga le equazioni che chiaran1ente esistono dietro le quinte e che solo per un riguardo all'interlocutore cui il documento si rivolge, sono state sostituite da descrizioni discorsive. Se è auspicabile che in avvenire anche i dettagli più tecnici relativi all'impostazione e allo svolgimento dei calcoli vengano resi pubblici, è anche vero che, in questo caso, la stessa natura piu generale del 1nodello desta talune perplessità. Gli autori del documento fanno uso di un n1odello che, nel gergo, verrebbe detto di stampo keynesiano. Cio significa che l'attenzione viene concentrata sul lato della domanda di beni e servizi, e in particolare sul livello della domanda globale. Un'impostazione simile reca implicita l'idea che, una volta controllata la domanda di beni e servizi, il sisten1a economico sarà in grado di generare un'offerta equivalente, nonché l'idea, altrettanto rilevante, che l'attenzione vada concentrata sul livello assoluto della produzione, senza preoccuparsi troppo della composizione del reddito nazionale, e cioè della natura dei beni e servizi prodotti. Nessuno può negare che, in molti casi, questo genere di impostazione sia pienamente giustificato; non per nulla l'iniziatore di questa scuola di pensiero, il Keynes, è passato alla storia come un più che distinto econo1nista, e non per nulla gli economisti keynesiani occupano un posto altrettanto distinto nella compagine dei teorici e dei consulenti. Tanto meno si può negare che, per molti aspetti, le condizioni attuali dell'economia italiana rendano questa impostazione pienamente giustificata. L'economia del paese attraversa un periodo di depressione di innegabile gravità; il grado di utilizzazione degli impianti è basso e la presenza di mano d'opera disoccupata cresce di giorno in giorno. In queste condizioni, ci si può aspettare che, di fronte ad una domanda crescente, l'offerta di prodotti possa adeguarsi con soddisfacente prontezza. Per le medesime, sia pure eccezionali 1 ragioni, è giustificato porre in prima linea l'obiettivo della ripresa 1 e centrare il ragionamento sul livello assoluto della produzione, senza discutere troppo sulla natura dei beni prodotti o sulla_composizione del reddito nazionale. Non si può 21

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