Nord e Sud - anno XVIII - n. 138 - giugno 1971

I Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Francesco Compagna, Partiti e sindacati - Enzo Vellecco, Lo sviluppo su ordinazione - Manlio Rossi Doria, Una politica ecologica - Pasquale Saraceno, La SVI MEZ e la politica meridionalista - Mario Del Vecchio, La Regione ed i trasporti e scritti di Vittorio Barbati, Marco Giardina, Antonio Giolitti, Ugo Leone, Ugo Marani, Emanuele Marotta, Giuliana Martirani, Italo Talia . • • ANNO XVIII N·oòVA SERIE - GIUGNO 1971 - N. 138 (199) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI Bibliotecaginobianco -

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NORD E SUD Rivi.sta mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XVIII - GIUGNO 1971 - N. 138 (199) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.346 · Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2:700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.30()- Fascicolo arretrato L. 1.200- Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via Carducci 29, Napoli Bibliotecaginobianco -

SOMMARIO Editoriale [ 3 J Francesco Compagna Partiti e sindacati [ 6] Enzo Vellecco Lo sviluppo su ordinazione [16] Giornale a più voci Ugo Marani La seconda rivoluzione aerea [29] Marco Giardina La battaglia delle videocassette [35] Italo Talia L'Università in Basilicata [39] Vitto,rio Barbati Ugo Leone Giuliana Martirani Argomenti Lo Stato e l'economia [ 44] Mezzogiorno di sete [57] Italiani da esportare [71] Saggi Emanuele Marotta Le istituzioni francesi [85] Documenti Manlio Rossi Doria Una politica ecologica [ 103] Pasquale Saraceno La SVIMEZ e la politica meridionalista [111] Mario Del Vecchio La Regione ed i trasporti [115] Lettere al Direttore Antonio Giolitti L'lndesit nel Mezzogiorno [128] Bibiiotecag inobia.nco

Editoriale Il test elettorale del 13 giugno non era, per la varietà delle situazioni locali e per la particolare dislocazione geografica, del tutto rappresentativo della realtà politica nazionale. Si è votato in Sicilia, a Roma, a Genova, a Bari, a Foggia, ad Ascoli Piceno. Se si esclude Genova, si tratta di zone del C"entro-sud, tradizionalmente portato ad essere, co·me ha osservato Alberto Ronchey su « La Stampa» del 15 giugno, « la scatola clelle sorprese a destra », con il qualunquismo nel '47, con, Lauro n.el '52-53 ( e per qiLanto riguarda la Sicilia non si dimentichino il separatismo del 1945 ed il 1nilazzismo del 1960). La Democrazia Cristiana ha, tiLttavia, per~o terreno ed il Movimento Sociale Italiano ha guadagnato voti in misura forse maggiore del previsto. A parte la mortificazione che il terzo posto dei fascisti deve costituire per un paese democratico, anche in una consultazion.e elettorale parziale, non si può credere che tutti gli elettori acquisiti dal MSI siano dei nostalgici del passato· regime. Si è trattato infatti d'i un voto dettato piìL dalla irritazione, dalla stizza, dalla voglia di « punire » gli altri partiti, che non dalla ponderata adesione al programma politico del partito dell'on. Almirante. Nell'articolo già citato, Ron.chey giustamente ostserva: « il paradosso è che sovente chi protesta contro le agitazioni ed il disordine degli altri indulge per conto proprio alle stesse cose. Soprattutto nel Sud, se c'è un autoritarismo piccolo borghese ch,e spera in un 'pugno di ferro', capace di mettere a posto le cose, c'è spesso anche un inconscio anarchismo negli stessi gruppi e ceti: e l'uno e l'altro fenomeno si alimentano a vicenda finché sbno in crisi l'autorità dello Stato e l'equilibrio dei partiti. Così accade persino che i bottegai, gli impiegati statali e parastatali prima scioperano e poi votano a destra ». Sarebbe inutile quindi prendersela con il partito neofascista, verso il quale rimane il disgusto di sempre: esso non ha fatto aliro che sfruttare una situazione che i partiti democratici si erano lasciati sfuggire di mano. Responsabili sono quindi quelle forze politiche che, rincorrendo obbiettivi demagogici e subordinando i conten,uti programmatici, così come le stesse riforme, ad ipotesi di nuovi sçhieramenti. hanno 111essoin fuga verso l'èstrema destra quote rilévanti di elettori, no11 del tutto a torto preoccupati del disordine politico, economico, sociale. 3 Bib·I iotecaginobianco -

Editoriale Siamo convinti che la caitsa di questo vo~o di estrema destra non vada tanto ricercato nella paitra per le riforme, da parte delle classi privilegiate, quanto piuttosto nello stato di disagio, di malessere e quin.di di irritazione in cui si è venuto a trovare il ceto medio italiano in questi ultimi anni: scioperi, cortei, bastoni, attentati, st:ippi, sequestri, aumento del costo della vita, corruzione dei pubblici poteri. Questa ipotesi è confermata dal fatto che il voto di destra non è andato a forze conservatrici, ma comprese nell'arco democratico ( così come accadde all'indomani della nazion.alizz.azion.e dell'energia elettrica), bensì si è diretto verso le forze della reazione totalitaria, quasi a testimoniare la mancanza di fiducia verso un sistenia che non sembrava più capace di garantire l'ordine democratico. Oltretutto le riforme sembrano lontane e contraddittorie, o, meglio, lontane perché contraddittorie. Abbiamo l'impress1ione che alcune forze politiche, e le sinistre cattoliche ben più che i socialisti, nell'incapacità di caratterizzarsi a sinistra sul terreno dei contenuti delle riforme, abbiano cercato più volte in atteggiamenti di acquiescenza - per 110n dire di adesione - verso tutto ciò che proveniva da sinistra, anche se questo finiva per turbare la vita democratica, un.a co·pertitra alla propria impotenza riforn1atrice. Una sinistra riformatrice che non sia velleitaria dovrebbe infatti sapere che proprio nel mon1ento in cui vuole riformare operando siti co11te11uti, deve rassicurare l'opinione pubblica, cercando di garantire il più possibile la tranquillità sociale e soprattutto la legalità repi1:bblicana. In molti paesi democratici si è riiLsciti a fare le riforme senza spaventare i cittadini; da noi, viceversa, si è riusciti ad impaurire i cittadini senza fare le riforn1e. Il problema che si pone ora a tutta la sinistra democratica è quello di acquistare credibilità nei confronti del paese. Si parli un po' più dei contenuti delle rif orn1e e un po' meno di equilibri più avanzati, e di patti costituzionali; e si p·onga soprattutto fine alla gara d'egli scavalcamenti tra correnti della sinistra democristiana e correnti socialiste. È ancora Ronchey ad osservare giitstamente che « non. si può essere a sinistra del buon sensjJ ». Si tratta di ritrovare, da parte dei partiti, la coerenza con il proprio ruolo; di colmare la frattura tra classe politica e opinione pubblica, quella frattura che ha trovato nel voto per il MSI la sua allarmC?,nte conferma. Affrontare il « semestre bianco » incalzati dall'aumento dei voti fascisti po,trebbe avere almeno un. risvo.Zto positivo: quello di far trovare alla maggioranza di centro-sinistra, se non una maggiore coesione, quanto 1neno la consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti del paese. Le forze p·olitiche p·otrebbero quindi comprendere ta neces~ità di 4 Bibliotecaginobianco

Editoriale assicurare, almeno fino all'elezione del nitovo Presidente della Repubblica, un periodo di stabilità politica. Questo non vuole e non deve significare l'abbandono della strategia delle riforme, della ciLi improrogabilità è oramai convinta la niaggior parte dei cittadini, né ta1ito meno uno spa.. stamento della coalizione governativa a destra: vuol dire i1i,vece rilan-- ciare le riforme, rendendole 'piu comprensibili al paese, accentuando quindi il dibattito sui contenitti riformatori e mettendo da parte l'orgia degli emendamenti e la rissa sitgli schieramenti. È dunque siLl piano dei contenitti e delle realizzazioni che debbono ri~cattarsi le forze politich,e. « C'è un solo 1nodo - ha scritto Giova1ini Russo sul « Corriere della Sera» del 18 giiLgno - per fermare lo sbandamento a destra nel SiLd e la sfidiLcia cresce,ite nelle forze democratiche: qiLello di fare vera1nente qiLalcosa per i ceti niedi del Sud, di dare alle site città fiLnzioni prodiLttive, di offrire iLna prospettiva alle decine di migliaia di giovani sfornati dai ' diplon1ifici '. Non c'è altro modo per arrestare ttna protesta che confirza con la vendetta 1>. 5 B~bi-o1tecaginobianco

Partiti e sindacati di Francesco Compagna La posizione ufficiale dei sindacati per quanto riguarda i loro rapporti con i partiti politici, è riassumibile in una recente affermazione di Lama: « nessuno vuole spogliare i partiti, il Parlamento, il Governo delle loro prerogative e funzioni; 1na nessuno può spogliare il sindacato del diritto di rappresentare i lavoratori ». È un'affermazione corretta, che si può condividere, nella forma e nella sostanza; ma la si deve accompagnare con qualche considerazione sulla rappresentatività e dei sindacati e dei partiti. Anzitutto, perché, se i sindacati rappresentano i lavoratori in quanto tali, i partiti li rappresentano in quanto cittadini. Si mette spesso jn discussione il valore di rappresentatività attribuibile ai partiti, riproponendo la vecchia formula dell'Action française, la formula del « paese legale » che si identifica nei partiti e del « paese reale » che non si riconosce nei- partiti. Ma la verità è che il riconoscimento dei partiti da parte del cosiddetto « paese reale » si manifesta nelle urne; e che il valore di rappresentatività dei partiti è misurabile dai voti che ogni partito riesce a raccogliere in concorrenza con gli altri. Ma qual'è il valore di rappresentatività dei sindacati? Certo, i sindacati rappresentano i lavoratori; ma li rappresentano in relazione ai loro problemi e bisogni di categoria. O, meglio, si potrebbe dire che le grandi confederazioni sindacali dovrebbero e vorrebbero rappresentare tutte le categorie dei lavoratori dipendenti, « per promuoverne l'avanzata in modo distjnto ed autonomo rispetto a tutte le altre categorie sociali»: così Berlinguer. Ma ci sono le federazioni che conc9rrono a formare le confederazioni; ed ogni federazione rappresenta gli interessi di una specifica categoria, più forte o più debole di quella i cui interessi sono rappresentati da altre federazioni. Quindi, perché l'azione sindacale non degeneri in senso corporativistico, è necessario quanto meno che le confederazioni abbiano volontà, capacità e facoltà di mediare tra le singole federazioni. Altrimenti, le a~gitazioni promosse da queste ul6 Bibiiotecag inobia.nco

Partiti e sindacati time potrebbero avere, e spesso hanno, per oggetto rivendicazioni che si giustappongono e si accavallano le une rispetto alle. altre, dando luogo a contraddizioni fra le une e le altre, nel senso che le rivendicazioni delle categorie più forti non posso110 essere accolte se non comprimendo in qualche modo quelle delle categorie più deboli. Que.sto significa anzitutto che le conf~derazioni non hanno affatto un compito facile se vogliono realmente rappresentare tutte le categorie dei lavoratori dipendenti e considerare le loro rivendicazioni come interconnesse, e non come giustapposte, da mediare attivamente, e non da recepire passivamente, inseribili in un disegno coerente di promozione sociale, e non accavallabili disordina- .tamente e confusamente. E significa, altresì, che, quando le confederazioni vogliono stabilire quali sono le rivendicazioni più legittime, e comunque prioritarie, rischiano di entrare in conflitto con le federazioni le cui rivendicazioni volessero posporre a quelle di altre. C'è dunque obiettivamente una difficoltà delle confederazioni ad interpretare e rappresentare gli interessi di tutte le categorie dei lavoratori dipendenti ed a ricavare dal complesso delle rivendicazioni di tL1tte le categorie una linea di azione sindacale che nella sua coerenza sia effettivamente tale da « promuovere» gli interessi della classe lavoratrice, e la sua « avanzata in modo distinto ed autonomo rispetto a tutte le altre categorie sociali ». E questa difficoltà può essere attenuata e superata soltanto se i partiti fanno il mestiere che ad essi compete; e che non consiste soltanto, e nemmeno principalmente, nel rapprese·ntare « tutte le altre categorie sociali », lasciando ai sindacati la rappresentanza di tutte le categorie dei lavoratori dipe11denti, ma nel rappresentare i cittadini, nell'interpretare gli interessi generali del paese, nell'assicurare sempre e comunque la sintesi politica fra le varie rivendicazioni di classe e di categoria. Ed è soltanto nel quadro di questa sintesi che la mediazione delle confederazioni è possibile: se invece si forma il vuoto, perché i partiti non fanno il mestiere che ad essi compete, le confederazioni si trovano esposte nei confronti delle federazioni e prima o poi entrano in crisi i rapporti fra le une e le altre, a danno delle prime ed in definitiva a danno della classe la- ,,oratrice nel suo complesso·: perché del marasma economico è sempre la classe lavoratrice che paga le spese più alte ed il marasma economico non può 11011essere la conseguenza di un rapporto che consente alle federazioni di condizionare le confederazioni e com7 Bibiiotecag inobianco -

F'rancesco Co,.,npagna porta una degenerazione delle lotte di classe in risse di cate- . gor1e. Si potrebbe anche osservare a questo punto che, se la sintesi politica, compito dei partiti, è condizione della n1ediazione sindacale, compito delle confederazioni, sono i partiti classisti quelli che più difficilmente riescono ad intendere il valore della sintesi politica ed a realizzare questa sintesi: perché sono i partiti classisti quelli che non riescono a disti11gu.ere fra interessi generali, di tutti i cittadjni, interessi della classe lavoratrice, di tutte le categorie dei lavoratori dipendenti, ed interessi di questa o quella categoria di lavoratori. Può darsi, quindi, che l'esigenza di avere una copertura nella sintesi politica, esigenza più o meno avvertita dalle confederazioni, sia soddisfatta più da partiti non classisti che da un partito classista, convinto di avere un legame organico con le confederazioni sindacali, ma che in realtà abbandona queste alle pressioni disordinate delle federazioni; e che quindi il partito di sinistra non classista sia più intelligente i11terprete della classe la- ,,oratrice, i11tesa nel suo complesso, di quanto non lo sia il partito di sinistra classista. D'altra parte, se la « nuova maggioranza » socialista sembra più che mai sorda a problemi di questo tipo e comunque incapace di uscire da una semplicistica e strumentale concezione del classismo, è sembrato che negli ultimi tempi la rilevanza di questo tipo di problemi sia stata avvertita dai comunisti. l\1entre infatti i socialisti si offrono per una mera funzio11e di « cinghia di trasmissione » dei sindacati (tipico in questo senso un intervento del manciniano on. Caldoro durante un recente dibattito televisivo sui rapporti fra partiti e sindacati), e non riescono neanche a porsi il problema della compatibilità fra la riabilitazione della politica di piano, cui dichiarano di voler dare un ap1Jorto decisivo, ed una concezione dell'azione si11dacale come « variabile indipendente », contro la quale non osano sollevare riserve, Berlinguer afferma che occorre « stabilire un ordine di priorità che tenga conto delle ri~ sorse finanziarie disponibili » e Amendola afferma che si deve « mantenere il rapporto giusto fra costo delle lotte e risultati ». Lo stesso Lama, che è alla testa della confederazione più forte e più intelligente, ha affermato che « abbiamo tutti bisogno di .realizzare una sintesi organica della politica delle riforme e delle rivendicazioni settoriali ». E tutto questo significa che implicitamente i comunisti ammettono che finora, e specialmente dall'« autunno caldo » in poi, non si è tenuto conto delle risorse e non si è nemmeno identificato 8 Bibliotecaginobianco

I Partiti e sindacati il rapporto giusto fra costo delle lotte e risultati. Così come significa che la politica delle riforme non è compatibile con l'indiscriminato allineamento con tutte le rivendicazioni settoriali. · Certo, se i sindacati non vogliono più essere cinghie di trasmissione dei partiti, qt1esto è un fatto positivo; e si tratta di verificarne il fondamento e la portata - specialmente per quanto riguarda il collegamento della CGIL al PCI -- ai fini dell'unità sindacale ed in termini di interpretazione ai vari livelli della incompatibilità fra cariche sindacali e cariche di partito. Ma è un fatto altrettanto positivo che i sindacati non pretendano che i partiti, o taluni partiti, si configurino come le loro cingl1ie di trasmissione: la CGIL non potrebbe pretenderlo dal PCI, né la CISL dalla DC; nemmeno la UIL dal PSDI o dal PRI. Ma il PSI, soggiacendo al complesso d'inferiorità della sua « nuova maggioranza», le cui due componenti in gara di demagogia fra loro non voglion parere seconde a 11essuno, e meno cl1e mai l'una rispetto all'altra e viceversa, nello zelo classista (un « complesso » che non affliggeva e non affligge i socialisti di alto lignaggio come Pietro Nenni e Giuseppe Saragat), assume sistematicamente nei confronti dei sindacati un atteggiamento di interlocutore passivo che ne svuota la funzione come partito, degradandola appunto a funzione di meccanica cinghia di trasmissione dell'azione sindacale. Il peggio risulta proprio dalla posizione del PSI come partito di frontiera interna fra governo e opposizio11e. Perché, da questa posizione, assumendo l'atteggiamento che assume, il PSI impedisce che si articoli e sviluppi quel discorso critico che i partiti dovrebbero portare avanti nei confronti di certi riflessi e di certi metodi dell'azior1e sindacale e nei confronti degli effetti che ne derivano per la politica di piano e per la poli tic a delle riforme. Se questo è vero, è anche vero, però, che, a condizionare questo atteggiamento dei social~sti, è l'atteggiamento d,elle ACLI, di buona parte della CISL, di quelle sinistre democristiane sempre corrive ad aggirate i socialisti sulla sinistra e quindi anche corrive a fare in modo di parere più socialiste dei socialisti, più classiste dei socialisti, più zelanti dei socialisti ad offrirsi come cinghia di trasmissione dell'azione sindacale. Certo, Saragat e Nenni avevano una statura di uomini politici, e di socialisti, tale da poter sopportare le insidie degli aggiramenti: De Martino e Mancini, invece, sono condizionabili _e si lasciano condizionare. Ma ciò non toglie che le responsabilità complessive delle si11-istre cattoliche sono, per quanto riguarda l'alterazione del corretto rapporto fra par9 Bib'I iotecaginobianco -

Francesco Compagna titi e sindacati, assai più gravi di quanto non lo ·siano quelle dei socialisti, che pur sembrano le più gravi. Se si considera poi che i sindacati rischiano, per non lasciare uno spazio libero alla loro sinistra, di essere a loro volta condizionati dalle minoranze estremiste e, anzi, ricattati, da queste minoranze eversive, ci si può agevolmente rendere conto della gravità di una situazione che risulta caratterizzata da condizionamenti paralizzanti, il condizionamento dei sindacati da parte dei movimenti eversivi, quello delle sinistre cattoliche da parte dei sindacati, quello dei socialisti da parte degli stessi sindacati e da parte delle sinistre cattolicl1e, quello degli altri partiti di governo da parte dei socialisti. E i dati di questa situazione ci riporta110, tuttavia, alle considerazioni di Nicola Matteucci (La grande coalizione, « Il Mulino », gennaio-febbraio 1971, pag. 9) sul « disordine cl1e si mescola alla paralisi »; sulla « sinistra psicologica » che « non ha alle spalle un sodo retroterra culturale » e che, « volendo essere soltanto più incisiva, più avanzata, più p11nitiva, è succube ad ogni slogan che venga da sinistra, tanto dal PCI che dai movimenti della contestazione »; sul « socialismo immaginato » che tiene luogo di cultura politica e che annebbia la coscienza dei « principi fondame11tali di una democrazia costituzional-pluralistica ». Si avverte, quindi, l'esigenza non solo di un discorso critico dei partiti nei confronti di certi riflessi e di certi metodi dell'azione sindacale, ma anche e soprattutto di un discorso autocritico dei partiti nei confronti della propria azione o, peggio, della propria inazione. E questo discorso autocritico deve investire, in generale, gli inquinati ed immiseriti retroterra culturali cui ogni partito si riferisce e, in particolare, la questione dei rapporti fra partiti e sindacati e quella del valore di rappresentatività attribuibile agli uni ed agli altri. Si parla tanto oggi, a proposito ed a sproposito, di partecipa~ zione. Si parla perfino di « den1ocrazia partecipativa ». Ma la democrazia o è rappresentativa, o non è. Si può comunque affermare che le esigenze di partecipazione sono tanto più avvertite e tanto più l_egittime in quanto si sono manifestate nei partiti spinte alla degenerazione in senso oligarchico della loro organizzazione, della loro gestione, della loro condotta politica. Qui11di la. rappresentatività dei partiti risulta 110n meno inquinata di quanto non lo siano i loro rispettivi retroterra culturali: e perciò il discorso sulla partecipazione rischia di essere avviato in termini di alternativa velleitaria rispetto al discorso sulla rappresentatività; oppure si tende a 10 Bibiiotecaginobianco

I Partili e shidacati negare la rappresentatività dei partiti e n1agari a contrapporle la rappresentatività dei sindacati. Ma intanto anche nei sindacati la rappresentatività è inqui11ata da tendenze alla degenerazione in senso oligarchico delle strutture interne; e comunque si tratta per natura di una rappresentatività che, come si diceva, è diversa da quella dei partiti e che, come pure si diceva, si differenzia a livello di confederazione ed a livello di federazione. No11 possiamo, quindi, no.n condivjdere il giudizio di Domenico Fisichella (Sindacati e democrazia, « La Nazione» del 20 maggio 1971): « che un sindacato si proclami portatore dell'i11teresse ge11erale non significa che lo sia, soprattutto 11elle den1ocrazie indt1striali la cui alta complessità sociale esige decisioni pubbliche maturate attraverso u11 compiuto processo di mediazione politica » . .t'-Jonsolo: ma anche per quanto riguarda la tende11za ad t1na degenerazione in senso oligarchico, c'è una « differenza essenziale » fra quella che investe i partiti e quella che investe i sindacati; e quindi c'è una differenza essenziale fra il controllo del valore di rappresentativita dei partiti ed il controllo del valore di rappresentatività dei sindacati. Ed a questo proposito, opportunamente Fisichella ricorda che i partiti vanno periodicamente alle elezioni, gli uni in competizione con gli altri, e che la scelta fra i partiti da parte degli elettori è garantita dal segreto dell'urna e protetta da ogni forma di pressione e dj violenza. Le elezioni sono quindi il momento della verifica, del controllo, per quanto riguarda la rappresentatività dei partiti. Si può affermare che, almeno sotto un certo aspetto, questo momento della verifica, del controllo, sia rappresentato, per quanto riguarda la rappresentatività dei sindacati, dalla partecipazione agli scioperi? Lo si potrebbe affermare soltanto se fosse vietata, magari dai sindacati stessi, la pratica del « picchettaggio »: se cioè la scelta fra partecipazione e non partecipazione agli scioperi fosse altrettanto garantita e protetta della scelta elettorale fra i partiti nel segreto dell'urna. E comunque sia, il tipo di investitura che si conferisce al partito, vota11dolo, è tale da attribuire un valore di rappresentatività controllabile q_uantitativamente· e qualitativamente in occasione di tutte le scadenze elettorali. Perciò, il partito, consapevole della sua esplicita investitura, ha il dovere di impostare i suoi rap- ·porti con il sindacato senza complessi di inferiorità: il che è nell'interesse degli stess~ sindacati, che non devono configurarsi (e d'altra parte che non vogliono configurarsi) come « gover110-ombra » (Guglielmo Negri, La liturgia della programmazione ed i sindacati, 11 Bibliotecaginobianco -

z;rancesco C'ompagna in « L'Europa», febbraio 1969); e che sono certamente « interlocutori importanti», 1na non possono essere « negoziatori comprimari ed esclusivi » nelle consultazioni che precedono la fase decisio11ale della politica economica. A questo punto valgono talune considerazioni che già abbiamo avuto occasione di fare su « Panoram~ », commentando il grande raduno organizzato a Roma dai sindacati, domenica 30 maggio, per dare « una concreta risposta all'inerzia ed all'incapacità che si sono fino ad oggi manifestate nei confronti dei problemi derivanti dagli squilibri economici e sociali »; e per assicurare una corale conclusione alla « conferenza nazionale » durante la quale gli stati maggiori delle tre confederazioni avevano discusso « una nuova politica economica per lo sviluppo del Mezzogiorno e la piena occupazione»; ed in particolare valgono le considerazioni relative alle responsabilità anche dei sindacati di avere quanto meno sottovalutato fino ad oggi i problemi « derivanti dagli squilibri economici e sociali » e di avere perciò insistito in un tipo di azioni e di rivendicazioni che contradd.ice nei fatti alla pur affermata esigenza di conferire un valore prioritario all'impegno meridionalista. Non si possono chiedere contemporaneamente gli aumenti salariali e l'attuazione delle riforme. Aver fatto questo, come ha rilevato con insistenza La Malfa, ha creato una crescente accumulazione di spese, non sopportabili. Già la co11dizione delle strutture pubbliche richiede, infatti, spese del tutto sproporzionate al reddito nazionale, che tra l'altro non aumenta. E comunque, se i sindacati rivendicano aumenti salariali, incentivano il consumismo individuale. In pari tempo, la contrattazione articolata paralizza le aziende e le mette in difficoltà sui mercati. Così, tra consumismo individuale che cresce e produzione che diminuisce, si assottigliano i margini delle risorse destinabili all'attuazione delle riforme, all'espansione dei consumi pubblici, agli investimenti direttamente produttivi per creare nuovi posti di lavoro nel Mezzogiorno. Ecco, quindi, una questione di incompatibilità che sia i sindacati, che chiedono, sia i partiti, che concedono, devono decidere di affrontare e risolvere: raziqnalmente e non emotivamente. Ed è anche una questione di « senso del limite», come ha ammesso Vanni in un'intervista a Giampaolo Pansa, pubblicata da « La Stampa ». Diciamo pure cl1e questo « senso del limite» non l'hanno osservato a suo tempo gli imprenditori quando potevano comportarsi e si sono comportati da incontrastati « padroni del vapore»; ma non l'hanno poi osservato neanche i sindacati quando si so11.oaccorti di dete11ere un certo po12 Bibiiotecaginobianco

, . . Partiti e sindacati tere di interdizione. Né si può dire che ad un senso del limite siano stati capaci di attenersi i partiti che più di tutti avrebbero dovuto attenervisi, sia nei confronti della destra economica, sia nei confronti della sinistra sindacalistica, come senso degli interessi generali. Ora noi non dovremmo dimenticare le ragioni per le quali abbiamo ritenuto che si dovesse programmare lo sviluppo economico. Volevamo realizzare un efficace controllo delle oscillazioni congiunturali· e modificare il meccanismo di sviluppo onde non avessero a derivarne squilibri sempre più gravi e si potessero invece correggere squilibri già provocati o ereditati dalla storia e dalla geografia del nostro paese .. Ma constatiamo oggi di non essere riusciti a controllare le oscillazioni co11giunturali e di avere manomesso il nostro meccanismo di sviluppo. C'è, evidentemente, a questo proposito, anche una responsabilità dei partiti e dei sindacati: anche una responsabilità dei partiti di non aver fatto valere le regole della programmazione nei confronti dei sindacati; anche una responsabilità dei sindacati di avere premuto sui partiti, e quindi sui governi, disordinatamente e senza tener conto delle regole della programmazione. In altri termini, non c'è stato finora uno sforzo coordinato e coerente per un'adegt1ata accumulazione delle risorse e per una distribuzione di queste risorse, e degli investimenti, che risulti conforme all'esigenza di industrializzare il Mezzogiorno, di creare nuovi posti di lavoro, di costruire case, scuole, ospedali. Si è operato, anzi, sia per colpa dei sindacati che per colpa dei partiti, in senso palesemente opposto rispetto a questa esigenza. È quindi lecito considerare poco più o poco meno di un alibi meridionalistico sia certi discorsi dei partiti a proposito della priorità che all'impegno per il Mezzogior110 e nel Mezzogiorno deve essere riconosciuta nella politica di piano, sia i raduni nei quali i sindacalisti proclamano la mobilitazione dei cuori per il rilancio della politica di sviluppo del Mezzogiorno. È lecito, cioè, affermare che l'impegno meridionalistico sarebbe credibile soltanto nella misura in cui si fosse già manifestata una volontà di intendersi fra partiti politici, sindacati operai, centri imprenditoriali: di intendersi sulla coerenza fra azioni cl1e si intraprendono ed obiettivi che si vogliono avvicinare. Questa intesa, d'altra parte,. non può essere cercata che intorno al .tavolo della programmazione, inventariando le risorse disponibili e discutendo del modo migliore di assicurarne una distribuzione conforme alle esigenze riconosciute prioritarie. Se poi non ci si volesse intendere, la programmazione.non sarebbe possibile; e 13 Bibiiotecaginobianco

Francesco C'o·mpagna quindi non sarebbe possibile evitare che le catego•rie più deboli diventino sempre più deboli. Ora, l'atteggiamento dei sindacati nei confronti della programmazione è stato saturnino. Ma fino a che punto lo è stato perché le grandi confederazioni, venendo meno i partiti alla loro funzio11e di sintesi politica, non sono in grado di mediare e quindi coordinare e controllare le pressioni settoriali che vengono dalle federazioni e specialmente da quelle che rappresentano le categorie più forti e più organizzate? Sulla base di tutte queste considerazioni, è evidente comunq_ue che si pone anzitutto il problema dei nodi da sciogliere: il nodo del condizionamento dell'azione sindacale da parte dei movimenti eversivi; il nodo del condizio11amento delle confederazioni da parte delle federazioni; il nodo dei rapporti fra partiti e sindacati. E se questi nodi non possono essere sciolti, devono essere tagliati? Come, e da chi? E se non si volessero tagliare, possono strozzare la programmazione e non soltanto la programmazione? Ecco: questi sono interrogativi che incalzano anzitutto e soprattutto i partiti, che non sembrano esserne tutti pienamente consapevoli. D'altra parte, le risposte non possono tardare, pena un deterioramento ulteriore non solo della situazione politica, economica, sociale, ma anche dell'assetto istituzionale. Ma lo stesso problema dell'unità sindacale passa per le risposte che si vogliono dare a questi interrogativi da parte dei partiti democratici. E resta aperto comunque anche il problema della partecipazione dei sindacati, così come lo ha impostato Guglielmo Negri (art. cit.): i sindacati « sono usciti, ormai, dal Parlamento » e d'altra parte « la loro funzione supple11te odierna, di governo-ombra non può durare a lungo ». E allora come e dove reinserire la loro carica di esperienza, la loro forza sociale e quindi la spinta popolare che _li a11ima? ». Negri risponde: « ancora nel Parlamento »; e cioè, nella seconda Camera, in un Senato opportunamente modificato nella sua struttura. È un tema, questo, che merita maggiore attenzione di quanta finora non gli sia stata dedicata: tanto piì.1 che proprio nel quadro di una riforma del Senato si potrebbe tro·vare il modo non solo di smussare i pericoli del pansindacalismo, ma anche quello di smussare altri pericoli che incombono, quelli del panregio11alismo. Ma intanto si sciolgano, o si taglino, i nodi di cui dicevamo, per evitare che la reazione a catena dei condizionamenti di cui pure dicevamo abbia a provocare assai più danni di quanti finora non ne abbia già provocati e che sono misurabili in tern1ini di produzione diminuita, di flessione del ritmo e del volume degli investimenti, di progressiva disaffezione impren14 Bibiiotecaginobianco

Partiti e sindacati ditoriale, di crescente numero degli operai messi a cassa integrazione; ma sono misurabili anche in termini più generali di programmazione paralizzata, e non riabilitata, di squilibri aggravati, e non corretti, di funzioni sempre più alterate e confuse sia dei sindacati che dei partiti, e non di chiarimento delle funzioni rappresentative che competono agli uni ed agli altri. FRANCESCOCOMPAGNA ..,. 15 Bibiiotecaginobianco . .

Lo sviluppo su ordinazione di Enzo Vellecco Come era facilmente prevedibile, la presentazione del nuovo Disegno di Legge per il rifinanziamento della « Cassa » ha sortito l'effetto di vivificare il dibattito sui problemi del Mezzogiorno: si tratta di una consuetudine che, dal 1950, si ripete ormai ad ogni scadenza legislativa di un certo rilievo. Rispetto alle discussioni che si sono svolte in precedenti, analoghe occasioni, quella avviata in questi mesi presenta però talune caratteristiche che vale la pena di sottolineare. Anzitutto essa si è venuta a trovare inserita direttamente in un discorso di riconsiderazione critica della politica per il Mezzogiorno, che è in corso fin dal 1969, e del quale lo stesso Disegno di Legge presentato dal Governo costituisce una palese espressione. Inoltre, da qualche tempo sono state approfondite talune analisi settoriali grazie alle quali si dispone ora di una documentazione assai più ricca, che consente di trarre indicazioni significative sui risultati che la politica di sviluppo ha effettivamente conseguito: il riferimento a queste indicazioni era inevitabile ed infatti, da più parti, vi si è puntualmente accennato. Si deve dire, infine, che i commenti suscitati dalle norme del provvedimento non hanno avuto alcun carattere esclusivo: sono mancati gli accenti ultimativi di taluni rilievi formulati su altri provvedimenti del genere e che erano fondati, in sostanza, sul presupposto che la politica per il Mezzogiorno fosse da affidare quasi unicamente allo strumento legislativo. Pur senza disconoscere ciò che una legge ben congegnata può rappresentare per una conduzione efficace dell'azione di sviluppo, questa volta, in modo più o meno esplicito, si è partiti in generale dalla constatazione che le leggi hanno un valore di cornice istit11zioriale - necessario quanto si vuole, ma pur sempre relativo - e che « con ogni probabilità » come ha scritto Alfredo Testi sulle pagine di questa rivista 1 « la partita decisiva si giocherà ancora una 1 Cfr. ALFREDO TESTI: Una legge da rivedere, in « Nord e Sud», marzo 1971. 16 • Bibiiotecaginobianco

.. I Lo sviluppo su ordinazione volta sul piano delle operanti scelte politiche e sul piano della quotidiana azione amministrativa ». In questo contesto sono emerse perciò valutazioni più complesse e circostanziate, caratterizzate da una certa ampiezza di respiro e nelle quali il commento vero e proprio al Disegno di Legge ha finito col rappresentare solo un aspetto del dibattito, spesso appena lo spunto, per introdurre il discorso, che invece si è rivolto, di preferenza, ai co11tenuti operativi della politica per il Mezzogiorno. Di questo avviso, ad esempio, si è mostrato Pasquale Satalino quando si è chiesto 2 : « Cosa si può fare nel Mezzogiorno; in quali settori conviene investire; qual'è il polso del mercato? » cioè: « Una serie di concrete indicazioni da dare agli imprenditori pubblici e privati ». E pur riconoscendo che forse l'esame di « uria legge come quella che il Parlamento sta attualmente discutendo no11.è l'occasione e la sede più idonea per fare simili discorsi » ha sentito la n.ecessità di affermare che « da ventun anni in qua non abbiamo avuto altro che leggi di questo tipo, per risolvere le cose del Mezzogiorno e mai si è impostato un discorso sui contenuti dell'azione che andava svolta ». Con domande del genere si va dunque be11 oltre la valutazio11e sulla idoneità di una legge a risolvere certi problemi; si presuppone anzi che non si tratta tanto di leggi, quanto di contenuti, cioè di azioni concrete che investano l'impegno e l'attività degli organi pubblici e delle istituzioni eco11omiche. Si sollecita cioè una impostazione delle soluzioni su basi diverse, configurando in pratica un nuovo tipo di approccio alla problematica del Mezzogiorno. Questo discorso, prospettato con 1naggior vigore in occasione della discussione sul nuovo Disegno di Legge, si fa largo già da qualche tempo con insistenza e prende corpo proprio in funzione del procedere delle analisi settoriali cui si accennava in precedenza; esso inoltre riceve alimento dalla constatazio11e della palese insufficienza dei risultati fin'ora conseguiti. Senza badare al tono acutamente pessimistico che lo caratterizza, si deve rilevare che questo discorso può dimostrarsi estremamente utile: oltre che agevolare un controllo dell'azione di sviluppo, può infatti costitL1ire un indirizzo nuovo, di tipo pragmatico, in grado di rivalutare la funzione di alcuni fattori ed elementi che in passato sono stati, a torto, sottovalutati o addirittura trascurati. · 2 Cfr. PASQUALE SATALINO: Il Mezzogiorno attende una politica di « contenuti », in « Mondo Econon1ico » n. 10, 1971. 17 Bibliotecaginobianco -

Enzo Vellecco L'unico rischio che lo accompagna è quello che si possa perdere il senso dell'impostazione generale, sganciarsi da t1na concezione unitaria della politica di sviluppo. Per questo è necessario ricondurlo costantemente ad una verifica d'insieme e inserirne le singole proposizioni in un discorso di coerenza dal quale non si dovrebbe, in ogni caso, prescindere. Ciò premesso, ci si può predisporre a cogliere i risultati più compiuti di questa impostazion.e e a considerarne co11 attenzione la visione, specie per quanto riguarda i problemi della industrializzazione, per i quali essa è, senza dubbio, più matura. L'inventario delle risorse impiegate nel Mezzogiorno in investimenti direttamente produttivi pubblici e privati, nonché in infrastrutture e in oneri per agevolazioni comincia a diventare cospic110. Vi è ancora margine per reclamare un maggiore impiego di risorse, ma in vent'anni di politica meridionalistica lo sforzo realizzato è stato senza dubbio imponente. I risultati in termini di aumento dell'occupazione e del reddito, e qujndi di effettivo riequilibrio territoriale, sono invece del tutto insoddisfacenti. Non è il caso di ricordare cifre e dati, per dimostrare che gli effetti reali del processo di sviluppo sono stati largamente inferiori alle più caute previsioni. Il confronto tra costi e benefici si chiude in perdita; e sorge il bisogno di andare alla ricerca delle cause e dei motivi che hanno potuto influire sui risultati. Si constata così che, a prescindere dalla entità delle risorse impiegate, sono stati i modi prescelti nell'impiego di quelle risorse, a condizionarne gli effetti. Dalla generica richiesta di un aumento nel volume degli investimenti si tende quindi a passare alla indicazione di precisi contenuti, modalità ed indirizzi da seguire; per assicurare un minimo di efficacia al prosieguo dell'azione. · I dati che si prendono in considerazione, per chi~dere questa inversione di tendenza, sono notoriamente quelli degli investimenti industriali realizzati nei settori di base (acciaio, chimica, petrolio) e delle risorse finanziarie pubbliche che essi han110 assorbito per agevolazioni e infrastrutture. Si considera altresì l'entità dell'occupazione che con tali investimenti (caratterizzati da alta intensità di capitale) è stata realizzata e ·gli effetti indotti cl1~ ne sono scaturiti in termini di iniziative collaterali. Si effettua un confronto tra lo sviluppo dei settori di base e l'incremento registrato dalle altre industrie manifatturiere e si valuta, nel contempo, il tasso di mortalità registrato dalle aziende di vecchio tipo, con la riduzione 18 Bibiiotecaginobianco

I Lo sviluppo su ordinazione che ne è conseguita nei livelli di occupazione. Insomma, si redige un bilancio analitico degli effetti provocati dal processo di industrializzazione e ci si accorge che, nel complesso, questo bilancio è largamente passivo. In realtà, l'impegno a industrializzare il Mezzogiorno si è manifestato, in tutti questi anni, soprattutto attraverso lo sforzo volto a dirottare nel Sud il maggior numero di iniziative possibili, quali che fossero i loro effetti diretti e indiretti sul tessuto economico locale. Tale e tanta era l'arretratezza meridionale nella dotazione di impianti che si è ritenuto comunque positivo accrescere il potenziale produttivo esistente, anche se ciò è avvenuto con costi 1nolto elevati per le finanze dello Stato. Si riteneva che ne valesse la pena, perché il livello economico del Mezzogiorno ne avrebbe tratto, in ogni caso, un sicuro beneficio. Inoltre, si partiva dalla premessa che gli investimenti nei settori di base costituissero un atto necessario e pregiudiziale per realizzare successivamente un processo di indt1strializzazione più differenziato e articolato·. No11 si poneva, insomma, una q_uestione di scelta degli investimenti; prima perché risu.ltava già difficile ottenere la localizzazione nel Mezzogiorno dei grandi complessi di base, poi perché si riteneva che il problema fosse in realtà prematuro. Quanto agli effetti più diffusi del processo di industrializzazione, sebbe11e sia forse mancata a suo tempo una analisi precisa al riguardo, si pensava che essi sarebbero scaturiti come generico effetto della rottura con la stagnazione precedente. Probabilmente si è fatto soverchio affidamento su questo effetto di rottura; e comunque non si è avuto modo di allestire, a fianco dei grandi investimenti nei settori di base, un nun1ero adeguato di iniziative in altri settori manifatturieri. A questa finalità non hanno mirato concretamente, nella massi1na parte, gli investimenti dei gruppi pubblici e privati; e l'indirizzo generale della politica di intervento non ha posto le premesse perché ciò si verificasse. · Per giustificare questo comportamento, è stata tirata in ballo l'insufficienza della imprenditorialità locale. Ma fin dall'inizio doveva· essere chiaro che proprio la debolezza· delle strutture produttive esistenti costituiva uno dei dati del problema: effetto e causa allo stesso tempo, del sottosviluppo meridionale. Per giunta, a rafforzare questo apparato, a vivificare e a sollecitare le capacità di iniziativa degli imprend.itori locali, non era stato apprestato alcu11. disegno operativo. Se si escludono i consueti incentivi finanziari e le altre agevolazioni concesse a tutte le imprese grandi e piccole, 19 Bibiiotecaginobianco -

E'nzo V ellecco spesso in misura strettamente proporzionale alle dimensioni, non si vede con quali mezzi la politica di sviluppo potesse perseguire il fine di irrobustire, e dove necessario di far sorgere, una imprenditorialità locale. Sarà stato per mancanza di fiducia nei risultati o per la volontà di bruciare i tempi, di fatto si è rinunciato in partenza a perseguire questa finalità. La politica di sviluppo, e in particolare il processo di industrializzazione, sono stati imperniati su una concezione che considerava il Mezzogiorno essenzialmen~e come territorio nel quale tendere a dislocare il maggior numero di insediamenti industriali, come area di utilizzazione da rendere il più conveniente possibile per la localizzazione di iniziative produttive, italiane e straniere, pubbliche e private. E se una preoccupazione c'è stata, in quest'opera di trascinamento, essa era costituita dal timore che i grandi gruppi industriali non aderissero all'invito. O che vi aderissero con iniziative secondarie, non adeguatamente inserite nella grande produzione con mercato nazionale e internazionale. Il tipo di sviluppo realizzato è stato quindi, per gran parte, quello·voluto e concretamente costruito attraverso la predisposizione degli incentivi, la trattativa per assicurarsi una fetta consistente della nuova capacità produttiva in via di allestimento in certi settori, il richiamo ad iniziative in cerca di localizzazioni favorevoli in campo internazionale. Non si può ovviamente criticare tutto ciò. Semmai c'è da rammaricarsi che anche questa condotta, per quanto seguita in modo quasi esclusivo, non sia stata sempre coronata dal successo che forse avrebbe meritato. Si può tuttavia rilevare che, mentre si procedeva in questa direzione, non si è nel contempo pensato a qualificare il processo attraverso una selezione degli investimenti (almeno di quelli pubblici); una diversa articolazione degli incentivi e delle agevolazioni; un rafforzamento delle capacità i1nprenditive esistenti; la predisposizione di elementi che rendessero possibile il passaggio a produzioni più confacenti con le necessità di sviluppo dell'occupazione e del reddito. Ci si è affidati alle grandi linee, ai grandi disegni. Si è avuto il timore costante di creare una industrializzazio1ìe non efficiente e si sono incoraggiati gli insediamenti più costosi, che tuttavia non sono valsi a rafforzare adeguatamente il tessuto economico nel suo complesso. Un aspetto significativo di questa condotta si può cogliere nella polemica durata a lungo, e tuttora non conclusa, intorno al quesito se l'industria dislocata nel Mezzogiorno debba tendere a servire una domanda locale o a rifornire il mercato nazionale ed internazionale.· . . 20 Bibiiotecaginobia.nco

I Lo svilup}JO su ordinazione Almeno nel modo in cui viene posta, questa polemica non sembra cogliere nei suoi giusti termini il problema. Nessuno pensa certamente di riservare al Mezzogiorno una industria rivolta al mercato locale, così come nessuno pensa di voler ancorare nel Mezzogiorno la domanda che in esso si forma. È chiaro tuttavia che, in un processo di sviluppo, la domanda locale gioca un ruolo incontestabile di accelerazione. Per questo, anche la domanda locale va tenuta nel dovuto conto, sia nella fase di impianto di nuove iniziative,· sia in quella successiva, quando il sorgere di queste iniziative concorre ad alimentare e a qualificare la domanda stessa in un andamento per fasi successive, che costituiscono momenti essen ... ziali del processo di sviluppo: poter raccogliere in loco la più larga parte di questi effetti di rifrazione, significa mettere in moto un processo autopropulsivo che accelera e consolida la crescita del sistema. Certo, questo meccanismo non può essere adottato in via esclusiva; non deve mancare la componente esterna, sia per quanto riguarda l'offerta, sia per quanto riguarda la domanda. Il sistema produttivo del Mezzogiorno deve rimanere inserito nel contesto nazionale ed internazionale e non si deve certo allontanarlo dagli stimoli della competizione. Ma che un ruolo determinante possa essere SV(?ltodalla domanda locale, almeno per talune produzioni, appare innegabile. Né si deve dimenticare che, sulle decisioni di insediamento nel Mezzogiorno di molte in1prese industriali, le possibilità che offre la domanda locale, attuale e potenziale, giocano un peso decisivo. La scarsa considerazione dei fattori per cosi dire « endogeni » del meccanismo di sviluppo, ha invece ingenerato una scelta esclusiva per le iniziative di grandi dimensioni, magari anche delle sole industrie di base, lasciando che il processo di industrializzazone rimanesse privo di un movimento di accompagnamento del contesto produttivo che avrebbe potuto massimizzarne gli effetti. Questa scelta di fondo si è manifestata anche in altri importanti aspetti della politica di industrializzazione del Mezzogiorno; basti pensare alla condotta seguita nei confronti delle realtà produttive preesistenti e l'inconsistenza del ruolo assegnato all'attività di assistenza tecnica per le minori imprese. . Questi sono stai sempre considerati argomenti « minori » nella tematica meridionalistica, mentre i grandi discorsi sono stati riservati alle concezioni strategiche. Ora peraltro è giunto forse il momento di cominciare a riconsiderare questa distribuzione delle parti. 21 Bibiiotecaginobianco -

l:!,'nz.o V ellecco Non si tratta di capovolgerle, perché un chjaro disegno generale, di medio e lungo periodo è ancora necessario per condurre al successo la politica di industrializzazione del Mezzogiorno. Tuttavia si va facendo strada la convinzione che, senza un impegno serio e costante per salvaguardare alcune strutture esistenti e per creare un tessuto di attività produttive più diffuso e differenziato, l'opera di industrializzazione finirà col rivelarsi una fatica di Sisifo. Ancora nell'ultima relazione della Cassa del Mezzogiorno, per l'anno 1969, veniva segnalata (pag. 167) « l'introduzione di moltissime attività industriali nuove per il Mezzogiorno non aggiu11tive, ma soltanto sostitutive di attività preesistenti »; e ne ne traeva la conclusione che la « caratterizzazione dell'intervento straordinario implica ... specifiche strategie atte a favorire un organico processo di trasformazione e ristrutturazione dei settori tradizionali meridionali in crisi »3. Per quanto non sia da escludere che una parte forse cospicua di queste aziende sia condannata dal sopravvenire di nuove realtà produttive; c'è t1.1ttavia da domand·arsi: quante di esse possono ancora essere salvaguardate e che cosa si è fatto, in concreto, per consentire loro di affrontare le sopraggiunte esigenze e per adeguarv1s1. È difficile negare che, sotto questo profilo, l'intervento straordinario e la politica economica a tutti i livelli è stata completamente carente. Più precisamente si deve dire che essa no11 si è posta affatto problemi del genere e, nei casi in cui ha creduto di interve11ire, senza alcuna visione strategica, lo ha fatto con strumenti tradizionali (crediti agevolati, facilitazioni) che hanno semmai contribuito ad aggravare il problema. A titolo di esempio, peraltro illuminante, si potrebbe considerare quanto è accaduto per l'industria pastaria in Campania: le vicende di questo settore costituiscono un capitolo significativo delle vicissitudini attraverso le quali l'apparato industriale tradizionale esistente nel Mezzogiorno è passato dopo l'inizio della politica di sviluppo. La possibilità di procedere a<l una ristrutturazione di taluni settori non è stata neanche ten_tata e non esistono, ancora oggi, strumenti idonei ad effettuare questo genere di operazioni. Eppure le speranze di suscitare una autonoma capacità di iniziativa imprenditoriale nel Mezzogiorno poteva essere riposta es3 Cfr. Cassa per il Mezzogiorno, Relazione di bilancio per il 1969. 22 Bibiiotecaginobianco

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