Nord e Sud - anno XVII - n. 131 - novembre 1970

I Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Ennio Ceccarini, Le ipocrisie coranico-conciliari - Alfredo Testi, Da Reggio a Montecatini - Giulio Picciotti, La scelta dell'Azione Cattolica - Gian Giacomo dell'Angelo, Che cosa sono i piani zonali per lo sviluppo dell'agricoltura - Franco Fiorelli, Le regioni perzjeriche europee e scritti di Vittorio Barbati, Adriana Bich, Dino Cof rancesco, Luigi Compagna, Girolamo Cotroneo, Sara Esposito, Antonio Sarubbi. ANNO XVII - NUOVA SERIE - NOVEMBRE 1970 - N. 131 (192) ED I z I o N I se I .EN T I F I e H E I TAL I AN E - N A po L I -Bibliotecag i nobianco -

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XVII - NOVEMBRE 1970 - N. 131 (192) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.346 Una copia L. 400 - Estero L. 700 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 4.000, seme. strale L. 2.100 .. Estero annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Fascicolo arretrato L. 800 - Annata arretrata L. 8.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane- Via Carducci 29, Napoh . Bibliotecaginobianco

SOMMARIO Ennio Ceccarini Alfredo 'festi Giulio Picciotti Editoriale [3] Le ipo·crisie coranico-conciliari [7] Da Reggio a Montecatini [17] La scelta dell'Azione Cattolica [28] Giornale a più voci Luigi Compagna Il vuoto di cultura e la politica come scienza [42] Adriana Bich Le sfasature dell'istruzione professionale [ 49] Dino Cofrancesco Crisi dell'Università e società europea [53] Le idee del tempo Girolamo Cotro-neo Che cos'è donimatismo - Un.iversità senza cul.:. titra [62] Argomenti Vittorio Barbati L'assetto del territorio. [67] Città e Territorio Sara Esposito Catania metropoli terziaria [82] Gian Giacomo •dell'Ar1gelo Franco Fiorelli Documenti Che cosa sono i piani zonali per lo sviluppo dell'agricoltura [891 ·· Le regioni periferiche europee [ 100] Lettere Perché mi,oiono i bambini nel Sud [120] Storia Antonio Sarubbi I novatori napoletani del Seicento [ 121] Bibl~otecaginobianco

Editoriale Messe di fronte all'aggravamento progressivo della crisi che ha investito il Medio Oriente, l:e due superpotenze hanno dimostrato di comprendere l'esigenza primaria di ricondurre nell'ambito politico-diplon1a-- tico il confiitto armato fra Israele ed Egitto e la giterra civile nella Giordarzia; e hanno dimostrato, altresì, di saper .avvertire la necessità di adoperarsi ten1pestivamen.te per disinnescare quelle micce cl1e i11cautamente avevano lasciato accendere. Si è perciò diffusa anche e soprattutto in Europa la sensazione che si possa contare sul realismo dell'Unione Sovietica per contenere i rapporti fra Est ed Ovest in itn clinia n1olto più disteso- di quello della guerra fredda; e che, anzi, si possa contare sitl realismo sovietico per quanto riguarda la possibilità di affidare a negoziati costruttivi fra le superpotenze il compito di risolvere tutte, o quasi ti,1,tte,le questioni pendenti e ancora co-ntroverse, da quella della sicurezza europea e delle due German,ie a quella clella pacificazione nel Medio Oriente. U11a sensazione ottimistica, dunque; appena compensata da una generica preoccupazione per la perdurante divisione ed il progressivo indebolimento dell'Eitropa occidentale, onde le sue sempre più ridotte possibilità di azio1ne politico-diplo·matica per garantire la propria sicurezza e per curare i propri interessi quando diventano acute crisi extra-europee che potrebbero insidiare quella o co1npron1ettere questi. Così la Germania confida nelle a1-zcoran.on definite prospettive della Ostpolitik: consapevole di non poter compromettere, per la « comprensione » nei confronti dell'Est, la « collaborazione » e l' « accordo » con l'Occidente; ma consapevolC!: pure che, se il suo contributo all'era del negoziato (il trattato di Mosca) apre delle prospettive, esso non co-1nporta per ora la realizzazion.e _di tali prospettive, ma soltanto ( « nulla di più e nitlla di me110 », ha detto Brandt) « speranze e possibilità », per un verso collegate ai progressi della distensione fra i due blocchi e per un altro verso snaturabili qualora dovessero deteriorarsi quei rapporti atlantici ed europeistici che inquadrano la Germania nell'Occidente e che soli possono garantire contro il rischio di una dégenerazion,e in senso nazionale (o, meglio,. nazio·11al-neutralistico) della Ostpo1itik:. Dal canto suo,· la Francia rincorre la Germania a Mosca e, mentre manifesta il suo velleitario mal~ontento per ogni vera o presunta tendenza degli Stati Uniti alla spartizione con l'altra superpotenza del compito di salva3 . Bibliotecaginobianco

Editoriale · guardare la pace e di contenere i rischi di guerra, ,:esta ancorata alla preoccupazione di assicurare una continuità gollista della propria azione politico-diplo·matica che si esprime ancora, e sia pure con i11ino-retracotanza di quanta se n.e po-tesse concedere il Generale, in un pregii,dizio riazionalistico, .antieuropeistico. QiLanto all'Italia, la sua azione politico-diplomatica risulta oramai ridotta al corteggiamento dei paesi .arabi e condizionata o da astratte intenzioni conciliari sul Terzo man.do o da ristrette concezioni petrolifere della geopolitica mediterrariea; l'Italia sembra ripiegare, cioè, in un si10 ancestrale provincialismo che la induce a prescindere, nel dibattito politico sul presente e sul futuro, dai grandi pro·blemi di politica internazionale, della sua collocazione nello scacchiere della politica internazio-nale, della continuità di quella sua vocazion.e europeistica che De Gasperi e Sforza avevano saputo far valere come sigillo di una solidarietà democratica che è stata poi per molti anni condizione di stabilità politica, di progresso economico e civile, di sicurezza internazionale. Si potrebbe parlare, dunqiLe, di Europa alla deriva lungo la corrente che porta alla distensione fra le due superpotenze, intese a consolidare in condominio il proprio ruolo di gendarmi della pace nel mondo? Sa- · rebbe troppo semplicistico. Nelle ultime settimane, infatti, l'attenzione degli osservatori politici ha cominciato a spostarsi su alcune incognite che alterano il qtladro disegnato nei giorni della firma del trattato di Mosca e del piano Rogers per il Medio Oriente. Ci si è co1ninciato a domandare perché l'Unione Sovietica abbia barato nel Medio Oriente, avallando lo spostamento dei missili verso la sponda occidentale del Canale di Suez; e ci si domanda soprattutto se gli Stati Uniti possano spingere la propria ten.denza al disimpegno e la propria disponibilità al negoziato con l'altra superpotenza fino al punto di ritirare - come il Cremlino pretende nei negoziati di Helsinki sulla limitazione delle armi strategiche - le testa-te nucleari dislocate attualmente nell'Europa occidentale, senza che l'Unone Sovietica ritiri i 700 missili a n1edia gittata che sono dislo·cati n.elle sue. regioni occidentali e puntati contro i paesi europei dell'alleanza atlantica. Ci si comincia a domandare, altresì, fino a che punto potrebbero essere compromesse le condizioni di sicurezza dell'Europa n1eridionale dalla penetrazione sovietica nel Mediterraneo, speci,almente se e quando, scomparso Tito, si dovesse aprire un'incerta lotta di sitccessione in Jugoslavia. Ci si do,man.da, i11fine, quali contromisure do-vrebbero predisporsi in Occidente per far fronte alla « spinta tre1nenda » che l'Unione Sovietica ha dato .alla sua politica di raff orzamento sul piano dell'armamento strategico e su quello dell'arma- , mento convenzionale. 4 Bibl_iotecaginobianco

I Editoriale Si sono levate anche voci italiane ad esprimere serie preoccupazioni per le incognite che proiettano la loro ombra sulla scena internazionale in genere e su quella europea in particolare. Altiero Spinelli ha scritto che « l'Europa nel sito insieme è nella necessità di avere una intelligente politica di autonomia e di collaborazione verso gli Stati Uniti e di confronto e distensione verso l'Unio11e Sovietica », ma che « ogni sforzo intergovernativo lasciato alla semplice consultazione o concertazione è destinato al fallimento poiché i sù-zgoli Stati, anche se i loro o-biettivi a lungo termine so110 convergenti, perseguon.o iniziative diverse e divergenti nel breve periodo ». Di qiti il vuoto europeo, tanto più allarmante in un momento 11el quale - ha scritto Ugo La Malfa - « l'arretrare di un imperialismo, come viene consideriato quello nordamericano, fa avanzare l'altro imperialismo, che è quello sovietico»; in un. momento nel quale, come ha scritto « Il Mondo », l'Unione Sovietica, grazie al conseguimento di una superiorità delle sue forze nuclectri di carattere strategico, cui si deve son1mare la superiorità delle sue forze militari di carattere convenzionale, potrebbe essere in grado non solo di « erodere le posizioni americane n.el mondo», ma anche ed inn.anzitutto di aume11tare sensibilmente la sua pressione e la sua influenza i11 Europa. Sono voci laiche, come si vede, che si sono levate anche in Italia per cercare di qualificare almeno nella sua dimensione di politica in.ternazionale un dibattito politico che talitni democristiani e taluni socialisti sembrano voler esaurire nelle più provinciali ed astratte forn1ule di schieramento: « soluzioni piìl ava11zate », « disgelo costitiLzionale », « do,manda che sale dal paese », « nuovo modo di far politica », ecc. ecc.! Ma è mai possibile che non. ci si preoccupi di una sititazione interna• zionale che è caratterizzata non soltanto e non tanto dall'intesa fra le due superpotenze di contenere le maggiori tensioni internazionali nell'ambito politico-diplomatico, quanto da una tendenza degli Stati Uniti ~l « disimpegno >>, da una « spinta tremenda » che l'Unione Sovietica si è imposta per armarsi di più e n1eglio, da tendenze e spinte centrif ugl1e che, se non controllate, potrebbero scomporre definitiva1nente il mosaico nazionalistico dell'Europa occidentale, pregiudicando le residue possibilità di rilancio dell'azio11e europeistica ed aggravando il vuoto politico che dall'Atlantico all'Elba rappresenta ancora, e forse più che mai, la debolezza per l'alleanza occidentale e la tentazione per la potenza orientale? Per st~ano che possa sembrare, non · si avvertono ancora fra democristia11.i e socialisti i segni 4i preoccupazioni del genere, mentre la discussione che si è accesa sui rapp·orti fra maggioranza ed opposizione in Parlamento, e nei consigli regio,nali, impegna soprattutto ambienti 5 Bibliotecaginobianco

Editoriale · democristiani ed ambienti socialisti. È una disclA:ssione_q, uesta, che naturalmente co·mpromette la coesione della maggioranza, presup·posto di itna più efficace azione di governo. Ma fra i democristiani e fra i socialisti, c'è chi esplicitamente auspica il «superamento» della maggioranza di centro-sinistra, chi esplicitamente considera il pro,blema della cosiddetta « ristrutturazione della sinistra » più importante di qitello della coesione fra i partiti della maggioranza, chi esplicitamente sollecita l'instaurazione di rapp·orti nuovi di collaborazione della maggioranza con il PCI, se non addirittura di partecipazio,ne del PCI ad una nuova 1naggioranza. E tutto questo senza una previa verifica degli orientamenti politici che in concreto differenziano, e magari contrap 1 pongono, i partiti democratici di centro-sinistra, da un lato, ed il PCI, dall'altro lato,: quando questa verifica investe la responsabilità dei partiti democratici anzitittto per quanto riguarda la sicitrezza e forse ['in.dipendenza del paese. Quale sarebbe, infatti, il costo del « superamento » della politica di centro-sinistra in termini di orientamento della politica estera dell'Italia? È possibile l'instaurazione di rapporti nuovi di collaborazione della niaggioranza con il PCI, e addirittura la partecipazione del PCI ad una nuova maggioranza, senza una revisione dei nostri impegni atlantici ed europeistici, del genere, per esempio, di quella che rese De Gaulle bene accetto ai comunisti francesi? O si è disposti perfino a fare dell'Italia la Finlandia del Mediterraneo? E quali sarebbero le conseguenze per l'Europ:a e per l'Occidente di un disimpegno italiano, anche parziale, dall'alleanza occidentale e dal con.testo comunitario? Quali sarebbero le conseguenze, in termini 4,i equilibrio internazionale, di una dislocazione dell'Italia? Quali sarebbero le conseguenze, in tern1ini di sicurezza del paese, di un'alterazione dell'indirizzo di politica estera che finora l1a garantito all'Italia un. relativo grad·o di sicurezza? Ecco, come abbiamo scritto altre volte, i partiti democratici non possono prescindere da questi interrogativi e . soprattutto non possono subordinare i problemi di politica estera, magari semplicemente tacendone, a problemi di schieran1ento che si vogliono ris~lvere con formule che sono confuse e non sono neanche suggestive. ibl_iotecaginob·anco

I Le ipocrisie coranico-conciliari di Ennio . Ceccarini Durante uno dei tanti loro colloqui, successivi alla denuncia israeli.ana della ,,iolazione della tregua sul Canale di Suez da parte sovietico-egiziana, Rogers si decise a mostrare a Mohammed Riad, ministro degli esteri della RAU, l'imponente quantità di prove fotografiche e riscontri cartografici che documentavano la presenza sul Canale di basi missilistiche mai individuate prima dell'8 agosto 1970. Riad guardò impassibile la documentazione, ascoltò Rogers e poi fornì la sua spiegazione. Quelle basi - disse - ci sono, inutile discuterlo. Però ci sono sempre state. Israeliani e satelliti-spia americani non le avevano semplicemente notate. Ma come mai - contestò subito Rogers, vicino ad andare in collera - gli israeliani, che hanno bombardato notte e giorno per mesi la zona, non ne hanno mai sfiorata neppure una e neppure per caso? Erano ben coperte - sorrise Riad di rimando - ben coperte sotto molta s~bbia. Rogers soppesò per un momento l'uomo che aveva il coraggio di dargli una risposta simile e poi gelidamente chiuse il colloquio con queste parole: ah!, ma allora la situazione è del tutto semplice: basterà che ricopriate di nuovo quelle basi con la stessa sabbia. Poi ridaremo il via alla missione Jarring. L'aneddoto non è ufficiale, ma è vero. Diplomatici e giornalisti accreditati presso il Palazzo di Vetro lo raccontarono a suo tempo e lo scambio di battute tra il segretario americano e il ministro egiziano fece un lungo giro nei corridoi dell'ONU e anche fuori. Non è comunque l'unico aneddoto ad avere a protagonista l'attivo capo della diplomazia egiziana-. Secondo le stesse voci di corridoio, Riad si sarebbe intrattenuto brevemente, poche ore prima della votazione dell'Assemblea generale dell'ONU sulla mozione afr~- asiatica, con il rappresentante permanente italiano, ambasciatore Vinci. Se l'Italia - gli avrebbe detto - voterà contro questa mozione, il mio governo lo considererà un atto ostile e l'Italia dovrà sopportarne le conseguenze·. · Personalmente non crediamo sia particolarmente rilevante accertare se questo episodio sia vero o no. Se lo è, comunque, Riad non ci fa la figura del grande psicologo. Egli in realtà non aveva 7 Bi-bliotecaginobianco

.. Ennio Ceccarini alcun bisogno di minacciare e neppure di temere che pressioni america11e (tentate senz'altro) potessero caffibiare le istruzioni della Farnesina al nostro delegato e spingerlo a trasformare (come avrebbe dovuto, e lo spiegheremo, per mille motivi) in voto contrario t1na benevola astensione sulla mozione degli afroasiatici. L'Italia fa da tempo nel Mediterraneo una politica che viene notevolmente incontro alle ragioni dei paesi arabi e dunque, oggettivamente, a favore dello spostamento ulteriore dell'equilibrio politico n.ella regione, già compromesso dalla penetrazione sovietica. L'originalità ormai non è neppur questa, be11:sìche si svolga tale politica fingendo di svolgere una funzione indispensabile per l'Occidente (mantenere « agganciato » il mondo arabo) e facendosi comunque garantire - a scanso di rischi e imprevisti - dalla VI flotta americana. Malgrado questo ruolo di protezione, infatti, gli americani non hanno, a quanto pare, molto modo di farsi ascoltare dall'Italia, come già ieri dalla Francia e, domani forse, dalla Germania. L'« im~ perialismo » americano è veramente µna favola da ragazzi e il voto del 4 novembre all'ONU lo ha ribadito una volta di più. L'Occi-· dente in genere e l'Europa democratica in particolare ·sono apparsi scompaginati, rifluenti da posizioni di logica da grande blocco verso singole posizioni di politica da piccola potenza. Questo fattore, unito alla inevitabile proliferazione di nuovi IJaesi presenti e votanti all'ONU, tutti o quasi in rapprese-ntanza del mondo excoloniale, ha dato agli egiziani e ai sovietici la possibilità di riportare una clamorosa vittoria politica sugli Stati Uniti .e su Israele. La Farnesina ha diramato, con nota ufficiosa, la propria difesa dalle accuse (avanzate soprattutto dai repubblicani e dai socialdemocratici, ma anche da grandi orga11i di stampa indipendente e da illustri figure del mondo politico-intellettuale: Luigi Salvatorelli sulla « Stampa » di Torino, ad esempio) rivolte all'astensione ita-· liana sulla risoluzione degli afroasiatici. In succinto, ecco i punti su cui si articola questa difesa: a) l'astensione italiana non ha contribuito a far vincere la mozione afroasiatica; i « due terzi» non occorrevano; la maggioranza semplice era già acquisita 1 ; b) non abbiamo votato a favore perché 1 La n1ozione afroasiatica è stata votata da 57 paesi (Afghanistan, Bulgaria, Birmania, Burundi, Bielorussia, Camerun, Ceylon, Cile, Cina nazionalista, Cipro, Congo, Kinshasa, Spagna, Etiopia, Francia, Gabon, Ga1nbia, Ghana, Grecia, Guinea equatoriale, Alto Volta, Ungheria, India, Indonesia, Iran, Giappone, Giordania, Kenia, 8 l. Bibli.otecagi-nobianco

I Le ipocrisie coranico-conciliari quella mozione « non sembrava atta ad avviare, come era desiderabile, le parti ad un rapido e fruttuoso negoziato », però non abbiamo potuto votar contro poiché « non si poteva non condividere alcuni principi generali inseriti nel testo della risoluzione » e poiché « un voto negativo avrebbe posto l'Italia in contraddizio11e con la posizione di numerosissimi paesi mediterranei ». Tra questi paesi il documento ufficioso della Farnesina sottolinea la Francia e la Turchia « per non parlare della Jugoslavia, della Grecia e della Spagna» (molto· meno cautamente il « Popolo » del 5 novembre aveva sottolineato la « mediterraneità » accomunante l'Italia ai paesi fascisti di Franco e dei colonnelli); e) astenendosi all'ONU l'Italia ha rispettato le linee maestre della sua politica di pace, per le quali: 1. pace non si avrà « finché predominerà la tendenza ad identificarsi con una sola delle parti in causa»; 2. bisogna evitare che « il mondo arabo veda nell'Occidente un avversario incapace di comprensione » e perciò si « alieni » dal mondo occidentale stesso per consegnarsi ad altri mondi. Ma l'Italia non si è soltanto astenuta sulla risoluzio11e afroasiatica, bensì ha dato il proprio voto alla mozione dei paesi latinoamericani (capifila Argentina e Brasile) proposta in contrapposizione alla prima. La nota della Farnesina si conclude con la giustificazione di questo voto, con l'affermazione cioè che il progetto latino-americano « per la sua provenienza da paesi rimasti sempre obbiettivi nel conflitto, offriva le maggiori garanzie di rilancio della missione J arring ». Il documento che abbiamo riassunto è un miscuglio molto interessante e contraddittorio di motivi formalistici, giuridici da una parte e di politica generale dall'altra. Libano, Libia, Madagascar, Malesia, Mali, Marocco, Mauritania, Isole Maurizius, Mongolia, Nepal, Nigeria, Uganda, Pakistan, Polonia, RAU, Romania, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Tanzania, Ciad, Cecoslovacchia, Tunisia, Turchia, Ucraina, URSS, Jugoslavia e Zambia). Contro hanno votato in sedici: Australia, Bolivia, Colombia, Costarica, Dahomey, USA, Islanda, Israele, Malawi, Nuova Zelanda, Nicaragua, Panama, Paraguay, Olanda, Salvador, Uruguay. Ed ecco i 39 astenuti: Sud Africa, Argentina, Austria, Barbados, Belgio, Botswana, Brasile, Cambogia, Canada, Costa d'.A.vorio, ·Danimarca, Equatore, Figi, Finlandia, Guatemala, Guyana, Gran Bretagna, Haiti, Honduras, Irlanda, Italia, Giamaica, Laos, Lesotho, Liberia, Lussemburgo, Messico, Niger, Norvegia, Perù, Filippine, Repubblica Centro-Africana, Singapore, Svezia, Tailandia, Togo, Trinidad e Taboga, Venezuela. Erano assenti, con diverse motivazioni, dalla votazione del 4 novembre, sette paesi: Alge:ria, Arabia Saudita, Congo-Brazzaville, Irak, Kuwait, Siria, Yemen, Yemen ~dcl Sud. . Questi otto ritiri dallo scrutinio sono stati motivati con l'eccessivo « possibilismo» della mozione nei confronti di Israele. Essi rappresentano cioè lo scontento dell'estremismo arabo. 9 . Bibliotecaginobianco

Ennio Ceccarini · Proviamo a discuterlo separando i due ~rdini di argomenti e incominciando a vagliare quelli giuridico-formali. Qui si incappa subito in una mezza verità e in una quantità di omissioni. La mezza verità è l'affermazione secondo cui l'accettazione delle risoluzioni votate il 4 novembre (quella afroasiatica e quella latinoamericana) non avrebbe richiesto la maggioranza qualificata dei due terzi. In base al regolamento dell'ONU, quando una questione è « importante», at1tomaticamente si richiede un'approvazione a maggioranza qualificata dell'Assemblea. A meno che il Presidente di turno non decida di porre in votazione il tipo di maggioranza ( « semplice » o « due terzi ») che l'Assemblea dovrà poi usare. È vero che nella seduta del 4 novembre il presidente di turno, il norvegese Humbro, non fece questa richiesta (forse avrebbe dovuto farla per rendere più chiare e drammatiche le responsaqilità ed impedire poi certe giustificazioni procedurali), però è anche vero che egli definì la questione « importante ». Siamo d'accordo che il solo voto contrario dell'Italia non avrebbe comunque consentito di bloccare il progetto afroasiatico, ma forse una coraggiosa azione dell'Italia, insieme con altri paesi s'intende, avrebbe potuto strappare, nei giorni precedenti il voto, altri voti contrari, ·impedendo così il raggiungimento del quorum dei due terzi sulla risoluzione an ti-israeliana. Ma poiché la Farnesina si mostra attenta a problemi di natura formale, sarà bene avvertire che la sua attenzione avrebbe potuto essere anche e assai più scrupolosa nella ricerca di motivi giuridici che in quanto tali raccomandassero un'opposizione alla presentazione stessa del progetto afroasiatico. Tanto per fare un esempio, il delegato italiano avrebbe potuto sfoggiare una brillante conoscenza della Carta dell'ONU chiedendo la improponibilità della risoluzione in base all'art. 12 della Carta suddetta. Tale articolo, infatti, fa divieto all'Assemblea non solo di :r;nodificare, ma perfino di discutere argo·menti contemporaneamente presenti all'ordine del giorno dei lavori del Consiglio di Sicurezza. A meno che il Consiglio stesso non ne faccia esplicita richiesta. Appena una settimana prima dell'infausto voto del 4 novembre, il Consiglio di Sicurezza si era riunito a livello dei ministri degli esteri e aveva all'unanimità riconfermato la validità presente della propria risoluzione 242 (quella famosa del 22 novembre '67) 2 • Ma che questa sia stata di fatto ridiscussa e modificata dal docu2 Mai, è appena il caso di accennarlo, il Consiglio ha chiesto all'Assemblea di ridiscutere la 242. ... 10 Bibnotecaginobianco

I I Le ipocrisie coranico-conciliari mento afroasiatico non può negarlo del tutto neppure la nota della Farnesina. L'ambasciatore Vinci - sempre al termine di oculati e continui scambi con il suo ministro, se proprio non voleva servirsi dei consiglieri giuridici delle poche potenze che hanno combattuto la « svolta» del 4 novembre - avrebbe potuto anche opporre che, formalmente, la Carta dell'ONU non prevede - come ha fatto invece la mozione afroasiatica - la deplorazione di paesi che occupino militarmente ma provvisoriamente determinati territori. E non lo prevede semplicemente perché al momento in cui fu approvata, le Grandi Potenze promotrici della Carta stessa, occupavano militarmente una gran quantità di territori stranieri. Perciò la Carta si limita a condannare la, diciamo, appropriazione indebita, la rapina di territori, cioè la loro definitiva acquisizione mediante l'uso della forza. Ma Israele non ha mai dichiarato di considerare « propri » i territori occupati militarmente. E du11que ecco un'altra ,,alida ragione formale (illegittima modifica della Carta statutaria delle Nazioni Unite) per chiedere l'improponibilità della risoluzione afroasiatica. Insomma « diritto » e « giurisprudenza » fornivano abbondanti appigli ad una diplomazia che fosse stata « politicamente» convinta della gravità di un voto favorevole alla mozione afroasiatica. Ma, qui veniamo al nocciolo del problema, la Farnesina no11 aveva disgraziatamente questa convinzione. Può anche essere giusto, in astratto, affermare, come fa la Farnesina, che non si otterrà mai la pace finché « predominerà la tendenza ad identificarsi con una sola delle parti in causa ». Però bisogna saper calare in concreto quel principio; e nel concreto della crisi mediorientale esso appare solo come la riesumazione della infausta formula della « equidistanza », origine della svolta proaraba della nostra politica estera. Ed in effetti nella azione della diplomazia italiana non prevale più la tendenza ad identificarsi con « una » delle parti in causa, bensì con « l'altra ». È un'affermazione gratuita? Basta scorrere il testo del docµmento afroasiatico sul quale l'Italia si è astenuta per avvedersi del contrario. Questo documento esordisce· con la_deplorazione della occupazione « co~tinua, dal 5 giugno '67, dei territori arabi » e prosegue riaffermando che « l'appropriazione di territori con la forza è inammissibile » e che « per conseguenza i territori occupati in questa maniera debbono essere restituiti ». 11 Bibiiotecaginobianco . ' \ -

Ennio Ceccarini Abbiamo già visto la scorrettezza formale di queste espressioni (Israele non ha mai dichiarato propositi annessionistici e no11 può essere deplorato per trattenere il territorio in attesa della pace negoziata); adesso dobbiamo constatare il loro grave significato politico. In termini espliciti esse definiscono lo Stato d'Israele come l'aggressore. Ad arabi e sovietici è riuscito oggi, anche grazie alla pioggia di astensioni benevole tra cui quella del nostro paese, la manovra fallita il 19 giugno '67 quando Kossighin in persona si impegnò davanti all'Assemblea dell'ONU a chiedere la condanna di Israele come paese aggressore e la sua richiesta venne nettamente respinta. Ma il danno I1on si ferma qui. In realtà con quelle espressioni si modifica sostanzialmente la risoluzione 242, unico strume11to unanimemente accettato e capace perciò di condurre al negoziato le parti in conflitto. ... In questa risoluzione infatti il Consiglio di Sicurezza: 1. non deplorava affatto il possesso di territori arabi da parte di Israele; 2. poneva l'accento non sullo sgombe~o di questi territori ma su un « pacchetto » di questioni e sul relativo accordo globale da raggiun- · gere tra le parti. È noto quali altre condizioni erano· considerate, allo stesso n1odo e contemporaneamente, indispensabili al raggiungi1nento della pace: frontiere giuste e riconosciute per tutti, libertà di navigazione eccetera. Un astuto emendamento francese richiama sommariamente questi principì (allo scopo evidente di far cedere i residui scrupoli di tanti candidati all'astensione) ma dopo averli sganciati e declassati rispetto alla richiesta di « ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel corso del conflitto ». E qui - in quella preposizione articolata - vi è un'altra fragorosa modifica della risoluzione 242. Nel corso delle trattative in seno al Consiglio di Sict1rezza, russi ed egiziani tentarono varie formule per far passare la richiesta di un ritiro isr~eliano globale e incondizionato dai territori occupati. Essi proposero innanzitutto la formula· « from all the occupied territories » ( da tutti i territori occupati) e questa formula venne respinta. Stessa sorte toccò alla proposta successiva: « from the occupied territories » ( dai territori occupati). L'accordo si raggiunse, su proposta britannica, sull'espressione: « from occupied territories » ( da territori occupati). In realtà non poteva esservi altra soluzione, perché se Israele doveva semplicemente ritirarsi da tutti i territori occupati, come poteva poi pretendere di discutere nuove, « sicure. e riconosciute » frontiere? E se il ritiro puro e semplice delle forze israeliane fosse 12 BibHotecaginobianco

I Le ipocrisie coranico-conciliari stato l'obbiettivo della risoluzione, allora questa avrebbe dovuto rigidamente indicare in quelle pre-belliche le frontiere « g~uste », (dopo che, proprio per la precarietà e la non definizione for1nale di questi confini, si erano combattute tre guerre). Del resto i britannici, presentatori della risoluzione, richiesti, dopo la sua approvazione, di un'esegesi, confermarono l'interpretazione che logica, politica e cqnoscenza dell'idioma inglese suggerivano. Adesso la situazione è cambiata. La mozione afroasiatica corregge ·questo delicato, necessariamente sofisticato equilibrio politico-verbale della 242 e parla di ritiro « dai » territori occupati. È necessario dire altro per dimostrare lo stravolgimento della volontà del Consiglio di Sicurezza e del sottile bilanciamento di ragioni contrastanti che la sottendevano? Un'altra modifica - anche se più sfumata e ambigua - sta nella indicazione (contenuta al paragrafo terzo del secondo articolo della risoluzione afroasiatica) dei « diritti dei Palestinesi » come « elemento indispensabile all'attuazione della pace ecc. ». Nel 1970 un'espressione come questa, volutamente vaga e allusiva, può dare spazio anche alle tesi più estremistiche della guerriglia palestinese, quelle che prevedono la distruzione dello Stato d'Israele « così ,, com e». Sarebbero dunque questi i « principi generali » che l'Italia non poteva « non condividere » (come si esprime la nota della Farnesina)? O non dovevano proprio quei principi consigliare l'Italia a farsi risoluta animatrice di u11a campagna « contro »? E come mai sono sfuggiti alla diplomazia italiana altri fattori che dimostravano la natura faziosa e partigiana del docun1ento afroasiatico? Il fatto, ad esempio, che fosse stato presentato da un gruppo di paesi la maggior parte dei quali non intrattiene neppure relazioni diplomatiche con Israele; l'impossibilità per Israele di accettare documenti interpretativi della « 242 » senza condividerli; il carattere minoritario del voto (57 paesi a favore su 128 membri dell'assemblea dell'ONU) in stridente contrasto con l'unanimità con cui il Consiglio di sicurezza aveva preso la sua deliberazione del 22 n9vembre '67; lo spaccamento del fro11te necessario alla pace delle grandi potenze (Francia e URSS pro, USA contro, Inghilterra astenuta). E ancora: il fatto che la mozione afroasiatica (a differenza di quella americana e di quella latino-americana per la cui presentazione pure l'Italia si è battuta) ignorasse le cause della rottura della tregua di agosto, cioè.l'avanzamento dei missili sovietici sul Canale. E ancora: la gra, 1e omissione di qualsiasi ~ccenno alla durata sine 13 Bibl'iotecaginobianco

Ennio Ceccarini die della tregua (esplicita nel « cessate il f~oco ». del 9 agosto '67), per cui oggi Jarring deve concludere la sua missione entro i tre mesi di tempo che la mozione gli concede, oppure può esservi - in una condizione militare modificata grazie alì'avanzamento dei 1nissili sovietici - l'immediata ripresa delle ostilità (e El Sadat, presidente egiziano, già parla esplicitamente in questo senso). E ancora: la considerazione che non si poteva infliggere ad Israele una sconfitta politica dopo che questo paese democratico av-eva rotto un governo di unità nazionale e mandato all'opposizione il Gahal, secondo partito del paese; la considerazione, cioè, che non si poteva esporre il governo di Golda Meir, composto di forze non « intransigenti », di quei « falchi » che tutta la stampa plaudente all'azione della Farnesina enfaticamente definisce il vero pericolo della situazione mediorientale e che poi, indirettamente, anche la nostra scervellata condotta diplomatica potrebbe aver contribuito a rafforzare nella polemica contro Eban, la Meir e Dayan. E infine, dopo tante evidenti constatazioni, una domanda: come si fa a favorire con la propria astensione un documento che si defi11isce non « atto ad avviare, come era desiderabile, le parti ad un rapido e fruttuoso negoziato » quando per di più è chiaro che la sua approvazione seppellirà l'alternativa, l'altro documento per cui pure ci si era battuti, definito anche post factum tale da garantire «perla sua provenienza da paesi rimasti sempre obbiettivi nel conflitto » maggiori garanzie di rilancio della missione Jarring? · Come si fa a non vedere la sconnessione totale di questo ragionamento e le sue pericolose conseguenze politiche? Se Israele e gli Stati Uniti avessero provato a far passare un documento come quello afroasiatico, volto a sviluppare solo i vantaggi del proprio punto di vista contenuti nella risoluzione 242, avremmo visto tutto l'ambiente coranico-conciliare sollevarsi nell'accusa di pazzia e di sfrenato bellicismo. Oggi dobbiamo invece sentirci dire - dal Ministero degli esteri - che un colpo simile,. riuscito agli arabi e ai sovietici, serve a rafforzare le posizioni dell'Occidente presso gli arabi, a non « alienarci » le loro simpatie. ·Concepita ed attuata semiclandestinamente, senza consultazioni di gabinetto o tra i partners della maggioranza di governo, l'astensione italiana all'ONU ha sollevato ugualmente una dura polemica i cui echi sono ben lungi dallo spegnersi anche se non produrranno effetti immediati sulla vita del governo ,Colombo. Salvatorelli, nell'articolo già citato, ha parlato sprezzantemente di poli14 Bibliotecaginobianco

Le ipocrisie coranico-conciliari tica « pilatesca ». « La Voce repubblicana» e « L'Umanità » hanno sottolineato il carattere storicamente negativo del voto del 4 _novembre al Palazzo di Vetro. In effetti è difficile negare a questo voto il significato di apertura di una fase nuova per il Medio Oriente che .forse si è ancora in tempo a correggere, purché si usi la necessaria energia e la più assoluta coerenza. Dietro la sconfitta politica subìta oggi da Israele e dagli Stati Uniti si preparano già altre battaglie e altri tentativi di volgerle ancora in sconfitta per le stesse parti. È chiaro che una registrazione dell'azione di governo è necessaria (non è ammissibile che la diplomazia italiana continui a contraddire le linee generali della politica estera del centro-sinistra) ma è anche chiaro che, nel dibattito delle forze politiche, bisogna replicare con la massima fermezza ad ogni tentativo di i11terpretare con soddisfazione, nella chiarissima chiave di una fumosa « nuova maggioranza», le contraddizioni o le pericolose aperture sulla « quarta sponda » cui si abbandona la politica estera ufficiale. Questo non è un compito da tradurre in nuovi schieran1enti escl11sivistici tendenti, a loro volta, per eccesso di rigidità, a chiudersi su posizioni di pura, anche se onesta e accanita difesa. Il compito non spetta solo a queste o a quelle forze. È un compito grande che può, fluidamente, distribuirsi all'interno di tutte le forze di centrosinistra. Quando Nenni deplora con tutta la sua grande autorità politica e morale il voto all'ONU, respinge, implicitamente, la soddisfazione che lo stesso voto aveva provocato nei Bertoldi e nei De Pascalis, chiama Mancini a fare i conti con le sue stesse affermazioni (l'intervista a « Shalom » di tre mesi fa, un'aperta professione di appoggio alle ragioni di Israele), chiude la porta all'appello di Natta su « Rinascita » per la formazione, nei fatti, di una nuova maggioranza sulla politica estera, dà spazio al dissenso fermo del PRI e del PSU. Perché è proprio sul terreno della politica estera - dopo analoghi esperimenti su quelli delle tensioni sociali, delle riforme civili ed economiche - che può farsi impuro e pericoloso il clima politico italiano e prepararsi qualche sviluppo particolarmente negativo per la vita del paese. E, nel quadro della politica estera, la questione mediorientale è una cartina di tornasole di particolare efficacia. Le tentazioni conciliari appoggiate alla mania diplomatica del gioco ·« autonomo » e « ~azionale », si incontrano qui con il comunismo stanco o.inefficiente nel suo revisionismo, proiettato al puro accordo di potere senza fare i con~i con i valori storici e 15 Bibnotecag inobianco

.... Ennio Ceccarini politici che questo eventuale accordo deve pres1:1pporre, e quelle dell'anarchismo tardo-romantico, imbevuto di assurda liturgia della violenza, con interessi ben più chiari e odoranti di petrolio. È una legge che si ripete. Le forze del laicismo e della democrazia hanno di fronte ancora una volta un compito già affrontato in passato: frenare la spinta alla balcanizzazione del paese (che quel pasticcio di forze convergenti comporterebbe), costringere con fermezza e fantasia le forze che ai loro valori riluttano, ad accettare le regole che, nell'Occidente (finché questa parola avrà un senso) chiamano ad una politica estera coerente nei giochi, imporre la tesi che lega ogni sviluppo ed ogni apertura di schieramento interno e internazionale ad un passo in avanti, ad una maturazione e non ad una degenerazione più o meno scaltra della lotta politica. L'episodio del voto all'ONU rimarrà tale e isolato solo se questa strategia democratica riuscirà. Altrimenti ad alienarsi dal mondo occidentale, non· saranno gli arabi, ma noi, potenza europea con interessi mediterranei destinati a trasformarsi in amara vocazione politica. ENNIO CECCARINI I 16 Bi li.otecaginobianco •

., Da Reggio a · Montecatini di -Alfredo Testi 1. È difficile ed ingrato, lo confessiamo, dover riconoscere fino a che punto, anche in molti degli ambienti cosiddetti « responsabili » si sia ancora lontani dall'aver acquisito un'idea sufficientemente chiara dei caratteri che deve assumere un corretto rapporto tra poteri centrali e poteri regionali nella politica di piano. E quanto invece siano ancora co11fusi, generici ed in qualche caso tendenziosi i discorsi che sull'argomento si vanno facendo un po' in tutte le sedi. . È difficile ed ingrato riconoscerlo specie per quanti, avendo lavorato in questo particolare settore e avendo per la loro parte cercato di portare un contributo di chiarificazione, rite11gono che certi concetti dovrebbero orn1ai essere stati acquisiti, che un'idea sia p11re approssimativa dei caratteri e delle esigenze di un procedimento decisionale complesso - qual'è quello della politica di piano articolata a più livelli - dovrebbe ormai non essere più del tutto estranea a coloro che, per un verso o per l'altro, sono investiti di poteri decisionali o di indirizzo nella gestione della cosa pubblica. Non si sa infatti se imputare la lentezza e la fatica co11 cui un corretto discorso regionale procede e dà luogo alla defi.11izione di adeguati assetti istituzionali e di efficienti modelli operativi, più ai « tecnici » o ai « politici ». Accettando infatti per buone queste due astratte categorie (cos} difficili da riscontrare nella pratica con precisione di confini) si potrebbe far carico ai primi di non avere forse sempre contribuito a chiarire i termini del problema con tutta la disponibilità e l'insistenza richiesta dalle circostanze, ed ai secondi di non aver fatto davvero molto per colmare il ritardo che separa certi comportamenti tradizionali nell'attività politicoamministrati,1a del nostro paese dalle esigenze di moderne tecniche di governo ·e di gestione dell'economia. Ne è derivata una situazione in cui alla confusione. dei linguaggi si aggiunge spesso la reciproca diffidenza: i « tecnici astratti » da un lato ed i « politici pasticcioni » 17 BibUotecaginobianco '

Alfredo Testi dall'altro; da una parte la sempre più ampia constatazione dell'impossibilità di rinchiudersi nel « riserbo scientifico » tradizio11ale, dall'altra il sempre più preoccupato gridare al lupo della « tecno- • craz1a ». 2. Queste poco allegre, ma forse non del tutto ingiustificate note introduttive ci sono state suggerite, oltre che dalla quotidiana esperienza, da un'occasione particolare, costituita dal dibattito svoltosi in seno al convegno di Montecatini, organizzato dal Centro Studi della Democrazia Cristiana, su « La Regione nella fase costituente ». Dei lavori di questo convegno, cui non ha11no voluto far mancare la loro partecipazione uomini di primo piano nelje compagini governative nazionale e regionali, tralasceremo gli aspetti più propriamente giuridici e quelli relativi a temi politici generali (la crisi e la necessita di superamento di una politica regionalistica ispirata a concezioni « garantistiche », il ruolo delle Regioni nell'attivazione e nell'arricchimento di una società ispirata ai principi del « pluralismo », le Regioni come occasione e luogo per la speri-· mentazione di nuove alleanze politiche e per l'accoglirr1ento ed esaltazione delle nuove spinte provenienti dalle classi sociali e dalle organizzazioni che le rappresentano, ecc.). Lasciando ad altri, più preparato e versato di noi, il compito di trattare tali argomenti, ci limiteremo invece in queste pagine ad esaminare e commentare quegli aspetti più direttamente riconducibili alla tematica del ruolo da assegnare alle Regioni nella politica di piano. Diremo subito a questo riguardo che - sia pure ricorrendo in qualche misura ad una sovra-semplificazione - vi è stato uno stacco molto netto tra il tono delle relazioni introduttive ed il tono generale del dibattito che ne è scaturito. Sia nella relazione di Sullo (felicissima per la sintesi storica e per la conseguente spiegazione del quadro istituzi9nale nel quale le Regioni sono venute a. realizzarsi) che in quella di Elia (forse un po' troppo sofisticata e astratta, come del resto qualcuno non ha mancato di rilevare) ed in quella di Graziosi (forse un po' troppo frettolosa e generica) è stato infa~ti possibile riscontrare un acuto senso di responsabilità ed una abbastanza chiara percezione delle esigenze di unità cui, nel dar vita e contenuti ai nuovi poteri regionali, bisogna ispirarsi: ripetuti sono stati infatti nelle relazioni gli appelli ad una « ricerca comune», ad una « collaborazione finalizzata al raggiungimento di grandi obiettivi di progresso e rinnovamento nazionale». 18 Bibliotec~ginobianco • •

I I Da Reggio a Montecatini ~ Le tre relazioni tuttavia - ·forse anche per colpa di una Presidenza poco vigile e troppo ·spesso passiva ~ no11 sono rius_cite ad imbrigliare sufficientemente il dibattito, che non di rado si è diviso in mille rivoli ed in un'infinità di questioni particolari, dai quali era abbastanza difficile ricomporre un quadro unitario. Da tale imprecisa definizione dei problemi in discussione è curiosamente risultata in qualche modo legittimata anche la tendenza di alcuni oratori ad inserire discorsi difficilmente riconducibili ad un discorso regionalistico serio e non pregiudizialmente e dissennatamente 11.egatore del ruolo delle istanze centrali nella definizione delle scelte di maggiore rilevanza. Ne abbiamo così sentite, come si dice, di t11tti i colori. Non si è trattato infatti solo di sentire ripetere continuamente (cosa alla quale, ammaestrati dall'esperienza, siamo ormai preparati) che le Regioni, in quanto portatrici di un non meglio precisato « nuovo modo di far politica», dovrebbero consentire la costruzione di un modello di pianificazione più democratico perché proveniente « dal basso ». Queste son c_ose che significano poco, ma che tutto sommato solcano l'aria pressoché senza colpo ferire. Abbiamo invece ascoltato - o, per meglio dire, riascoltato - tesi altrettanto singolari ma molto più pericolose. Abbiamo infatti sentito dire (Bassetti) che le Regioni possono essere un « fatto di struttura » e «·no11 solo di sovrastruttura », servendo a raccogliere (oltre alle tradizionali istanze borghesi?) le « istanze di nuove forze popolari » e preparandosi così a portare un attacco concentrico e decisivo per « eliminare la mediazione centrale, subita dal Nord e richiesta dal Sud », e sostituirla con « nuove mediazioni in sede regionale, attraverso nuove alleanze politiche». Le Regioni del Nord, cioè, se non abbiamo capito male, dovrebbero ricercare una propria « mediazione », poniamo con i sindacati, per in1porla agli organi centrali e presumibilmente anche alle altre Regioni più deboli. Ab~iamo anche sentito dire (Calleri) che le Regioni « dovranno diventare uno strumento di rottura e di modificazione di una logica di sviluppo che è passata fin qui in larga misura al di sopra e al di fuori delle istituzioni ». E naturalmente, per raggiungere ques·to scopo, sembra logico prevedere che « la legislazione regionale debba sempre più slittare verso la legislazione esclusiva » (Battistini). E l'elenco d~lle citazioni su· quest~ tono potrebbe continuare. Cosa rimane a questo p~nto delle preoccupazioni espresse ad esempio da Sullo in .materia di forza dell'esecutivo («un esecutivo che abbia pienezza di funzioni in un'area. propria potrebbe rassi19 Bibliotecaginobianco •

Alfredo Testi curare settori della sempre incerta opinione pul?blica che paventano, con il regionalismo, il prevalere di indirizzi anarcoidi ») o in materia di ruolo del Parlamento ( « ... il Paese ha necessità di saldezza e di unità di indirizzo sotto il controllo del Parlamento. Ed ora accade che il Parlamento abbia il primato formale, e non sempre sostanziale. E dobbiamo accelerare il cammino su questa strada del primato sostanziale del Parlamento » )? E cosa rimane delle preoccupazioni di Elia, perché « ... cessi definitivamente l'abdicazione da parte del Parlamento ad una valutazione dei rapporti fra Stato e Regioni, abdicazione che ha portato l'intera classe politica a disinteressarsi per questo profilo dell'esperienza delle Regioni a statt1to speciale, abbandonata alle decisioni dell'alta burocrazia ministeriale e della Corte Costituzionale »? 3. Se un convegno come quello di Montecatini serve anche a tastare il polso e ad individuare gli orientamenti della classe dirigente politico-amministrativa espressa dalla Democrazia Cristiana, sembra legittimo e necessario trarre un senso e dare un'interpretazione dei n1oti,,i per cui all'interno di ·questo partito serpeggiano in · misura così diffusa delle posizioni di regionalismo esasperato e contestativo che, comprensibili nella tattica di partiti di opposizione, risultano a prima vista scarsamente giustificabili i11un partito che dal 1947 ad oggi ha avuto ininterrottamente le principali responsabilità di governo. I motivi sono, a nostro avviso, principalmente due. Esaminiamoli s~paratamente. Anzitutto la DC, o quanto meno parte della DC, vede nelle Regioni un grosso alibi per sottrarsi alle responsabilità e ai problemi dell'Italia degli anni '70. Il discorso di Donat Cattin (e l'eco che, sia pure in termini più articolati, problematici e - diciamolo pure - più colti, gli ha fatto De Mita) è da questo punto di vista particolarmente illuminante. Donat Cat'tin ha detto che « la tradi- . zione autonomistica e regionalistica dei cattolici democratici ha avuto una lunga fase di annebbiamento. Giunta alla guida dello Stato con le massime responsabilità, la DC ha sentito il peso delle esigenze e degli interessi centralistici, accentuato dalle alleanze contratte nella lotta politica del primo dopoguerra col potere burocratico. Se si vuole davvero cambiare bisogna rompere quell'alleanza»: e le Regioni dovrebbero servire appunto a questo. Detto in altri termini, la gestione moderata e per vari aspetti conservatrice data dalla DC al paese per più di un ventennio, e il tipo di 20 Bi l_iotecag-inobianco

.I Da Reggio a Montecatini alleanze politico-sociali su cui quella gestione si è fondata, ha creato dei problemi che lo sviluppo economico del paese impone di risolvere ed aggrovigliato dei nodi che i processi di trasformazione socia1e e di crescita civile impongono di sciogliere o di recidere: e fin· qui l'analisi ci sembra pienamente condivisibile. Ma da questa difficoltà la DC non sembra capace o disposta ad uscire attraverso un rinnovamento radicale dei metodi di gestione del potere e di guida sicura dei processi di sviluppo economico e di crescita sociale:· rinnovamento radicale che dovrebbe passare attraverso quella seria, e rigorosa, e vigorosa politica di piano che non ci pare la DC abbia fatto molto per difendere e portare avanti in questi ultimi anni. Ma anzi, di fronte all'aggravarsi dei problemi, all'accentuarsi delle spinte sociali organizzate ed all'approssimarsi di scadenze qualificanti, si assiste alla proposta disinvolta ed irresponsabile di superare difficoltà, spinte e contraddizioni semplicemente passando la mano alle Regioni, attendendosi da esse un rinnovamento politico ed amministrativo che quelle stesse forze politiche, incapaci di realizzarlo a livello centrale, potrebbero agevolmente conseguire in sede locale. Come se la vita politica e amministrativa degli Enti Locali non avesse insegnato assolutamente nulla. Se dunque la DC è più « regionalista», ad esempio, del PSI, ciò accade perché essa è a nostro avviso meno seriamente interessata alla definizione ed alla rigorosa attuazione di una seria politica di piano nel nostro paese. Politica di piano che, come diremo meglio in seguito, impone con necessità ed urgenza assolute che gli organi legislativi e governativi nazionali non si sottraggano al dovere di assumersi interamente le proprie responsabilità e di definire il quadro generale delle scelte e dei procedimenti di attuazione. Ammesso che possa condividersi il giudizio espresso a Montecatini da un oratore, secondo cui la legge Scelba del '53 sarebbe più «regionalista >~ della legge finanziaria regionale, non ci sarebbe a nostro avviso da scandalizzarsene, per il semplice motivo che nel 1970 è giusto preoccuparsi delle esigenze di una politica di piano che nel 1953 non era ancora all'orizzonte. · Ma vi è un secondo motivo da considerare. Motivo che consiste nel peso che all'interno e sugli orient~menti della DC vanno assumendo i discorsi provenienti da certe forze politiche regionali del Nord. Non è la prima volta che dalle pagine di « Nord e Sud» si segnalano i pericoli e gli equivoci di certo « regionalismo » di marca padana, il quale dietro una facciata di apertura e di rinnovamento 21 Bihl iotecaginobianco -

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