Nord e Sud - anno X - n. 46 - ottobre 1963

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna I Vittorio de Caprariis, Lo stato di libertà Domenico De Masi, Sopraluogo nella Sicilia della mafia - Achille Albonetti, L'Europa e l' organizzazione del!' Occidente - Ruggero Moscati, Breve storia di una famiglia « borghese » del Mezzogiorno: il 500 e scritti di Alberto Aquarone, Mario Chiari, . Mario Dilio, Mirella Galdenzi, Antonio Ghirelli, Nicola Tranfaglia. ·- ANNO X - .NUOVA SERIE - OTTOBRE 1963 - N. 46 (107) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI .' Bibliotecaginobianco .,

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO X - OTTOBRE 1963 - N. 46 (107) DIREZIONE E REDAZIONE: Napo 1i - Via dei Mille, 47 - Telef. 393.346- 393.309 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via dei Mille, 47 - Napo 1i - Telef. 393.346- 393.309 Una copia L. 400 - Estero L. 500 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 4.000, semestrale L. 2.100 - Estero annuale L. 4.000, semestrale L. 2.200 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via dei Mille 47, Napoli Bibliotecaginobianco

• SOMMARIO Editoriale [3] Vittorio de Caprariis Lo Stato di libertà [ 6] Domenico De Masi Sopralu_ogo nella Sicilia della mafia [ 17] Note della Redazione Zanotti Bianco - Governo e sottogoverno - Il « rilancio Cassa » [ 41] Lettere al Direttore Mario Dilio Il « notabilato » n1eridionale [ 46 J • Discttssioni Achille Albonetti L'Europa e l'organizzazione dell'Occidente [55] Argomenti Mario Chia1i La legge urbarzistica [78] Alberto Aquarone Nicola Tranfaglia Antonio Ghirelli Mirella Galdenzi Recensioni Il crollo del fascisn10 [ 89] Contraddizioni e contrasti nella Ritssia del « disgelo » [94 J Le radici del qualunquis1110 [ 98 J I dubbi dello scrutatore [103] Saggi Ruggero Moscati Breve storia di una famiglia « borgfzese » del Mezzogiorno: il 500 [107] Bibliotecaginobianco

Editoriale (,'01rL'ènoto, la Democrazia Cristiana ha tenuto il mese scorso il suo· terzo « convegno ideologico ». E vorremmo dire qui pregiudizialmente che questo radicarsi dell'abitudine del partito politico dei cattolici di tenere annualmente un convegno nel quale si dibattono problemi più vasti di quelli di schieramento, e di programma del partito, è prova di maturazione e di consapevolezza. Ciò premesso, ci sembra necessario commentare sitbito quello che a S. Pellegrino si è detto intorno al tema dei partiti politici. Ed a tale proposito sia consentito ai redattori di questa rivista, che hanno sempre dibattltf,to i temi di una riforma strutturale degli istituti della democrazia italiana, e che hanno sempre rimproverato ai « politici pitri » di trascurare questa dimensione importantissima della nostra vita poZ.itica, di rallegrarsi per la scelta del tertia e soprattutto per il fatto che u11 grande partito abbia deciso finalmerite di fer1narsi a meditare su siffatte questioni. Che, poi, a questo compiacimen,to, per così dire, complessivo, non si accompagni il co11senso su parecchie delle cose che sono state dette a San Pellegrino, è cosa affatto naturale e cl1e non. -meraviglierà nessuno. In effetti, le questioni che sono state dibattute I al convegno della DC, quella della funzione e' strutturazione dei partiti e l'altra del ruolo di un partito comunista nella presente vita italiana, sono complesse e tali che si prestano ad un vasto dibattito. Per co1ninciare dalla qitestione dei partiti e della loro funzione, diremo subito che, se la difesa dei partiti stessi come istituzioni necessarie ed insostitttibili di una democrazia moderna ci trova perfettamente consenzienti (e se altrettanto consenzie,iti ci trova l'affermazione che proprio per questa loro importanza i partiti non possono essere completan1ente abbandonati a se stessi, ma abbisognano di un qualche rego• lamento), la sola proposta concreta fatta a San. Pellegrino, quella, cioè, del finanziamento pubblico delle varie f<?rzepolitiche italiane, rzon ci trova affatto persitasi. Si è detto che quest_o del finarLziamento pubblico è il solo modo che consente di affrancare i partiti dai potentati economici privati e che permette loro di svolgere in piena ed assoluta libertà la loro vocazione e funzione. Ma, in verità, questo è itn ragionamento 3 Bibliotecaginobianco

Editoriale astratto: cosa vieterebbe ai partiti, o a qualcuno di essi, di aggiungere al finanziamento pubblico anche quello di compiacenti privati? Nulla evidentemente; salvo che, si aggiunge dai sostenitori di quella tesi, la pubblicità dei bilanci diverrebbe necessaria; .e attraverso i pubblici bilanci si potrebbe stabilire se si è tenuto fede all'impegno di non accettare altro danaro che quello dello Stato. Ma qiti s'impone un'altra domanda, fin troppo evidente: chi o che cosa vieterebbe ai partiti di falsificare i loro bilanci? I normali accertamenti di polizia fiscale? E chi è che non vede che un go-verno, quale che sia, potrebbe servirsi della sua polizia fiscale per fiaccare itn partito? Abbiamo la massima fiducia che. tutti i nostri rappresentanti in Parlamento non farebbero mai qualcosa del genere: e tuttavia l'antica saggezza. romana ci avverte che senatores boni viri, senatus autem mala bestia; onde quello che gli individui non farebbero mai, i corpi organizzati hanno fatto sovente! I partiti sono organismi assai delicati, che vanno sicuramente regolati, ma che non possono essere trattati alla stregua delle società per azioni. Il che Vtlol dire che il loro regolamento dev'essere indiretto per quel che rigitarda la loro struttura e la loro vita normale; e diretto soltanto per il momento in cui si passa dalla fase meramente organizzativa e di dibattito interno alla fase del decision-makin.g, c!ze è quella rilevante interesse pubblico. Se a San Pellegrino si fosse studiato uri sisten1a per assicurare indirettamente la den1ocrazia interna di partito, se si fosse pensato ad uno statitto pubblico dei partiti, ai quali tutte le forze politiche italiane dovrebbero uniformarsi, e si fosse studiato insieme un sistema di garanzie effettive, anche giurisdizionali, di tale democrazia interna, sicuran1ente la questione del regolamento dei partiti avrebbe fatto un passo ava11ti assai più litrtgo di quello che si pensa si sia fatto proponendo il finanziamento pitbblico. Da ultimo, i partiti non vivo110 in utzo spazio astratto, ma in una società di l-to1nini, cpn contrasti di interessi e di ideali; e presumere di separarli dagli interessi è presu,n1ere troppo. Diremo addirittura che quest'idea del finanziamerzto pttbblico è t-1.11asorta di ipocrisia puritana di chi non vitale accettare la realtà. E la realtà è che il gregario che paga la sua quota d'iscrizio11e sarà uguale 11elvoto politico ed in quello partitico al professore d'università, ma non è e non potrà mai essere il suo eguale quanto al peso politico che entrambi esercitano nella vita· pubblica e in qitella di partito. Questo ragionamento, che vale di solito a difendere il suffragio universale, vale anc1ze alla rovescia: vale, cioè, a far persuasi che è tln' eresia pensare che chi ha più ctlltura o più ingegno debba pesare in regime democratico esattamente quanto chi non ha cultura, né ingeg1-10.E se questo principio è valido per la 4 Bibliotecaginobianco

Editoriale cultura e per l'ingegno, per i profe:ssori d'università, perché 11-ondovrebbe essere vero per i capitani d'industria? Paesi ad antica civiltà democratica co.me l'Inghilterra e gli Stati Uniti ammettono schiettamente che chi ha certi interessi, che sono per volu1ne più. ingenti di altri, possa tentare di difenderli dando finanziamenti ai partiti; solo che le classi dirigenti di quei paesi, essendo accorte, hanno preteso, da qualche tempo a questa parte, che tali finanziamenti non stlperassero un certo linzite e soprattutto che fossero pubblici. Il dottor X, monopolista della pietra pomice, è padronissimo di dare cento milio11i l'anno al partito X: bisogna, però, che· non possa dare più di cento milioni e che tutti sappiano e che tutti i giornali possano stampare che egli ha dato quei cento milioni. Ovviamente si può essere certi fin d'ora clie si troverebbero i modi di aggirare anche una misura di questo genere: ma intanto, poiché i partiti qualcosa spendono, qualcosa dovrebbero pur denunciare: e quando si sapesse da chi ricevono anche solo la metà di ciò che ricevono, il beneficio per la vita pubblica sarebbe assai maggiore di qu_ello derivante da qualsiasi finanziamento pubblico! Quanto al problema del partito comunista e del suo ruolo 1iella vita democratica italiana, ci sembra che la relazione dell'on. Malfatti fosse quella che toccasse più da vicino il cuore della questione. È fi1z troppo evidente che la presenza di un partito· a vocazione totalitaria falsa il libero gioco democratico. Ma questa non è una questione che si possa risolvere applicando utia coerenza astratta. Perché, a voler essere astrattamente coerenti, dall'osservazione che la presenza di un partito a vocazione totalitaria basta a falsare il gioco den1ocratico bisognerebbe dedurre che non si può tollerare l'esistenza di qi1el tal partito. E no11 v'è chi non vede che la deduzione sarebbe logicamente impeccabile e la conclusione assai poca savia. Anche a voler lasciare da parte la questione che la democrazia 110n può ricorrere ai sisten1i antidemocratici, basterebbe rifiettere che un partito a vocazione totalitaria, messo fuori della legge, si nasconderebbe dietro itn'altra etichetta o in un altro partito, e continuerebbe tranquillamente a falsare il gioco democratico, e sarebbe, anzi, assai più pericoloso, perché finirebbe con l'essere il. mitico lupo in veste di agnello. E se ciò è vero, non resta altra strada che quella che si è sempre consigliata in Italia dai democratici autentici e che ancora Malfatti suggeriva a San Pellegrino: svuotare il partito comunista dalla sua carica e della sua capacità di attrazione togliendogli le ragioni di crescita ed insieme facendogli il vuoto intorno. Ma a questo punto il discorso diventa politico: e non abbianzo certo bisogno di dire ai nostri lettori quale sia a nostro giudizio la politica che meglio assicura di realizzare un programma di sfida al comunismo di siffatto genere. Bibliotecaginobianco

Lo Stato di. libertà di Vittorio de Caprariis Non si può non considerare come positivo il fatto che anche i comunisti comincino a porsi assai più concretamente che in passato il problema delle istituzioni rappresentative nel nostro paese, delle loro attuali deficienze e di eventuali intenrenti di riforma. Testimonianza di qt1esto, rinnovato atteggiamento ci sembra l'artico 1 lo che Pietro Ingrao ha dettato per « Critica Marxista »: La crisi degli istititti rappresentativi e la lotta per una nuova de1nocrazia; articolo· desunto da una relazione prese11tata dall'autore al Convegno delle grandi città, orga11izzato dal PCI nel marzo scorso, e successivamente trasform.ato in conferenza a Firenze (cfr. L'Unita del 21 luglio sco,rso). Appaiono, ormai, lo·ntanissimi gli anni nei quali l'on Togliatti polemizzava contro le concezioni « borghesi » della libertà, contro l'i11ga1mo e la frode che le istituzioni democratiche di tipo occidentale avrebbero nascosto nel loro seno, e rivendicava, contro ve11ti e maree, la concezione sovieticostaliniana della democrazia. Come, poi, queste polemiche ideologiche potessero, accordarsi con la battaglia per l'attuazione costituzionale, che il Partito Comunista veniva conducendo in quegli anni in Italia, è un mistero, che attende ancora di essere schiarito; a meno che non si voglia pensare che quello, dell'attuazione della Costituzione no1 n fosse altro che un ennesimo arnese di guerra, di cui si servivano allora i comunisti per mostrarsi radicati alla situazione italiana e per scolorire ancora di più le loro a11tiche pretese rivoluzionarie. Un'i11terpretazione che non è affatto destituita di fondamento, non è affatto il prodotto di un anti-comunismo cieco e fazioso, come a molti scritto,ri di parte co1nunista piacque e piace ancora dare ad intendere. E per rendersene conto basta riflettere al fatto su cui abbiamo più di una volta insistito nelle pagine di questa rivista: che, cioè, la nostra carta cost~tuzio,nale andava ripensata a fondo e corretta in alcune sue parti importanti, per adattarla alle nuove condizioni e di1ne,nsioni della società italiana, ai nuovi problemi che si pongono nelle società democratiche cli massa dei nostri tempi, talché la richiesta di un'attuazione pura e semplice della lettera di quella carta medesima appariva di necessità un modo di eludere la sosta11za stessa delle questioni che si 6 Bibliotecaginobianco

Lo Stato di libertà sarebbero dovute affrontare. Del resto, una siffatta titubanza ed elusività da parte dei comunisti è stata propria no•n soltanto delle loro p,rese di posizio.ne sui problemi istituzionali di una democrazia moderna, ma di tutto il lo1 ro atteggiamento innanzi a quanto accadeva intorno a loro (dalle trasformazio,ni del capitalismo alle questioni dell'integrazione· europea). Ed al futuro storico .di quel decisivo periodo della vita italiana che va dal 1947 al 1956 non potrà non apparire singolare questo ritardo di una presa di coscienza delle realtà concrete da parte di un'intellighentsia politica, che si vorrebbe la più agguerrita e la più ·spregiudicata, e che ritiene di essere in possesso, addirittura della sola chiave· capace di schiudere la porta dei misteri del mondo. · · So, benissimo che una delle ragioni di questo fenomeno va ricercata nelle obbedienze (e qualcuno potrebbe· essere tentato, di dire: nelle servitù) internazionali del Partito Comunista Italiano (come di o·gni àltro partito comunista), in quel tanto, di fedeltà ideologica, oltre che politica, che esso deve alla « chiesa-madre » del comunismo. Talché, quando l'ideologia e la politica dell'Unio,ne Sovi_etica erano_ ispirate a quella chiusura che oggi con accento di co,ndanna si definisce « staliniana », l'ideologia e la po:litica dei comunisti italiani non potevano non essere rigoros.amente condizionate; e quando·, invece, alla rigidità di un temp·o si è sostituita una maggiore fluidità, anche in Italia se ne è potuto constatare il contraccolpo 1• E proprio· il pro,blema delle • istituzioni di una democrazia moderna, da cui abbia1no· preso le mosse per questo articolo•, può essere assunto come pro·va illuminante: perché _è stato soltanto dopo che nell'Unione Sovietica si è cominciato a parlare di « ritorno alla legalità », di « legalità socialista » e via discorrendo, i medesirni temi hanno d'improvviso ritrovato larga eco nella pubblicistica comunista italiana, e si è dato il caso di giovani studiosi che hanno scoperto, o riscoperto, lo « stato di diritto ». Il fatto è, però, che la più moderna dottrina Jiberal-democratica ha superato l'impostazione dei problemi di libertà nei meri termini della legalità: ha, cioè, dimostrato che non si da autentica tutela gi11ridica ai diritti quando l'impalcat11ra dello stato di diritto non sia sostenuta da quello che potremmo chiamare lo stato di libertà, quando, inso1nma, i diritti non siano gara11titi dalla libertà politica, cori tutti i meccanisn1i al livello dello stato e della società che· questa esige e co111.porta. La più modem~ dottrina liberal-democratica ha capovolto, entro certi limiti le p·osizioni teoriche del famoso saggio di Constant sulla lib·ertà degli antichi comparata a quella dei moderni, -laddove invece la prassi sovietica par ritornare proprio ai principi direttivi di quel saggio, almeno n~gli sviluppi che ne diede la scuola giusp·ubblicistica tedesca del secolo scorso: con 7 Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis quanto frutto teorico e pratico ognuno può agevolmente constatare per proprio co1 nto,. Vorrei aggiu11gere, tuttavia, che· questo ricorso ai modi ideologici e politici sovietici per spiegare i loro corrispettivi del comunismo italiano, ha in sé qualcosa di meccanico, che non persuade interamente. Non carichiamo: troppe responsabilità sulle spalle di Stalin! Se il ceto. dirigente intellettuale e po1 litico del PCI ha mostrato per anni una singolare sordità a certi temi ed una non meno singolare incapacità di cogliere le trasfor1nazioni delle realtà circostanti, una parte, almeno, delle responsabilità è propria di quel ceto, dei suoi stessi schematismi ideologici, della sua riluttanza a po,rre in discussione le verità ricevute, della sua ostinazione ad orientarsi tra i problemi concreti del mondo· co·ntemporaneo in base ad un'ideolo,gia, la quale·, confrontata a questi problemi medesimi, appare piuttosto un antico « portolano 1 » che una moderna carta geografica. Del resto, lo stesso articolo di Ingrao, che si è ricordato all'inizio, mostra, qua e là, il permanere di fo·rmule che non giovano 1 certo all'intelligenza dei feno·meni politici e sociali, che pure si vorre·bbero indagare, e denunciano, il prolungarsi di schen1atismi ideologici a dire poco invecchiati: « il proposito dei gruppi dominanti di sterilizzare e isolare le assemblee elettive »; « la macchina burocratica centralizzata costruita in funzione delle repressioni di classe ». Frasi come queste, messe a fronte delle realtà concrete, risultano prive di significato: le assemblee elettive non appaiono oggi sterili o isolate o depotenziate perché la pervivace ostinazione dei gruppi dominanti le l1a ridotte al punto in cui sono. Si trattasse soltanto di questo,! Basterebbe, dopo tutto, cambiare i « gruppi dominanti »; e invece l'esperienza degli altri paesi democratici dell'Occidente mostra chiaramente che non basta l'avvicendamento dei partiti nella direzione della cosa pubblica a risolvere quel problema che è ben pii1 ampio e impegnativo. E Ingrao sarebbe certamente più coerente con l'o,riginaria ispirazione 111arxista, se dicesse, più semplicemente, che bisogna mutare dal profondo I'assiette sociale, e che quando un simile risultato si fosse raggiunto, allora tutto sarebbe mutato. Ma è fin troppo evidente che, se egli affermasse ciò, non potrebbe scrivere qualche pagina dopo frasi co·me le seguenti: « il movimento operaio deve p·artire dalla consapevolezza che la crisi in atto degli ordinamenti politici non coinvolge solo istituti, apparati, segnati- da un'impronta reazionaria, ma chiama in cat1sa anche istituti e conquiste democratiche concrete, in cui si esprime - sia pure in modo parziale - il principio della sovranità popolare ». Qui io distinguo e le attenuazioni non valgono a cambiare il fondo della questione, e si pone rovesciato il problen1a che fu posto ai comunisti sette anni or sono a proposito 8 Bibliotecaginobianco

Lo Stato di libertà dell'esperienza staliniana: allora si chiese come era possibile che la più perfetta delle strutture (non v'era già in Russia almeno la società socialista?) potesse· dar luogo alla pessima delle sovrastrutture, alla crudele dittatura di Stalin; ed o·ggi si potrebbe chiedere ad Ingrao come accade che la pessima delle strutture, quella capitalistica, dia luogo ad « istituti e conquiste democratiche concrete ». È vero che a que,sto punto si metterebbe in discussio.ne la più grave questione del marxismo come sistema « aperto »: ma il fatto è che i comunisti italiani, come i loro amici di altri paesi, « aprono » e « chiudo110 » il marxismo secondo le ·necessità del momento e non mi pare che si possano nascondere ' dietro il dito di un'interpretazione non. ossificata della loro dottrina. Certo, questo, è già un discorso tutto diverso, e che non si può fare certo nel bel mezzo di una discussio11e di altri pro,blemi; intanto era, però, opportuno sottoli11eare il perdurare nel testo di Ingrao di proposizioni, che sembrano u11 orr1aggio rituale alla tr~dizio·ne ideologica a cui egli si ricollega esplicitamente, e che so-110,sic11ramente, in contraddizione con altre, che p11re si leggono nelle sue pagine. Questa contraddizione 110n si rileva già per gusto professorale, ma perché essa rivela pienamente, mi sembra, le ragioni di una delle insufficienze più gravi di un sag.gio, che, per altri versi, è apprezzabile e muove da alcune preoccupazioni, non certo proprie del solo Ingrao o dei soli comunisti, e tuttavia perfettan1ente giustificate dall'esperie·nza. In effetti, è proprio il presupposto polemico di voler vedere nella crisi degli istituti rappresentativi la conseguenza di una congiura ordita _ dai gruppi politici ed economici do1ninanti,_ è proprio questo deteriore marxismo, che impedisce ad Ingrao di intendere con piena chiarezza che il problem~ è più vasto e grave, e che, se le pressioni di interessi corporativi su tutta la struttura dello· Stato hanno avuto qualche parte nel deterioramento di questa struttura, tuttavia, il danno- recato da esse è minore, forse, di quel che· di solito si crede e certamente del peso di altri fattori, di sviluppi che paiono tipici delle condizioni politicl1e, economiche e sociali dei nostri tempi. Lo stesso Ingrao sembra avere qualche sentore di ciò allorché scrive che « la crisi delle assemblee rappresentative ... rischia di diventare macroscopica, al momento in cui si determina una massiccia espansione dell'azio,ne regolamentatrice dello Stato, si allarga la sfera del capitalismo- di Stato e in parti- .colare dell'azienda pubblica di produzi9ne, si estendono gli interventi dello Stato in tutta una serie di momenti_ della società civile ». In effetti, esiste un rapporto di causa ed effetto fra tutte le cose dette qui ed il depotenziamento dei parlamenti: talché, se fosse esatta la premessa di Ingrao, che la svalutazione delle assemblee rappresentative è figlia 9 Bibliote(?aginobianco . '

Vittorio de Caprariis della congiura dei gruppi politici ed economici dominanti, bisognerebbe ammettere, in buo,na lo,gica, che coloro che hanrio voluto l'effetto hanno voluto anche la causa, e cl1e, dunque, i « 1nonopolisti » esigono, l'espansione massiccia dell'azione regolatrice dello Stato, il rafforzamento del capitalismo di Stato e l'intervento dello Stato• stesso nella società civile. · Sul che l'on. Ingrao può, forse, chiedere lumi al suo collega in Parlamento, segretario del Partito Liberale! Il vero punto della questione è che effettivan1ente la formidabile espansione della presenza dello Stato a tutti i livelli della società è un fatto indiscutibile; e che è positivo, oltre che naturale e logico, che un tal fenomeno si sia verificato. Si ricordi un'affermazione famo 1 sa di Roosevelt nel suo discorso a Chicago, nel 1932: quando le aziende raggiungono le dimensioni che hanno raggiunto nei 11ostri tempi, disse il futuro Presidente degli Stati Uniti, il loro governo non può aversi più semplicemente per mandato privato, perché gli amministratori si trovano a gestire un interesse pubblico. Si può disct1tere quando si vuole la forma che deve assumere il controllo dello Stato, ma non si può negare il principio che u_11tale co11trollo dev'esservi: il criterio del profitto I1o·n può essere più sovra110 i11contrastato della contesa e dello sviluppo eco1 nomico, n1a dev'essere ridimensionato secondo i criterii dell'interesse della collettività. Del pari, se si guarda alla funzione che ha oggi lo Stato nelle co11tese del lavoro, si può agevolmente constatare (checché sembri suggerire l'ideologia di Ingrao) che siamo ben lontani dalla famosa neutralità teorizzata ai suoi tempi da un Giolitti; e che lo Stato oggi interviene non già a favore dei « gruppi dominanti », ma a favore dei ceti più deboli, eco,nomica1nente parlando. Si potrebbe addirittura dire che la situazione politica generale ed anche quella psicologica sono tali, oggi, in Italia, che se anche lo Stato restasse neutrale (il che non è), la sua neutralità giocherebbe, obiettivamente, a favore delle classi operaie. Ed ancl1e qui è logico e naturale che ciò avvenga, perché è logico e naturale che lo Stato, ossia il garante dell'interesse generale, intervenga a favo1re di un nuovo equilibrio sociale, come è logico e naturale che chi ha più forza di voti conti di più politica1nente. Certo, anche in qt1esto caso si può discutere a lungo per stabilire dove sia realmente il giusto limite d'equilibrio,; 1na non si può contestare il principio. Ora, quando si è gi11nti a questo punto dell'analisi, è i11utile nascondere la testa nella sabbia: o·ccorre, invece, guardare bene in faccia la realtà. Questa evoluzione che si è accennata ha poderosamente _rafforzato l'esecutivo; e se essa, come sembra, è destinata a continuare, l'esecutivo ne uscirà ulteriormente rafforzato. « Obiettivo immediato per cui noi oggi combattiamo è un intervento 10 Bibliotecaginobianco

Lo Stato di libertà · programmato ed organico dello Stato nelle strutture economiche e in cleterminati settori della società civile », scrive Ingrao. L'affermazione è alquanto generica e perfino un po' equivoca (quell' « obiettivo immediato » può far pensare a chissà quali obiettivi mediati!); e tuttavia si può concordare col principio che essa enuncia. È bene che sia chiaro, però, che coeteris sic stantibus, il risultato di 11na lotta come questa sarà un ulteriore svilimento dei parlamenti. Più di una volta abbiamo richiamato l'attenzione sugli aspetti istituzionali di una politica tii programmazione, ossia sulle conseguenze che una politica siffatta potrebbe avere dal punto di vista delle nostre istituzioni. No1 n mi sembra dubbio, quale che sia il parere di alcuni illustri costituzio-nalisti, che l'esiste·nza di una legge del piano, la cui durata, com'è normale in simili casi, si prolungasse per due o tre o cinque anni finirebbe col modificare profondamente gli attuali equilibri di potere tra il parlamento ed il governo ed accrescerebbe a dismisura, nella sostanza e nella forma, la fo,rza reale dell'esecutivo. Ma è appena necessario aggiungere che la coscienza dei danni che si potrebbero accompagnare ad uno sviluppo organico e coerente delle politiche che si sono accennate·, non porta affatto, e non può portare, a nostro som~esso avviso, al rifiuto di tali p·olitiche. Al di là del giudizio di fondo che si può dare su esse (e sulla p,ositività sostanziale del nostro giudizio non si avranno dubbi, speriamo), quelle p-olitiche sono la conseguenza inevitabile dell'evoluzione delle cose: in quest'evoluzione v'è una Io,gica superiore ad o·gni forza umana, una dinamica alla quale ~ non ci si può opporre. Vengono in mente qui le parole che Tocqueville scriveva più di un secolo fa sul~a forza inarrestabile del _principio ugualitario, della democrazia: ebbene, le modificazioni che si sono acce·nnate sono anch'esse figlie di quei principi ed hanno lo stesso dinamismo; e quando si leggono, come si sono potute leggere in questi giorni, certe interviste dell'on .. Malago·di, vien fatto di pensare soltanto ai famosi sogni dell'am1nalato. Il problema è, dunque, tutto nella formula che abbiamo adoperato di sopra: coeteris sic stantibus. Se vogliamo che le tendenze in atto producano i loro ~ffetti benefici senza alterare il nostro sistema di libertà, occorre che le altre cose non restino così come sono, occorre agire, intervenire subito per modificare il quadro istituzionale che abbiamo innanzi nelle parti in cui va modi- ·ficato; altrimenti, lo sbocco finale sarà anche per noi quello. di una repubblica di tipo gollista. E qui conviene -dire subito che Ingrao ha ragioni da vendere quando polemizza contro gli avversarii della cosiddetta p~rtitocrazia. In verità, egli giunge buon ultimo in questa polemica che già altri giornali e 11 Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis riviste (e la nostra tra queste) sono venuti conducendo negli ultimi anni; ma non è mai tardi per certe cose! È ùn fatto che gli schemi r. garantistici, almeno nella formulazione che ne ha suggerita, con più spassionata coerenza di tutti, il Maranini, non servono allo scopo: è un'illusione quella di chi crede di poter revitalizzare il p•arlamento · indebolendo i partiti, tornando al sistema elettorale uninominalistico, o di dover rafforzare l'esecutivo facendolo eleggere dal plebiscito -popolare, abolendo il voto di fiducia e rendendo i governi meno dipende1;1ti dai parlamenti. ln realtà, i partiti sono il vero ed originale contributo che l'evoluzione politica e sociale degli ultimi cinquant'anni ha portato al sistema istituzionale della libertà; e se qualche costituzionalista non se n'è ancora accorto, tanto peggio per l11i. L'esperienza francese di- . mostra, mi sembra, in modo indiscutibile che il mezzo più rapido e 1 1 sicuro di addomesticare i parlame11ti è quello di indebolire o, schiacciare i partiti, di diluire le segmentazioni partitiche della società politica in una sorta di unanimità nazio11al-qualunquistica, dove il mito dell'efficienza moderna si abbraccia a quello del prince1:1s rei-publicae. E l'esperienza inglese dimostra, in modo altrettanto indiscutibile, che è pro-- prio la struttura partitica che dà vita alla società politica. I partiti sono istituzioni indispensabili della democrazia e della libertà; .e nessun discorso serio su una riforma che voglia porre le nostre istituzioni alla misura dei problen1i del nostro, tempo può prescindere dalla loro funzione fondamentale ed eminente. Ma se Ingrao ha ragione nella polemica sui partiti, sia consentito osservare che egli si dà un po' troppo faciln1ente vittoria sulle posizioni liberali. Poiché la scuola liberal-democratica non è oggi rappresentata dagli scrittori, per così dire, antipartitocratici, ma da altri, che da più anni hanno mosso rilievi importanti agli avversari della cosiddetta partitocrazia e si sono sforzati di schiarire i temi istituzionali della nostra vita politica, cercand9 di approfo-ndire le ragioni delle evoluzoni e delle involuzioni di cui siamo tutti testimoni e di proporre qualche rimedio. Ingrao, invece, preferisce da una parte dar per liquidata la scuola liberale, e dall'altra analizzare le diverse posizioni che vi sarebbero nel seno del movimento cattolico. E si possono anche intendere le ragioni politiche di tale atteggiamento: egli sente di parlare a nome di un grosso· partito, e vuole interlocutori di pari o maggiore grossezza! Si dà· il caso·, però, che questa sia 11na logica anch'essa alquanto « grossa », perché i11 siffatte questioni vale non già il numero dei voti, ma la forza dell'argomentazione e dell'analisi, la capacità di giungere a risultati positivi e di suggerire rimedii efficaci. Tanto ciò è vero che nelle ultime. pagine del suo articolo Ingrao non può proporre altri 12 Bibliotecaginobianco

Lo Stato di libertà rimedii se non quelli che già gli scrittori di parte liberal-democratica avevano proposto; salvo che in lui v'è 1ninore consapevolezza di tutta la complessa ricostruzione necessaria. In realtà, come abbiamo sempre osservato tutte le volte che abbiamo discusso di .questi problemi, innanzi alle gravi questioni che do-bbiamo risolvere occorre da una parte lasciarsi guidare da una famosa massima di Alexander Hamilton e dall'altra ricordarsi della grande scoperta tocquevilliana, che, cioè, nelle democrazie di massa i problemi di libertà non si pongono più soltanto al livello istituzionale, ma al livello della società. · La massima di Hamilton è quella che afferma che il problema delle · minacce tiranniche dell'esecutivo si risolve non già indebolendo il potere dell' esecittivo stesso, ma rafforzando i poteri residui dei cittadini. E basta riflettere un mo1nento solo p-er rendersi conto di quanto sia esatta questa formula, perché in essa è implicita tutta una serie di soluzioni che si armonizzano tra loro e formano un tessuto compatto ed organico. E evidente che rie11tra in una coerente applicazione di quella formula non solo una sostanziale 1nodifica della procedura co·n cui si deve poter sollecitare dalla corte costituzionale un giudizio di costituzionalità intorno ad una legge --del parlamento o ad un provvedimento· dell'esecutivo che sfugga alle .competenze delle altre branche della magistratura; (si vedano in proposito le importanti osservazioni di Aldo Sandulli nel numero di agosto di « Nord e Sud ») ma anche, tanto per fare un esempio di qualche attualità in Italia, l'istituzione stessa di un ordinamento regionale. Poiché è evidente che tale ordindmento non può essere soltanto lo strumento di un'organica e seria politica di programmazione (è noto che da più parti si è autorevolmente sostenut~ la necessità di una strutturazione regionalistica del nostro paese ai fini di una pianificazione economica), ma è anche una risposta adeguata al rafforzamento del potere esecutivo, che, come abbiamo visto, è conseguenza ineliminabile di ogni programmazione. In effetti, grazie all'istituzione dell'ordinamento regionale si verrebbero a creare nuovi centri di potere, distinti, se non, in qualche modo, addirittura conco·rrenti a quello dell'esecutivo nazionale; e insieme quest'ultimo perderebbe l'esercizio di talune funzioni, che esso ha attualmente, funzioni che sarebbero esercitate, appunto, a livello regionale e sarebbero pertanto più agevolmente controllabili in sede di consigli o parlamenti regionali. Nè va trascurata un'altra conse.guenza, pur essa benefica, che potrebbe derivare da una ristrutturazione regionalistica del paese: l'alleggerimento dei co-mpiti e delle funzioni dell'assemblea nazionale, un alleggerimento che consentirebbe al legislativo 13 Bib~iotecaginobianco

/ "{littorio de Capr'ariis di no11 disperdersi in troppe direzioni, come accade adesso, e di concentrarsi nelle sue funzioni essenziali. Il problema stesso di una revitalizzazione del Parlamento non può non essere considerato in questo• quadro di un più vasto orientamento istituzionale e nel contesto dell'esigenza che si è accennata di un rinvi-· gorimento dei poteri residui dei cittadini. Qui dobbiamo rinviare pregiudizialmente all'importante inchiesta, diretta da Sartori, sul .Parlamento, pL1bblicata pochi mesi or so110 (ESI, « La società moderna», 1963), e alle osservazioni cl1e il giudice costi tL1zionale Aldo· Sandulli ha fatto nell'articolo- che si è ricordato di sopra. E quando si tengano presenti questi scritti, che sono tra i più recenti, apparirà subito chiaro che i suggerimenti di Ingrao sono poco origi11ali e soprattutto parziali. Certo, è necessario che si dia pubblicità ai lavori legislativi delle Com- _!Ilissioni e che soprattutto li. si organizzi in modo che-non ne risulti quella frammentarietà e contraddittorietà ad un'organica visione generale, che fu lamentata a suo· tempo da La Malfa; ed è necessario, altresì, che si arpplino e si or anizzino « gli istituti di inda ~-e e_ di _c_oru cenza del Parlamento ». Con l'avvertenza, però, che dovremmo tendere ad un ridimensio11amento del lavoro legislativo vero e proprio, sia in sede di commissioni sia in sede di assemblea, poiché_ le troppe leggi e leggine nL1occiono al buon andamento della cosa pubblica. E con l'altra avvertenza che ciò di cui il Parlamento abbisogna è qualcosa di più importante di un « Ufficio studi di una grande azienda capitalistica di normale efficienza ». Il problema che primeggia su tutti ' ' gli altri è quello del rafforzamento d _caµacit' ossibilità di < co ollo del Parlamento: non contano solo le grandi decisioni politiche ed il fatto che queste non possano essere prese senza l'approvazione del Parlamento·, ma contano anche le n1odalità ir1 cui g_ueste decisioni politiche vengono attuate, soprattutto qua11do, come si è visto, l'ambito di queste decisioni è . venuto allargandosi in proporzioni enormi. Ora, I è un'illusione pensare che questo controllo possa essere svolto dal- 1 l'assemblea al completo: occorre, invece, creare delle commissionj specializzate, rappresentative proporzional1nente di tutte le forze esi- 1 stenti in Parlamento·, coi poteri delle comn1issioni d'inchiesta, con la possibilità di costituire degli appositi uffici di consule11za tecnica e l giuridica, e che siano pern1anenti e collegate, nella loro attività, co11 tutti -gli altri organi di controllo dello Stato, in modo che si possa realizzare una efficiente divisione del lavoro. Solo a questo mo-do si riuscirà a potenziare la capacità di co11trollo del Parlamento e attraverso questo potenziamento si sarà revitalizzata ,,una delle funzioni essenziali delle assemblee rapprese11tative. 14 Bibliotecaginobianco

Lo Stato di libertà Tutto ciò detto (e, com'è evidente, si sono accennati qui soltanto alcuni degli spunti che un tema come quello di una riforma istituzionale integrale può suggerire), resta da aggiungere che conviene non dimenticarsi di quella famosa scoperta di Tocqueville di cui si è già detto, che, cioè i problemi di libertà vanno posti anche al livello della società. E ad illustrare quello che si vuole intendere vale la pena di ricordare un episodio della recente storia a1nericana: il violento attacco che nel 1936-37 Roosevelt mosse contro la Corte Suprema. I giudici costituzionali di allora avevano assunto, a maggioranza, un atteggiamento di fortissima, per non dire irreducibile, avversione alla legislazione del « new deal »; talché, dopo le elezioni del 1936, che rappresentarono per lui un successo senza precedenti i11 tutta la storia degli Stati Uniti, Roosevelt propose un piano di riforma (per la verità alquanto discutibile) della Corte Suprema e sollevò contro la Corte stessa un vasto movimento di opi11ione. È noto l'epilogo della vicenda: il presidente ed uno dei membri della maggioranza co•nservatrice della Co·rte, prima ancora che il piano di Roosevelt fosse formulato, ma consapevoli dei fermenti dell'opinione e della necessità di dover giudicare delle nuove leggi con 1nentalità nuova, passarono con la mino,ranza progressista, che diventò a sua volta maggioranza; talché non vi fu bisogno che il piano di riforma fosse esaminato. Tuttavia, il giudizio degli storici sull'episodio è, per così dire, in ancipite, come sembra a me che non possa non essere : perché da una parte si deve sottolineare l'assurdità della pretesa dei giudici di sostituirsi agli eletti del popolo nello stabilire quali fossero i contenuti e le 1nodalità di una - legislazione conforme alla famosa clausola costituzionale del « benessere »; e dall'altra non si può evitare di indicare quanto di pericoloso vi fosse nello scatenare una campagna di opinione indiscriminata contro una delle più venerande istituzioni della libertà americana. La Corte Suprema degli .Stati Uniti poté resistere a quella campagna non soltanto perché durava da più di un secolo ed era entrata a far parte del costume politico del paese; ma anche p,erché, nel paese stesso, vi furono gruppi politici e non-politici che ne assunsero la difesa. E se non mancarono· le apologie interessate, non mancarono neppure e furono forse prevalenti le difese di coloro i quali, pur essendo consapevoli degli errori e dei torti della Corte, comprendevano e ponevano in giusta ~videnza la pericolosità della manovra rooseveltiana, che minacciava di sostituire a quello esistente un supremo tribunale costituzionale dipendente, nella sostanza, dal p-otere esecutivo. Né va trascurato il fatto importante che tra questi difensori equanimi della Corte vi furono molti i quali avevano sostenuto apertamente Roosevelt per i suoi pro15 Bibliotecaginobianco

llittorio de Caprariis grammi e l'avevano appoggiato nelle elezioni; e tuttavia ritennero di doversi staccare da lui in questa questione. :L'episodio dimostra, mi sembra, cl1e il gioco dei contrappesi non basta a garantire lo stato di libertà quando esista soltanto al livello istituzionale; e che pertanto conviene ripro·durre, per quanto è possibile, lo stesso equilibrio al livello della società. Ma qui vale l'avvertenza che la molteplicità dei partiti non basta da sola a creare tale equilibrio; e che l'esistenza di una stampa libera ed efficiente, obiettiva e solidamente info-rmata, e di gruppi di pressione e di associazioni costituite per il promovimento non già soltanto di interessi corporativi, ma anche ed anzi soprattutto di interessi collettivi, sarebbe un fattore importantissimo di stabilizzazione e di equilibrio democratico. VITTORIO DE CAPRARIIS 16 Bibliotecaginobianco

Sopraluogo nella Sicilia della mafia di Domenico De Masi Giorni or sono, entrando nell'ormai famoso Borgo Manganaro, a pochi chilometri da Lercara Friddi, ho potuto credere che Italo Calvino avesse realizzato uno dei suoi ro1nanzi fantastici, ove, per inqui- . namento neorealistico, al posto dello strano cavaliere inesistente, fosse stato previsto un intero clan di invisibili contadini. Il borgo è costituito da case a due piani, con scuola, chiesa, piazza e monumento (un semi-- natore neofascista in bro11zo, costosamente mastodontico), ma il tutto è privo di acqua, luce ed abitanti, aperto a chiunque perché nessuno vi passa o vi si ferma. Villaggi come questi, in Sicilia, ve ne sono ovunque i funzionari si sono voluti tramutare in « intrallazzatori »: ce ne sono, tra l'altro, a Francavilla in provincia di Messina, alla periferia di Caltanissetta e nel feudo Campisini, tra Collesano e bivio Scillato, salendo da Campofelice. Ma del fatto se ne sono occupati la stampa ed il cinema per cui non vale la pena riparlarne. Quello che invece mi ha colpito è che in quel fantastico paesaggio metafisico l'unica casa abitata è la caserma: cinque giovani carabinieri, venuti da altrettante regioni d'Italia, stanno lì, a fare la guardia, in difèsa di nessuno dal momento che nessun uomo c'è da difendere per un raggio di quindici chilometri. Il comandante è un pugliese, biondo ed alto, che mi accoglie con la gioia di chi è rintracciato in una landa polare. Mi dice che da vari giorni non parla co·n un civile e che passa il tempo leggendo romanzi. Questo carabiniere è come il simbolo del potere statale in Sicilia, potere che da vari anni è stato certamente presente solo nelle circostanze e nei luoghi in cui non se ne è avuto bisogno. E questa è in sintesi la conclusione di tutte le notizie raccolte e le esperienze fatte in un viaggio di 2.000 chilometri attraverso i paesi di mafia della Sicilia occidentale, da Partinico a Villalba, da Favara a Castelvetrano e a ·Sciara. Dai giorni delle esplosioni di Ciaculli la stampa si è occupata della delinquenza in Sicilia riesumando in. coro gli episodi divenuti tradizionali nelle antologie e nelle cronache della mafia e i nomi grossi,. ma passati, di Vito Cascio Ferro, Calogero Vizzini, Salvatore Giuliano. 17 Bibliotecaginobianco

Do1nenico De. Masi Un solo quotidiano ha tratto stin1olo dai recenti episodi di sangue per pubblicare un'inchiesta estesa alla condizione economico-sociale dell'isola e co11vogliare l'attenzione del pubblico sui problemi di fondo che si agitano dietro il tritolo e la lupara. La stampa, in altri termini, ha agito sull'opinione pubblica più da stimolante che da informatrice approfondita; ed ha sollecitato notevoli provvedimepti dagli ambienti giurisdizionali, ma non ha fornito elementi attendibili per fissare lo stato del problema in tutta la sua con1plessità. · Di conseguenza, in « continente », è pervenuta una ennesima in1magine sfocata ed appiattita del fenomeno mafioso le cui motivazioni sono state come al solito ridotte di numero e falsate nell'essenza: la complessa tridimensionalità di un problema annoso si è ridotta in tal modo a fenomenologia criminale semplificata ad uso dei salotti; l'opinione pubblica si è indignata per la strage di Villabate, il 1novimento turistico è diminuito nella Sicilia occidentale e quasi tutta l'Italia è convinta che la mafia, più giovane e più vegeta che mai, imperversa nell'isola come non aveva mai imperversato neppure ai tempi di Orlando. Se invece il feno1ne110 si esan1ina sul posto, ove è difficile che sfuggano le componenti secondarie e quelle principali, ma nascoste, le conclusioni sono diverse e, per alcuni aspetti, meno allarmanti. Si possono così riass-umere: 1) la mafia è nel suo stadio finale in tutte e quattro le province di Palermo, Caltanissetta, Agrigento e Trapani; 2) nella zona di Palermo la mafia è degen~rata nella forma meglio estirpabile del ga11gsterismo; 3) di111inuzion.e e trasformazione sono dipese in minima parte dall'intervento diretto dello Stato e i11massima parte da fattori endogeni come il n1oto emigratorio e le trasformazioni economiche. * * * 1. - Dire che la_mafia l1a i giorni co11tati pt1ò sembrare azzardato, se si pensa al nun1ero rilevante di delitti avvenuti in questi ultimi tempi. Nella provincia di Agrigento, dura11te il periodo che va dall'arrivo del Co1nmissario Tandoj fi110 alla sua uccisione, ci sono stati 12 assas~ sini politici, 8 attentati a sindacalisti e 31 assassini di mafia rimasti impuniti. A Palermo-città, tra il 1951 ed il 1959 sono state ammazzate 211 persone; e a Palermo-provincia, negli ultimi ve11ti giorni del giugno scorso, sono state ammazzate 13 persone. Eppure è esatto dire che la mafia è in declino, perché, in tern1ini di sociologia criminale, la parola mafia rimanda ad un fenomeno preciso CO!]. suoi caratteri tipici senza dei quali di mafia 110n si può parlare. Dando. qui per scontate le origini storiche e i riferimenti ai Beati 18 Bibliotecaginobianco

Sopraluogo nella Sicilia della mafia Paoli e ai Reali di Francia, resta il fatto che l'onorata società sorse realmente come società « onorabile » e che per lunghi anni essa contrappose positivamente delle giuste leggi non scritte a delle ingiuste leggi scritte. Però, col tempo, ne derivò una tale confusione in senso obbiettivo che la mentalità dominante fi11ìper ammirare il sorpruso ed accettarne le conseguenze purché fosse commesso con un certo stile e sotto una certa etichetta. Calogero Vizzini, per lunghi anni capo di tutta la mafia, fu imputato quale ma11dante di omicidio ed auto,re di rapina, strage, abigeato, associazione a delinquere, corruzione di pubblici funzionari, bancarotta semplice e fraudolenta, estorsione e truffa aggravata: tutto questo gli permise di accumulare un patrimonio di circa due miliardi di lire. Eppure sulla sua tomba è scritto: « Comm. Calogero Vizzini - precorse ed attuò la riforma agraria - sollevò le sorti degli oscuri operai della miniera - grande e generoso di animo - nemico di tutte le ingiustizie - fu difensore del diritto dei deboli - raggiungendo altezze mai toccate ». L'epigrafe è stata composta da gente pie11amente convinta di ciò che scriveva, perché « zu' Calò » fu legislatore ed esecutore esemplare di una società - la 1nafia - che, organizzata com'era sulla base di una serie di elementi giuridici tali da soddisfare anche il più pedante dei costituzionalisti, poteva anche apparire come dotata di un'autorità per certi aspetti paragonabile e sostituibile a quella, peraltro spesso carente, dello Stato. Egli ft1 il migliore dei mafiosi pos-sibili. E tale lo considera il custode del camposanto di Villalba che mi guida tra i cipressi e si scappella in segno di rispetto solo d~avanti alla tomba di quell'unico « siciliano d'onore » sepolto tra tanti comuni italiani. Il carattere precipuo della n1afia, insomma, non era tanto nell'apparato esteriore della società, o nella frequenza dei delitti, o nelle forme si1nboliche con cui ve11ivano co1nn1essi, quanto piuttosto nella condizione di liceità che i consociati attribuivano alla loro. comunità e nel crisma etico e perciò cogente che ne derivava alle sentenze dei suoi occulti tribunali. Nessun membro della mafia ha mai sospettato che la sua attività fosse moralmente riprovevole e che lo Stato avesse il diritto di discuterne i limiti e confr.ontarne il contenuto con gli articoli del Codice penale. Il mafioso era pienamente tale proprio quando risultava ben convinto che le norme della mafia erano una lecita alternativa alle leggi dello Stato: nell'a1nbito di quelle norme egli poteva gustare tutta la tranquillità della propria coscienza e sentirsi un galantuomo anche con trenta on1icidi a carico. Questa mentalità ha avuto tale incontrastato dominio da estendersi qualche volta anche a generi criminosi come il banditismo: si pensi al caso delle 19 Bibliotecaginobianco

Donien,ico De· Masi famiglie Giuliano e Gaglio· di. Mo-ntelepre çhe, nel 1961, chiesero ai pretore di Partinico la sospensione delle riprese del film di Rosi motivando la richiesta col fatto che Salvatore Giuliano era un « incensurato ». Questa motivazione, così come l'epigrafe di Calogero Vizzini, se inq~adrata nell'etica mafiosa, risulta me110 assurda di quanto possa sen1brare a prima vista; e meno assurda risulta pure la ·famosa « omertà », che non significa « rifiuto ài testimonianza per spregio alla giustizia e per paura di rappresaglie », ma significa coerente volontà di negare ogni aiuto ad un apparato giurisdizio11ale considerato estraneo alla propria società mafiosa ed al quale non si rico11osce alcun diritto di interferire negli affari interni di questa società, completamente autonoma e sufficientemente fornita di forza per farsi da sé una giustizia molto più certa e pesante di quella che saprebbero garantirle gli organi statali. L'eticità intrinseca è un attributo che ha determinato per anni la coesione della mafia nel suo interno e che, all'esterno, ha creato i più grossi equivoci circondandola di alibi e di simpatie, forse più nocive della stessa omertà. E questo equivoco, se può essere attribuito. ad ignoranza per gran parte di coloro che vi cadono, non può considerarsi frutto di ingenuità allorché è alimentato da persone che, per cultuta e per professione, hanno il preciso do·vere non solo di non· cadervi, ma anche di metterne in guardia l'intera nazione. Quando morì Calogero Vizzini, la stampa se ne o·ccupò in modo sproporzionato e non sempre con parole di biasimo. Ma colui che si prese la briga di stenderne l'elogio funebre più comn1osso ed esplicito fu, nientemeno, il Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione in persona (nel n. 5 di «Processi», gennaio 1955): questi, infatti, scrisse un articolo che rasentava l'apologia della delinquenza e eh.e, comunque, lasciava la mafia in quella zona d'ombra tra il lecito e l'illecito in cui ha sempre comodamente prosperato. Bisognerebbe riportare per intero le parole dell'alto magistrato- per far sentire quanta trepida co·mmozione, quanti accorati accenti straripano da ogni rigo. Tra l'altro egli racconta una visita che don Calogero gli fece a Roma il 7 febbraio 1953: « Eccomi, commendatore Vizzini. Io so-no... » - « Per lei non sono il commendatore. Sono u zu.' Calò (lo zio. Calogero)» - « Benvenuto in casa mia, zu' Calò ». Questo è il modo co11 cui uno dei massimi tutori della legge poté vantarsi di avere accolto 11ella sua casa « colui che da più di un trentennio sapeva signore di Villalba e sovrano della mafia insulare ». E la cordialità dell'accoglianza no11 derivava da una curiosa disposizione ad essere gentile con un delinquente, ma dal giudizio davvero singolare che egli dava dell'onorata società: « Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre 20 Bibliotecaginobianco

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