Nord e Sud - anno IX - n. 33 - settembre 1962

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Jean Meynaud e Claudio Risé, Il movimento sindacale in Italia e in Francia - Vittorio de Caprariis, Difesa del!'Europa ed europeismo Nello Ajello, Dalla terza pagina al supplemento letterario Antonio Ghirelli, Il "vuoto '' Giovanni Satta, "Piano,, e "rinascita,, i11Sardegna. e scritti di Sergio Antonucci, Paolo Conca, Domenico De Masi, Paolo Foglia, Giuseppe Recuperati. ANNO IX - NUOVA SERIE - SETTEMBRE 1962 - N. 33 (94) , · EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI Bibliotecaginobianco

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO IX - SETTEMBRE 1962 - N. 33 (94) DIREZIONE E REDAZIONE: Napo 1i - Via dei Mille, 47 - Telef. 393.346- 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via dei Mille, 47 - Napo I i - Telef. 393.346- 393.347 Una copia L. 300 - Estero L. 360 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 3.300, semestrale L. 1.700 - Estero annuale L. 4.000, semestrale L. 2.200 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via dei Mille 47, Napoli Bibliotecaginobianco

SOMMARIO Vittorio de Caprariis J ean Meynaud e Claudio Risé Editoriale [3] Difesa dell'Europa ed europeismo [7] Il movimento sindacale in Italia e in Francia [24] Note della Redazione Il« New York Times » in Italia - Lo smantellamento delle Alpi - Il magistrato e la « gioventù guerriera » [ 44] Giornale a più voci Antonio Ghirelli Il «vuoto» [51] Paolo Conca Napoli tra due censimenti [59] Sergio Antonucci Domande d'assunzione a Genova [67] Argomenti Giovanni Satta ~<Piano» e « rinascita» in Sardegna [76] Paolo Foglia La «cittadella rossa» e l'apertura a sinistra [88] Saggi Nello Ajello Dalla terza pagina al supplemento letterario [101] BibliotecaGino Bianco Cronaca Librariaa cura di Giuseppe Recuperati e Domenico De Masi [124]

Editoriale Abbiamo visto e ascoltato alla televisione la cronaca della cerimonia conclusiva del Premio Viareggio; e mentre parlavano Ragghianti e Valiani - l'uno vincitore del premio per la saggistica, l'altro membro della giuria chiamato dal telecronista a dire dei titoli di Ragghianti come uomo di cultura e come uomo d'azione, protagonista della Resistenza - mentre parlavano questi due nostri amici e maestri, ci veniva di pensare a ciò che di Croce ha scritto recentemente il Garin, ritornando insistentemente su un vecchio motivo della polemica anticrociana, a suo tempo agitato dai comunisti: il motivo di Croce « operoso reazionario » che distoglieva i giovani dall'impegno morale e politico nei confronti della realtà attuale e circostante, per dirottarli verso ricerche più o meno filologiche ed erudite, di storia locale o di poesia e non poesia. Ecco il giudizio severo che, a proposito di Croce, fin dalle prime pagine viene incontro ai lettori di un recente libro del Garin, edito da Laterza: « converrebbe dire che tutta la concezione e l'opera di Croce, tutto l'idealismo che è stato l'aspetto più degno della cultura italiana del '900 ha lavorato al distacco dell'intellettuale, portandolo al di là della vita reale, al di là delle tecniche e delle scienze, fuori della politica militante, spezzando i suoi legami più corposi con la terra, con la classe, per lasciarlo poi disorientato, oscillante, incerto, quando la realtà gli si presentava davanti brutale, imponendogli scelte decisive » ( pp. 20-21). La tendenziosità di questo giudizio risulta evidente quando si pensa a quanto poco fossero « disorientati, oscillanti, incerti», davanti alla « brutale» realtà della lotta per la Resistenza, uomini come Ragghianti, che con Croce, appunto, avevano avuto fitto commercio di idee (Ragghianti aveva visto pubblicata sulla « Critica » la sua tesi di laurea) e che furono in prima linea nelle lotte armate e in quella politica: tutt'altro che « al di là della vita reale». E altri esempi si potrebbero fare, da Omodeo, che fu volontario nella guerra di Liberazione e in prima linea nella battaglia politica per la Repubblica, fino a tutti quegli scrittori e giornalisti che, se da qualcosa si sono distaccati, non è della « politica militante», ma dal modo con cui si pretendeva che facessero 3 BibliotecaGino Bianco

Editoriale allora il proprio mestiere, e che, quarido si imposero « scelte decisive », grazie al Croce che avevano letto, alla « concezione » e all'« opera» di Croce che li aveva illuminati, seppero scegliere risolutamente e impe- . gnarsi nella « politica militante » con esemplare coerenza. Più difficile, invece, ci sembra fare qualche esempio di intellettuali che da Croce furono dirottati verso un'attività di studio priva dì ragioni ancorate a un impulso di ordine morale. E se ve ne furono, si è trattato evidentemente non di colpe da addebitare alla lezione di Croce, ma di limitazioni da addebitare al loro proprio temperamento. Ma, si dice pure, tutto questo, la coerenza nelle « scelte decisive » e l'impegno nella « politica militante », fit reso possibile perché quegli uomini che seppero « scegliere » e « impegnarsi » si erano appunto « liberati» di Croce. Così, nella prefazione a un'altra voliLme edito da Laterza, La generazione degli anni difficili, che raccoglie testimonianze di uomini che avevano 20 anni alla fine della guerra, si legge: « più d'uno degli interve11ti ci testimoniano come il fascino delle letture di Croce portasse direttamente a Marx, se era vero che il compito di un intellettuale moderno era quello di trasformare il niondo, non soltanto di conoscerlo » (come se non si dovessero conoscere prima le cose che si vogliono trasformare). Anche a questa frase, che avevamo letto proprio in quei giorni, ci veniva fatto di pensare mentre ascoltavamo Ragghianti e Valiani alla televisione. Perché essa non può essere certo applicata a due casi, pur così rappresentativi, come quelli di Ragghianti, appunto, e di Valiani: il primo, forte delle sue letture e meditazioni crociane, non è stato « portato direttamente a Marx », e anzi ricordiamo conie una volta ci dicesse, parlando dei marxisti e dei comunisti, che lui si sentiva assai più « moderno » di loro e perciò non avvertiva come altri, più fragili esponenti del mondo culturale italiano, alcun complesso d'inferiorità a dichiararsi liberale e crociano; e quanto a Valiani si può dire, anzi, che pure « il fascino delle letture di Croce » lo abbia portato a rivedere il suo marxismo giovanile, lo abbia portato a impegnarsi in una revisione liberale del socialismo i cui frutti, ùi sede culturale, non siamo certo i soli ad avere apprezzato (e ci sembra di ricordare che, del « fascino » esercitato su Valiani dalle « letture di Croce >>, e di come questo « fascino » abbia in-fluito su di lui in un modo certo diverso da quello che si legge come una regola generale per « la generazione degli anni difficili » nella pref azione che si è citata, abbia parlato Valiani stesso in una pagina del suo libro sulla Resistenza, Tutte le strade conducono a Roma). Ma Ragghianti e V aliani sono eccezioni, si dirà. A parte il fatto che non lo sono - sia per la loro rappresentatività còme uomini di azione 4 Bibliotecaginobianco

\ Editoriale e di cultura, sia perché non costituiscono casi isolati, e altri nomi co11 i loro si potrebbero fare, di crociani che non sono passati direttamente a Marx e che tuttavia non sono rimasti spettatori inerti delle vicende, rifugiandosi in ricerche erudite - qui non si fa questione di regole e di eccezioni, ma si vuole semplicemente avanzare il dubbio che certe interpretazioni che stanno diventando correnti, di moda, risentano di pregiudizi polemici e possono generare equivoci dannosi o per lo meno spiacevoli. E così, a chi volesse osservare che ciò che non risulta del tutto vero per la generazione dei Ragghianti e dei Valiani, risulta vero, però, per la « generazione degli anni difficili», potremmo fare a nostra volta osservare che noi, che alla « generazione degli anni difficili » apparteniamo, non ci riconosciamo, non riconosciamo la nostra esperienza culturale e politica, nello schema di Croce « operoso reazionario » che dirotta i giovani verso le ricerclze erudite, provocandone il distacco dall'impegno civile e politico nei confronti della realtà attuale e circostante; a questo impegno noi ci sia,no dedicati proprio per impulso delle letture crociane e senza avvertire il bisogno di « passare direttamente a Marx» o, peggio, a un'abiura di Croce consumata in nome della sociologia. E potremmo aggiungere pure una considerazione tutta particolare che ci sembra abbia comunque la sua in1portanza quando si considera su quali basi si fonda la condanna di Croce come « chiave di volta » del conservatorismo meridionale. Si è detto che Croce era stato sordo nei confronti della questione meridionale e che i meridionalisti della nostra generazione non potevano appagarsi di Croce perché « chi vuole rinnovare una società sostenendo che il passato era buono è per lo meno ingenuo»; e perciò viva Salvemini e abbasso Croce. Anche noi diciamo « viva Salvemini », ma proprio non ce la sentiamo di condannare Croce perché sosteneva che « il passato era buono ». A parte il fatto che questo è itn modo assai s~mplicistico di riassumere in una formula la Storia d'Italia, ci sembra, oltretutto, che certi studi recenti sulla storia economica italiana, da quelli di Romeo a quelli di Saraceno, abbiano aperto agli interpreti della questione meridionale una prospettiva che conduce a rivedere talune proposizioni della classica letteratura meridionalista, la cui validità era politica, e non storica; e questa nuova prospettiva non è in conflitto con la Storia d'Italia di Croce, aiuta a conoscere il passato, anche il « buono » del passato, per rinnovare il presente. Ci sembra, poi, che proprio nella polemica meridionalista di questi ultimi anni, contro i liberisti alla Corbino e contro i pessimisti alla De Biasi, che affermano non esserci gran che da fare per rinnovare il Mezzogiorno, condannato 5 Bibliotecaginobianco

• Editoriale dalla geografia, due punti di appoggio fondanientali abbiamo avuto: la polemica di Croce con Einaudi, a proposito di liberalismo e di liberismo_, _equell1 con Fortunato, a proposito della « storiografia degli agronomi »~ del clima e del suolo che precluderebbero a questo o a quel paese, e in particolare al nostro Mezzogiorn.o, le soluzioni di sviluppo civile ed economico che altri paesi si sono date. Infine, - inattendibile da un punto di vista storico, - la valutazione dell'opera e del pensiero crociani come responsabili di un assopimento dell'energia civile e della fede politica suscettibili di riscuotere l'interesse e la passione delle giovani generazioni durante il ventennio fascista, questa valutazione ha portato anche ad un risultato assolutamente negativo da altri punti di vista. È accaduto, infatti, che una tale valutazione si sia tradotta, in linea di massima, soltanto in una ripulsa di principio di Croce e della sua vasta opera di filosofo e di studioso di molti campi del sapere; che essa sia valsa anche ad ammantare di un pretesto di polemica culturale la ripetizione stantia di vecchi e nuovi indirizzi di studio e a coprire, col favore che sempre riscuotono le mode, del pretesto di una «sprovincializzazione» un'autentica velleità di smantellamento di una delle più serie correnti di studio che f assero fiorite in Italia da molto tempo a questa parte; e che in essa si sia addirittura espresso tanto lo sforzo di riqualificazione di molti vecchi ambienti fascisti o parafascisti di scuola gentiliana quanto lo sforzo comunista di egemonizzare la cultura laica italiana. Di conseguenza, le ripulse,--le accuse, le condanne sommarie sono state numerosissime; ma gli studi veri, le contestazioni puntuali, le disamine critiche sono state invece oltremodo rare e dovute, assai spesso, ... agli stessi crociani. Oggi, pertanto, l'erzorme patrimonio di idee, di tecniche e di giudizi lasciato da Croce è sostanzialmente ancora intatto. Qua e là ne è stata tagliata qualche fronda; ma l'albero vigoreggia ancora vegeto e robusto. Del che - concludiamo - proprio noi, che di quanto sia preziosa l'eredità crociana siamo i più convinti, proprio noi ci doliamo per primi: perché sappiamo che la fecondità di un insegnamento e di una tradizione di cultura emerge appun"to dal continuo reinserimento di essi nella discussione; e perché sappiamo che Croce non offrì mai i risultati dei suoi studi come apodittiche verità di un qualsiasi dio ( la rivelazione, la storia ...), ma sempre e soltanto come strumento di lavoro per coloro che portano nelle cose della cultura un impegno non smentito e scevro di ogni non limpido interesse. 6 Bibliotecaginobianco

'- Difesa dell'Europa ed • europeismo di Vittorio de Caprariis Negli ultimi due anni il Mercato Comune l1a dimostrato di avere una vitalità sorprendente: si sono guadagnati due anni sulla tabella di marcia prevista dal Trattato di Roma per la riduzione delle tariffe doganali; si è avviata una politica agricola comune dei sei paesi aderenti; si sono posti allo studio i principali problemi economici e sociali che la Comunità dovrà affrontare nei prossirni dieci anni. Tuttavia, questo slancio costruttivo, che ha sorpreso gli americani, che ha costretto gli inglesi a cercare una forma di adattamento alla nuova realtà economica europea e che, a leggere i corrispondenti da Bruxelles, esalta e riempie d'orgoglio, i « tecnocrati » del MEC, questo slancio costruttivo non deve trarre in inganno. Mai, forse, l'europeismo, ossia il disegno di costruzione di una struttura federale europea è stato così lontano dalla sua meta come lo è oggi. Questo è un dato di fatto di cui occorre prendere coscienza virilmente, non solo per evitare di cadere nelle trappole della « confederazione » o dell' « Europa delle patrie », ma anche per i11tendere le ragioni vere di questa perdita di velocità dell'Europa politica, che si verifica nel momento stesso in cui l'Europa economica accelera la sua corsa. Ed è appena necessario aggiungere che comprendere le ragioni di tale fenomeno è indispensabile per prendere le misure più adatte a sbloccare la situazione ed a togliere di mezzo gli ostacoli, per fare sì, insomma, che il treno europeo possa riprendere la sua marcia. D11e,anni fa, nel numero dedicato ai problemi europei che Nord e Sud pubblicò per onorare la memoria del nostro indimenticabile amico Renato Giordano, stampammo un articolo molto acuto di Liithy sui limiti delle agenzie specializzate europee. La valutazione fondamentale di Liithy resta esatta ancora oggi: le istituzioni economiche comuni, malgrado la loro formidabile vitalità e l'enorme potenziale di espansione che recano in sé, non bastano da sole a creare la struttura federale europea. L'Europa politica non è, e non può essere, alla fine di una sempre più spinta integra·zione economica: il passaggio da questa all'integrazione politica esige un salto qualitativo, o, se si preferisce, un rivoluzionamento politico. Questo semplice ragionamento basta a far prendere coscienza del dato elementare che gli ostacoli che si frappon7 Bibli~tecaginobianco

• Vittorio de Caprariis gono oggi all'integrazione europea sono ostacoli di natura squisitamente politica. E su questo punto le valutazioni di Ltithy di due anni or son~, .che parevano allora inoppugnabili, non sembrano più valide oggi: ciò che ostacola l'unificazione politica dell'Europa non è soltanto il vecchio grumo di nazionalismi che ancora alligna sul suolo europeo. Pure mi sembra che, quando si sia riconosciuto questo fatto, non si sia percorsa ancora tutta la strada necessaria, o per lo meno che non la si sia percorsa nella direzione giusta. Ed invece la cosa più importante è proprio che le nostre analisi siano svolte nella direzione giusta. Vi sono molti europeisti, in Italia ed in Europa, ad esempio, i quali sono convinti che il responsabile principale dell'attuale battuta d'arresto del processo di integrazione politica dell'Europa sia il generale De Gaulle, il quale si diletterebbe di inseguire le farfalle della grandeur, trascurando la sola politica realistica che il suo paese ed i suoi partners europei possono fare. E vi sono altri europeisti i quali son persuasi che il cancelliere Adennuer divida equamente con De Gaulle questa responsabilità: il suo improvviso intiepidimento per la causa dell'europeismo e la sua corrività a fare sua propria la politica estera gollista avrebbero fatto risorgere lo spettro della cosiddetta « Europa caroli11gia » ( e la grande parata militare franco-tedesca di qualche mese fa è potuta apparire una prefigurazione di un'Europa cosiffatta), ed avrebbero prodotto il panico in tutti. Certamente, in questi e negli altri simili rilievi che pur si potrebbero fare, v'è qualche parte di vero: ma, in generale, il far risalire a questo o a quell'uomo di stato responsabilità così enormi e gravi (ed anche, giova aggiungerlo), affatto sproporzionate al loro concreto potere di decisione) è un'esercitazione demonologica, è un modo di cedere alla troppo umana tentazione di trovare dei « capri espiatorii » eludendo l'impegno di un più meditato ripensamento cli quello che sta veramente accadendo, anche per evitare la cattiva coscienza per quanto di sbagliato si è fatto in passato. In verità, quello che si sta verificando in Europa è un processo politico troppo complesso, perché ci si possa appagare di spiegazioni semplicistiche come quelle suggerite dalla demonologia. Abbiamo visto, ad esempio, uomini come De Gaulle, i quali erano notoriamente avversi ad ogni forma di integrazione, farsi difensori accaniti del MEC ed ostacolare in ogni modo i tentativi inglesi di entrare a fame parte; e, per converso, abbiamo visto molti di quelli i quali fino ad ieri erano preoccupati dell'adesione inglese al Mercato Comune perché temevano che l'Inghilterra potesse rallentare il ritina dell'integrazione economica e chiudere ogni prospettiva di integrazio,ne politica, farsi promotori intrepidi e risentiti di quell'adesione. Gli Stati Uniti, che erano stati tra i sostenitori più fermi di ogni farina di politica europeistica e che da 8 Bibliotecaginobianco

Difesa dell'Europa ed europeismo ultimo avevano quasi forzato la Gran Bretagna ad aderire al MEC, sono diventati sospettosi e perplessi; e, insieme, alcuni degli europeisti più sicuri, che avevano mai interpretato la politica europeistica come alternativa a quella atlantica, cominciano· adesso a ragionare in termini di « terza forza» europea e chiedono, sia pure in modo indiretto, addirittura la dissoluzione dell'alleanza atlantica. Si tratta, come si vede, di cambiamenti radicali di posizioni non soltanto di questa o quella comunità nazionale, ma anche di gruppi di uomini che, almeno fino ad ieri, erano su posizioni comuni malgrado la loro diversa nazionalità. Come, dunque, ci si può accontentare di spiegazioni troppo semplici? La verità è che le cause della battuta d'ar-, resto della costruzione europeistica di cui tutti veniamo prendendo coscienza, sono assai più vaste dei mutamenti della politica francese o tedesca; e che questi mutamenti sono, a loro volta, effetto di una causa più ampia: della grande crisi che investe tutta la politica atlantica. Le difficoltà dell'europeismo sono conseguenza delle difficoltà della politica occidentale in Europa. In una recentissima serie di articoli sui problemi europei, Walter Lippmann ha scritto, con l'acume consueto, che il vero punto nevralgico dell~ questione era « una rivolta contro il monopolio america1io della armi nucleari ». Questa rivolta è guidata dalla Francia di De Gaulle, e non si può escludere, data la personalità e l'ideologia del Presidente della Repubblica francese, che ad ispirarla abbiano contribuito considerazioni di fierezza nazionale e di prestigio. Ma sarebbe semplicistico ridurre tutta la questione alle ambizioni del generale-presidente, ai suoi sogni di grandezza e di supremazia per la Francia. Come abbiamo già detto, la crisi è più vasta; ed i11volgeproblemi assai più importanti della supremazia francese sul vecchio continente. O vogliamo attribuire le dimissioni del generale Norstad ed il richiamo da Parigi dell'ambasciatore statunitense Gavin al fatto che entrambi questi uomini si siano lasciati attrarre dalle alcinesche seduzioni di De Gaulle? La rivolta contro il monopolio nucleare americano è suggerita innanzi tutto dal mutamento dei rapporti di forza tra le due super-potenze mondiali intervenuto negli ultimi anni. La polit.ica di integrazione europea, sarebbe ingenuo non riconoscerlo, poteva tentare le sue strade perché il problema della difesa dell'Europa occidentale da eventuali attacchi russi era stato già risolto CQn l'alleanza ·a antica~ Tra il 1949 ed il 1955 il monopolio atomico -- --~_... . .... _ .. ..,,. ,,..:...., americano prima e poi· la virtuale invulnerabilità americana da ogni attacco nucleare garantivano, per così dire, la credibilità dell'impegno atomico statunitense a favore dell'Europa. La pellicola di divisioni della Nato era più che altro un simbolo: perché Mosca sapeva benis9 Bibl,iotecaginobianco (.

• Vittorio de Caprariis simo che, se avesse tentato di alterare lo statu quo europeo, si sarebbe esposta alla minaccia nucleare americana senza poter opporre a questa nessuna verosimile rappresaglia. Dunque, ciò che rassicurava gli europei · che l'intervento degli Stati Uniti vi sarebbe stato realmente no-n era già l'articolo del Patto Atlantico, che prevedeva esplicitamente questo intervento in caso di attacco russo all'Europa; e neppure la fiducia nelle buone intenzioni dei dirigenti statunitensi; ma proprio il fatto che gli Stati Uniti erano al sicuro da ogni rappresaglia. La cosa può sembrare paradossale o cinica; ma gli uomini di stato, in materia di sopravvivenza de loro paese, hanno il dovere del realismo politico. Dal 1956 ad oggi il rapporto di forza tra Unione Sovietica e Stati Uniti si è sensibilmente alterato, se non nel senso che l'Unione Sovietica è diventata più forte o altrettanto forte che gli Stati Uniti, certamente nel senso che questi non sono più al sicuro da una rappresaglia nucleare. Questo semplice fatto è bastato a riporre in discussione, non solo in sede di comando dell'Alleanza Atlantica, ma anche a Washington e nelle principali cancellerie europee, il problema strategico della difesa dell'Europa; e in conseguenza a Parigi ed a Bonn si è cominciata a misurare la stessa politica europeistica sull'esigenza della difesa europea. Si può ritenere giusta ò sbagliata la congiunzione dei due problemi; ma non si può 7 ( certo negare che essa ha avuto luogo e che proprio da essa derivano .. le principali difficoltà dell'integrazipne politiça; come non si può negare che le ragioni che hanno indotto gli uomini di stato francesi e tedeschi ad agire a questo modo siano tutt'altro che prive di fondamento .Quello che ossessiona i circoli dirigenti francesi e tedeschi è, ormai, l'incertezza, la scarsa credibilità dell'intervento atomico americano a difesa dell'Europa. Il ragionamento di questi ambienti è di una semplicità elementare: quando il Presidente degli Stati Uniti, che teneva il dito sul grilletto della rappresaglia nucleare, era sicuro che il suo paese sarebbe uscito indenne dalla guerra atomica, si poteva essere verosimilmente certi che in caso di necessità avrebbe premuto quel grilletto. Ma adesso che il Presidente degli Stati Uniti sa che la minaccia della rappresaglia nucleare grava anche sul suo paese, e che diecine di milioni di suoi concittadini possono essere sterminati, non v'è più nessuna garanzia che egli prema il suo dito sul famoso grilletto. Come potrebbe egli non chiedersi se la difesa di Berlino-Ovest o della stessa Germania occidentale vale la distruzione di New York, di Detroit o di Los Angeles? Come porebbe non chiedersi fino a cl1e punto l'interesse nazionale, il self-interest degli Stati Uniti coincide con quello della difesa dell'Europa? D'altro canto, si aggiunge, gli europei, francesi o t~deschi o italiani o belgi che siano, non possono ammettere ·che una decisione d'importanza 10 Bibliotecaginobianco

·- Difesa dell'Europa ed europeismo ' vitale per essi, una decisione dalla quale dipende la loro sopravvivenza come società libere, sia presa da uno straniero e misurata sull'interesse nazionale di un altro paese. . Di qui appunto la decisione di De Gaulle di costituire una « farce de frappe », una capacità di attacco atomico francese, sganciata dalla · decisione americana. Il ragionamento che i circoli dirigenti di Washington hanno opposto alla decisione francese (la considerazione, cioè, che la Françia non può minimamente costituire una forza di rappresaglia nucleare capace di sopravvivere al primo attacco dell'avversario, e dunque capace di apparire veramente una forza di rappresaglia e di rappresentare un deterrente reale che scoraggia in partenza l'aggressione), questo ragionamento è perfettamente fondato; ma non è sufficiente ad eliminare il timore che ha suggerito a Parigi la decisione che si è detta, il timore di essere abbandonati dagli Stati Uniti ad ·un attacco sovietico. De çiaulle ed i suoi consiglieri sanno perfettamente che l'economia francese non può sopportare lo sforzo che da qui11dici anni sta sopportando l'economia americana; ma il loro calcolo politico non prevede affatto uno sforzo del genere. Ad essi basta avere il potere autonomo di decisione: in caso di aggressione sovietica all'Europa, se gli americani mostrassero l'intenzione di non intervenire con le armi nucleari, sarebbe sufficiente la decisione francese di un simile intervento per costringere, di fatto, gli Stati Uniti a fare altrettanto. Kennedy ha detto molto giustamente che ' « le forze nucleari operanti indipendentemente sono, pericolose, costose, facili a diventare antiquate e senza efficacia come deterrente »: ma la:· verità è che Parigi vuole non già un deterrente suo proprio, ma un meccanismo politico-militare che costringa il deterrente americano ad en-, trare in azione. E dal n1omento che Washington non ha concesso l'armamento atomico della Nato o, per dir meglio, non ha concesso il trasferimento del potere di decisione sull'impiego delle armi nucleari dalla Casa Bianca al comando della Nato, i circoli dirige11ti di Parigi hanno cominciato a costruire in proprio quel meccanismo politico-militare che si è detto. ~e\ haono_ fatt. ':alere le loro ragioni a Bonn, che è sulla prima linea di un eventuale attacco· ·sovfetièo ecr è perciò particolarmente sensibile ai proplemi della difesa europea: costituita, così, una linea politica comune francese-tedesca (sia pure con i tentennamenti e le incertezze di cui hanno dato ampia prova nell'ultimo anno i dirigenti della Repubblica Federale Tedesca), i francesi hanno fatto il volto delle ; armi all'Inghilterra, che ·chiedeva di entrare nel MEC e che avrebbe potuto contestare alla Francia il leadership del club europeo, ed hanno rilanciato, a loro modo, il problema di una direzione politica integrata dell'Europa occidentale. Il disegno di Parigi è di una chiarezza carte11 Bibl_iotecagihobianco

• Vittorio de Caprariis siana: e la sola incongruenza è che De Gaulle non si sia fatto addirittura sostenitore di istituzioni fec;Ierali europee, per sfruttare a vantaggio del suo piano il patrimonio europeistico accumulatosi in tutti questi. anni. Qui evidentemente le radicate convinzioni dell'uomo si sono mo- .. strate più forti di ogni realismo politico. Questa incongruenza appare in tutta la sua gravità quando si rifletta che lo stesso ragionamento che i dirigenti francesi fanno nei confronti degli Stati Uniti, vale per la Francia stessa da parte di tutti i suoi partners europei. In effetti, appare più che legittima la domanda su ciò che potrebbe indurre la Francia ad utilizzare il meccanismo politico-militare che renderebbe necessario l'intervento americano. Le frontiere della Francia sono sul Reno, o sull'Elba, e a Berlino e nell'Adriatico, e dovunque possa verificarsi un attacco sovietico? La risposta è evidentemente assai dubbia: noi sappiamo, ad esempio, che gli americani, sia pure al tempo del loro monopolio atomico, non esitaro,no a difendere Berlino. Chi e che cosa garantisce che i francesi farebbero altrettanto domani? Se Parigi avesse proposto delle istituzioni politiche federali, e dunque un governo europeo, non vi potrebbero essere perplessità sulla risposta a questa domanda; ma allo stato dei fatti ogni dubbio sembra legittimo. Forse Parigi ha preso impegni espliciti e formali con Bonn nel se11so di considerare alla stregua di un attacco al suo territorio ogni aggressione al territorio della Repubblica Federale Tedesca. Ma, anche ammesso ciò, non si vede perché, innanzi ad un disegno ispirato al più asciutto realismo politico ed alla volontà di potenza, l'Italia o il Belgio o l'Olanda dovrebbero scommettere sull'intelligenza politica di Parigi più volentieri e con più sicurezza di quanto non scommettano oggi sull'intelligenza politica di Washington. Ad essere rigorosi, dunque, anche l'Italia e il Belgio e l'Olanda e il J-Jussemburgo (per limitarci ai paesi del MEC) dovrebbero costituire in proprio un meccanismo politico-militare del tipo di quello che la Francia ha costruito o sta costruendo, per essere veramente certi che la decisione suprema si prenda non a Parigi, ma a Ro111a, a Bruxelles, all'Aia e a Lussemburgo. Questa deduzione logica dalla premessa del ragioname11to francese mostra due cose: innanzi tutto che Parigi 110n può pretendere la solidarietà politica dei suoi partners europei quando offre ad essi meno potenza degli Stati Uniti e nessuna garanzia supplementare (ed è evidente che in questo caso la sola garanzia seria sarebbe quella di una struttura federale europea). E in secondo luogo che, portato all'estremo, il ragionamento di Parigi diventa assurdo: il pericolo politico (per non parlare della sperpero economico) che deriverebbe dall'esistenza in Europa di tanti deterrenti in miniatura, ognuno e tutti assieme 'incapaci di ferire mortalmente 12 Bibliotecaginobianco

Difesa dell'Europa ed europeis1no l'Unione Sovietica, ma ognuno e tutti assieme capaci di aumentare l'instabilità politica, questo pericolo è troppo evidente perché vi sia bisogno di illustrarlo ancora una volta in questa sede. Da ultimo, non si può fare a meno di rilevare che da un punto· di vista militare la soluzione gollista non sembra fornire neppure essa una garanzia di sicurezza assoluta, o, per dir meglio, è anch'essa fondata su una scommessa sull'intelligenza politica di Washington. È più che legittimo chiedersi, infatti, perché quei medesimi dirigenti americani che esiterebbero ad intervenire in caso di attacco russo all'Europa, dovrebbero, poi, mettere da parte ogni esitazione, quando la Francia avesse impiegato la sua famosa « farce de frappe ». Se il ragionamento strategico americano è fondato sull'assunzione che la perdita dell'Europa occidentale è un colpo decisivo all'equilibrio di potenza nel mondo, e quindi minaccia in mo1do vitale la posizione degli Stati Uniti, Washington interverrà fin dal principio; se, invece, quest'assunzione non vi fosse, non si vede perché Washington dovrebbe intervenire dopo. Per ragioni umanitarie? Per solidarietà democratica? Ma questi sono motivi che valgono anche prima dell'intervento della « force de frappe » francese: e se i dirigenti americani non ne avessero tenuto conto prima di tale intervento, non si vede perché dovrebbero tenerne conto dopo. Anzi l'ostinazione della Francia a far da sola, a crearsi una posizione che le consenta di forzare la decisione americana, potrebbe avere come risultato di rafforzare proprio le posizioni di quei gruppi che, negli · Stati Uniti, hanno sostenuto ed ancora sostengono la tesi che l'impegno americano in Europa è sproporzionato al valore strategico e politico _del vecchio continente, o degli altri gruppi che hanno sostenuto e. sostengono la necessità di un accordo diretto russo-americano: potrebbe, insomma, creare, negli Stati Uniti, un'atmosfera politica e psicologica di disinteresse verso l'Europa, di disimpegno dagli affari europei. E non abbiamo certo bisogno di sottolineare qui come un simile mutamento nell'atteggiamento americano sarebbe disastroso per noi: in questo caso veramente l'Europa diverrebbe vulnerabilissima e le mancherebbe ogni potere di reazione consistente. Dal punto di vista politico, poi, il tipo di costruzione euro·peistica che De Gaulle vorrebbe condurre a termine suscita le maggiori perplessità e i più gravi dubbi. Lippmann ha scritto che a suo giudizio « l'idea di un'Europa franco-tedesca dominata dalla Francia è un'illusione ottica, che sparirà coi due venerabili personaggi che le hanno dato vita », perché essa è contraria agli « interessi vitali, politici, economici e militari della Repubblica Federale Tedesca »: questi interessi, infatti, sarebbero legati « all'esistenza di una larghissima associazione, 13 ' Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis di cui le nazioni atlantiche dovrebbero essere il nocciolo». Francamente, l non ci sembra che gli argomenti addotti a dimostrazione del giudizio_ · fondo siano validi. Il disegno dell'Europa franco-tedesca, dominata alla Francia, non esclude affatto quella più ampia associazione a cui, secondo Lippmann, sarebbero legati gli interessi vitali della Germania occidentale. Il cuore della questione è un altro: ed è che quell'alleanza franco-tedesca contiene in sé delle forze di contraddizione che rischiano di dislocarla. Perché da una parte v'è l'interesse tedesco alla riunificazione nazionale, che potrebbe essere perseguita o almeno tentata co1 n una politica pendolare tra occidente ed oriente della Repubblica Federale, in una sit1.1azione internazionale di minore tensione e di maggiore fluidità di quella presente; dall'altra parte v'è il fatto che l'alleanza viene imposta ad un'opinione pubblica Ghe, così in Francia come in Germania~ è già adesso riluttante: in Germania perché i socialdemocratici non sono convinti di un simile europeismo e i liberali vagheggiano una politica più duttile verso la Russia; in Francia perché il gruppo degli europeisti più determinati avversa anch'esso questa politica e può fare leva sul risentimento anti-tedesco, che è ancora oggi tutt'altro che spento, oltre che sul pericolo che la Francia si trovi invischiata nella trama delle rivendicazioni nazionali tedesche (e se veramente si e11trasse in una fase di relazioni con la Russia più fluide e meno tese, si può agevolmente prevedere che queste forze di contraddizione si accentueranno). Finalmente, l'Europa non si può fare senza gli europei: e l'avversione dell'Italia, del Belgio, dell'Olanda e di forti gruppi francesi e tedeschi al diseg110 gollista è molto forte. Sul piano strategico, l'abbiamo già detto, gli altri paesi del MEC potrebbero muovere alla Francia le stesse obiezioni che questa muove agli Stati Uniti. Sul piano politico, le obiezioni sono ancora più gravi e forti: gli europeisti sono disposti a sacrificare molte cose alla costruzione di strutture federali europee, perché pensano che queste strutture sono la risposta più adatta alla sfida dei grandi problemi politici della seconda metà del secolo vente~imo e che solo un tetto politico potrà portare a quell'integrazione economica totale che consentirà all'Europa occidentale di conservare ed anzi di aumentare l'attuale ritmo di sviluppo; e perché sono convinti che un'Europa unita può colmare un grave vuoto politico ed esercitare un'importante funzione nei confronti del « terzo mondo ». Ma il disegno gollista non assicura nessuno di questi obiettivi e fa correre all'Europa il rischio di un radicale mutamento della politica americana: sarebbe, quindi, veramente assurdo che gli europeisti l'accettassero. Questo più. piacere o non piacere a Parigi, ma è un dato di fatto: e le classi dirigenti' francesi saranno presto o tardi 14 Bibliotecaginobianco

) Difesa dell'Europa ed europeismo costrette a tenerne conto (sempre che è appena necessario aggiungerlo, gli altri governi europei facciano il loro dovere e non si lascino for:- zare la mano dalla tenace volontà di De Gaulle). Tra l'isolameJ?-tOi della Francia in Europa e l'isolamento dell'Europa dagli Stati Uniti! è ovyio che gli italiani, i belgi, gli olandesi e gli stessi tedeschi no°i possono esitare un istante nella scelta: ed anche i francesi, del resto; non potrebbero, neppure essi, permettersi il lusso di un'esitazione·, quando i nodi venissero al pettine. Questa analisi critica del disegno strategico e politico francese, per esatta che sia, resta incompleta e non è sufficiente, pertanto, a suggerire un'alternativa se non si illustra brevemente la posizione americana sui problemi della difesa dell'Europa. Anche a Washington il mutamento, che si è detto, del rapporto di forza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ossia la fine dell'invulnerabilità del continente americano, ha imposto un riesame della strategia globale e di quella europea in particolare. E l'idea fondamentale che sta alla base di tale riesame è questa: dal momento che la guerra nucleare rischierebbe di risolversi in un olocausto quasi totale della specie umana e dal momento che l'ampliamento del « club nucleare » accresce, invece, di diminuire i rischi di una guerra tanto distruttiva, bisogna congelare la situazione attuale, rendere unico il luogo della decisione estrema ed evitare che aumenti ulteriormente il numero delle potenze fornite di armi atomiche. Si disse a suo tempo che, nell'incontro al vertice di Vienna dello scorso anno Kennedy e Krusciov si trovassero d'accordo su queste valutazio11i e si impegnassero a tener fuori del « club nucleare » l'Europa e la Cina. Vero o no che sia ciò, è certo che l'amministrazione democratica, dopo lungl1i dibattiti, ha rifiutato di modi-. ficare il principio della legge Mac Mahon sulla comunicazione dei· segreti nucleari alle potenze alleate degli Stati Uniti, ed ha ribadito il principio che la responsabilità della decisione suprema, anche per gli armamenti atomici in dotazione alla Nato, debba restare a Washington. E val la pena di citare in proposito l'esplicito giudizio di Walter Lippmann, che, com'è noto, è ~ssai vicino ai più autorevoli esponenti dell'attuale amministrazione americana: « gli Stati Uniti non possono accettare e non accetteranno mai l'enorme fardello della sicurezza collettiva, se perdono l'iniziativa in seno ali' Alleanza Atlantica e la responsabilità di decidere, in ultima istanza, dei problemi della pace e della guerra ». Da questa premessa generale gli ambienti dirigenti di Washington hanno dedotto due conseguenze strategiche, che, entrambe, furono illustrate il 16 giugno di quest'anno in un importante discorso tenuto 15 BibHotecaginobianco

• Vittorio de Caprariis ad Ann Arbor dal segretario americano alla difesa, Mc Namara. La prima era che la prospettiva dell'olocausto nu'.c°Ie~a~r~e:--"r~su""1t"'g~e""''fliil'i-,i ai.sostituire alla famosa strategia del deterrente la strategia della « contro~ forza». Questa, in verità, non era che un approfondimento del concetto .che i teorici della guerra nucleare avevano già formulato da qualche ; tempo: che, cioè, il problema decisivo dell'apparato nucleare di una 1 potenza decisa a non sferrare il primo colpo era quello di conservare t anco·ra tanta forza residua, dopo il tentativo nemico di distruggere le sue basi atomiche, da scoraggiare anche quel primo attacco. Qùesto , concetto è stato riformulato adesso in modo· più completo: la forza residua al primo attacco dovrebbe essere capace di distruggere, a sua volta, le basi nemiche, e non soltanto, o 110n tanto, di costituire una poderosa arma di rappresaglia; e soprattutto la complessiva potenza nucleare occidentale dovrebbe essere distribuita in modo che la capacità di attacco dell'aggressore funzionasse, a sua volta, come forza e non . come deterrente, dovrebbe essere, cioè, distribuita in modo tale che il primo colpo vibrato dagli avversari, e mirante a distruggere le basi occidentali, non infliggesse anche gravissime perdite umane. Purtroppo, la strategia della « controforza » è destinata a restare un proposito, non solo perché esige una costosissima redislocazione di tutte le basi 'di armamento nucleare dell'Occidente, ma anche perché è fo,ndata sul presupposto di una direzione unica di tutta la capacità nucleare dell'Occidente medesimo. Inglesi e francesi, insomma, dovrebbero accettare la direzione suprema degli Stati Ur1iti pei loro propri armamenti atomici, fissarne le basi secondo le direttive americane e stabilirne gli obiettivi secondo le stesse direttive. Ma Londra e Parigi non hanno esitato un istante a respingere ogni idea di controllo totale americano sui loro armamenti nucleari. E se la prontezza di questo rifiuto da parte dei francesi non ha stupito affatto, l'analogo rifiuto inglese ha prodotto non poca meraviglia. Lippmann, negli articoli che si sono ricordati, aveva affermato che gli inglesi stavano prendendo coscienza del fatto che la loro forza nucleare si avviava ad essere superata: « i britannici si sono ·già ritirati dalla gara missilistica a causa del suo costo veramente proibitivo, e san110 che quando anche i bombardieri saranno superati, cioè prima che siano trascorsi dieci anni, la Gran Bretagna avrà cessato di essere una potenza 11ucleare ». Queste parole volevano essere, nell'economia del discorso del grande giornalista americano, un ammonimento ai francesi; ma è evidente che quella coscienza di cui parlava Lippmann non è ancora matura: gli inglesi vogliono restare padroni delle loro armi atomiche per i pochi anni in cui queste avranno ancora qualche 'valore! Forse gli americani non 16 Bibliotecaginobianco

') Difesa dell'Europa ed europeismo prevedevano un così asciutto rifiuto della Gran Bretagna; e probabilmente la strategia della « controforza » era, per essi, anche un modo di tornare a quel controllo an1ericano di tutte le armi nucleari dell'Occidente che era suggerito dall'idea fondamentale della loro revisione strategica, di cui s'è già detto. È certo, tuttavia, che il rifiuto inglese ha riportato in alto mare l'intera questione, e costringe Washington a cercare altri modi di giungere ad una soluzione del problema de] controllo unificato sugli apparati nucleari dell'Occidente. Il secondo assunto fondamentale della nuova strategia americana riguarda più direttamente l'Europa, e resta valido anche se la strategia della « controforza » non l1a, come s'è visto, nessuna possibilità di attuazione pratica. L'ipotesi dell'olocausto nucleare ha indotto, i teorici militari americani a ritenere estre1namente improbabile che una delle due super-potenze scateni una guerra atomica, ed a considerare, perciò, come più verosimile la prospettiva che i futuri conflitti saranno combattuti con armi convenzionali. John Strachey, che è ministro della difesa nel cosiddetto « gabinetto-ombra » ritannico, ha, di -recente, ricordato che le guerre che si sono fatte negli ultimi quindici anni sono state combattute tutte con armi convenzionali, e che nulla induce a pensare che quello che è stato vero in passato, quando la distruttività delle armi nucleari era assai minore di quella attuale, non debba essere vero anche in avvenire. Ed ha aggiunto che l'Europa, che vanta il massi.mo di concentrazione della popolazione e della ricchezza industriale, dovrebbe prepararsi appunto ad una guerra di tipo convenzionale. Come si vede, sono osservazioni ragionevoli, che forniscono argomenti al concetto degli strateghi del Pentagono. E se è vero che il J)roblema di una guerra condotta solo con le armi convenzionali è reso più complicato dall'esistenza delle armi atomiche tattiche, la cui potenza di distruzione è conosciuta solo per via deduttiva, e la cui pratica utilità in un conflitto è affatto ignota perché quelle armi non sono n1ai state sperimentate, è vero anche che questa considerazione non altera molto la linea del nuovo ragionamento strategico americano, la cui conseguenza concreta, com'è facile immaginare, è che dal momento che vi sono fortissime probabilità che un'eventuale guerra in Europa sarà combattuta con le armi convenzionali, è necessario che ci si prepari a combattere proprio questo tipo di guerra. Il che vuol dire che è non solo inutile, ma addirittura dannoso, che l'Inghilterra o la Francia sprechino tempo e soprattutto danaro per costruire un apparato nucleare affatto futile; e che invece i paesi europei dell'Alleanza Atlantica dovrebbero impegnarsi a costituire un forte esercito convenzionale, lasciando agli Stati Uniti il compito di garantire 17 Bibliotecaginobianco

• Vittorio de Caprariis « l'equilibrio del terrore » con le armi nucleari. Una divisione dei compiti, insomma, tra Europa e Stati Uniti nell'interesse comune di evitar_e .gli inutili doppioni e di avere una forza efficiente in entrambi i settori degli armamenti, in quello convenzionale ed in quello nucleare. Una , idea, come ognuno può constatare, di una semplicità cattivante. Questa nuova strategia difensiva per l'Europa, del resto, era già stata formulata da più di un anno dai tecnici militari americani; e non v'è dubbio che essa ha contribuito, con l'apparente corrività di Washington a cercare un accordo con la Russia senza tenere co11to delle esigenze degli europei, ad a-limentare i dubbi e i sospetti francesi e tedeschi, e_d ha, per così dire, aiutato De Gaulle a formulare la sua dottrina della necessità di una « farce de frappe » nazionale. È evidente, 1 infatti, che la nuova dottrina strategica riserba agli europei un ruolo sussidiario nella loro difesa, conservando a Washington il privilegio dell'ultima decisione. Ma onestà vuole che si dica cl1e francesi e tedeschi hanno anche altre ragio11i per opporsi alla nuova strategia difensiva europea, oltre qÙelle, che si sono già illustrate, dei timori dei circoli di Parigi e di Bonn sull'effettiva credibilità di un intervento nucleare americano che scatenerebbe la rappresaglia atomica sugli Stati Uniti. È un fatto che i francesi, liquidata la guerra d'Algeria, non solo desidera~stire più danaro di quanto non ne abbiano investito finora nella costituzione della « force de frappe », ma intendono anche diminuire in assoluto il loro bilancio della difesa. Ed è un fatto che i tedeschi avversano la prospettiva di una guerra combattuta con armi convenzionali non solo percl1é essa si svolgerebbe sul loro territorio nazionale, con le conseguenze che si immaginano facilmente o perché l'ipotesi stessa di una guerra così combattuta indebolirebbe la credibilità del deterrente americano; ma anche perché anch'essi considerano tutt'altro che favorevolmente la prospettiva di ulteriori impegni finanziari per la difesa. È inutile dilungarsi qui sulle considerazioni che si sono fatte sull'impossibilità di difendere l'Europa da un attacco sovietico, con le sole armi convenzionali (le famose duecentocinquanta divisioni russe contro le venticinque della Nato); o sulle obiezioni che sono state mosse a questa teoria (la nuova strategia prevede un rafforzamento dell'esercito della Nato; i russi non potrebbero impegnare più di novanta-cento divisioni sul fronte occidentale; l'esperienza dimostra che la difesa può essere condotta vittoriosamente anche con un rapporto di 1 a 3 o 1 a 4 con l'aggressore); o ancora sulle osservazioni che pure sono state avanzate a proposito di tali obiezioni (non basterebbe un semplice rafforzamento dell'esercito della Nato, ma sarebbe necessario un grosso potenziamento del medesimo; la guerra 18 Bibliotecaginobianco

Difesa dell'Europa ed europeismo eventuale non può essere concepita in termini di mera difesa, e se si vogliono sfruttare i vantaggi di una difesa vittoriosa sono necessarie forti riserve da impiegare nel momento decisivo; la tattica difensiva fu spiegata brillantemente dagli americani in Corea anche con un rapporto di 1 a 6, ma è noto che le divisioni americane avevano un volume di fuoco ed un armamento enormemente superiori a quello delle divisioni nord-coreane o cinesi, e questo non sarebbe certamente il caso delle divisioni russe). A tener dietro a tutti questi argomenti e contro-argomenti la discussione si sposterebbe dal piano politico a quello tecnico ed uscirebbe, perciò, fuori del campo della nostra competenza e fuori anche dello scopo di questo articolo. Il fatto che conta sottolineare è che i francesi e i tedeschi non paiono molto propensi a potenziare l'esercito convenzionale della Nato. Come osservava ironicamente James Reston nel New York Times del luglio, scorso, gli europei vogliono l'uguaglianza con gli Stati Uniti sul piano delle armi nucleari ma non su quello delle armi convenzionali, esigono di dividere con gli Stati Uniti il potere dell'ultima decisione, ma intendono lasciare agli americani la massima parte dell'onere finanziario della guardia! armata sull'Elba. Qui conviene essere chiari all'estremo. Sembra evidente che se la nuova strategia americana per la difesa dell'Europa offre il fianco a delle critiche, altrettante criticl1e, ed anzi anche più gravi, si possono muovere (e le abbiamo viste) alla strategia militare e politica della Francia. Se noi scommettiamo oggi sull'intelligenza politica e sulla risolutezza americane, scommetteremmo domani sull'intelligenza politica e sulla risolutezza francesi, per poi scommettere di nuovo, insieme alla Francia, su quelle americane. La verità è che in siffatte questioni non esiste e non può esistere la sicurezza assoluta e che bisogna procedere sempre con un certo margi11e di rischio calcolato. Ma appunto quando si accetta (e non vedo come si possa fare a meno di accettarla) tale ipotesi, si ha il dovere di essere veramente e concretamente realistici. Il problema che primeggia su tutti gli altri è un problema politico: quello delle relazioni tra gli Stati Uniti e l'Europa. Ora, gli Stati Uniti non solo si trovano a difendere i medesimi valori di civiltà politica nei quali noi stessi crediamo e che sono alle origini delle nostre istituzioni, ma posseggono anche, piaccia o non piaccia, il solo apparato di deterrente nucleare capace di reggere alla sfida di quello sovietico. Nessuna nazione dell'Europa occidentale ha e potrà mai avere nulla di simile; tutte le nazioni dell'Europa occidentale, se unissero i loro sforzi, non potrebbero averlo prima di dieci anni. E comunque sarebbe veramente assurdo che i paesi europei si assumessero un carico così 19 Bibl.iotecaginobianco I

• Vittorio de Caprariis gravoso unicame11te per creare un doppione dell'apparato di deterrente americano e per di più col rischio di restare soccombenti in una guerra che si combattesse solo con le armi convenzionali. Ecco dei fatti di cui sarebbe infantile non tenere conto. D'altra parte, non v'è alcuna verosimile prospettiva di una radicale divergenza su problemi veramente importanti tra gli Stati Uniti e l'Europa; e la struttura stessa dell'alleanza occidentale prevede la possibilità di mediare i contrasti eventuali che dovessero sorgere sulle questioni di secondaria importanza. La comunanza ideologica e la considerazione realistica della situazione si uniscono, dunque, per consigliare all'Europa un accordo di fondo con gli Stati Uniti; e la necessità di tale accordo oltre che le considerazioni di opportunità militare ed economica che già si sono viste suggeriscono agli europei di accettare i principi direttivi della nuova strategia difensiva americana per l'Europa: potenziamento del• l'esercito convenzionale della Nato e impegno di riservare, per quanto è possibile, agli Stati Uniti il compito di mantenere e potenziare l'apparato di deterrente occidentale. Ciò detto, si deve aggiungere, tuttavia, che la ferma intenzione dei dirigenti americani di conservare intatta per se stessi la decisione suprema, se non rischia di restare affatto platonica, ha certamente un buon margine di astrattezza e di inefficacia, perché, oltre gli Stati Uniti, esistono già in Occide11te due potenze nucleari, la Gran Bretagna e la Francia. Washington può desiderare quanto le piace di serbare solo per sé l'ultima decisione; ma sta di fatto che il serbarla veramente dipende anche dalla buona volontà inglese e francese. Il che vuol dire che occorre cercare e trovare una soluzione politica del problema: che è, se non andiamo errati, appunto ciò che ha tentato di fare il presidente Kennedy, il 4 luglio di quest'anno, l'Indipendence Day del suo paese, proponendo la formula dell'interdipendenza tra l'Europa e gli Stati Uniti. « Idea immaginosa, tipica del suo senso dello stile e della sto,ria », scrisse allora il Times di Londra; e Reston, nel Times di New York, rilevò che alla fine del secolo quella dell'interdipendenza euroamericana sarebbe probabilmente apparsa una delle tre o quattro idee più importanti degli ultimi cento anni. Anche lasciando da parte ogni legittima eccitazione per la grandiosità della proposta, ci sembra che si possa dire che la formula dell'interdipendenza non solo indica una strada, anzi la sola strada per l'avvenire, ma serve anche, per il presente, a rassicurare gli europei sul fatto che la solidarietà con l'Europa resta la scelta primaria della politica degli Stati Uniti. Il discorso di Kennedy era, da questo punto di vista,_ assai esplicito: per Washington non si pone alcu11 problema di cambiare i cavalli alla 20 Bibliotecaginobianco

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