Nord e Sud - anno VII - n. 2 - marzo 1960

NORD ESUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna MARCOCESARINISFORZA, Il regionalismo dei democratici Cmv ANNICERVIGNI, L'affare · di Taranto GINo GIUGNI, La validità ,, erga omnes n dei contratti coUettivi GIULIOPASTORE, Mezzogiorno ed aree depresse del Centro-Nord UMBERTOZANOTTI-BIANCO, l ntroduzione alla questione meridionale e scritti di LUIGI AMIRANTE,GIUSEPPECIRANNA,FRANCESCOCOMPAGNA,ANTONIO NrTTO,STEFANORoooTÀ, GIOVANNITERRANOVA ANNO VII • NUOVA SERIE • MARZO 1960 · N. 2 (63) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE • NAPOLI BibliotecaGino Bianco

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'I. NORD E SUD --- ·Rivista mensile diretta da Francesco Compagna - .. Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis Cesare Mannucci Giovanni Ferrara N.d.R. Giovanni Terranova Gennaro Magliulo Alfonso Stile Stefano Rodotà Francesco Compagna Carlo Antoni Emilio Luongo e Antonio Oliva Luciano Della Mea Enzo Di Cocco SOMMARIO Editoriale [ 3] Costituzione e de1nocrazia [7] L'uomo comune [18] DISCUSSIONI Note sulla crisi dei cc liberali » [ 41] GIORNALE A Più VOCI cc L;1 bertà » della scuola [ 49] Un ce11Jrodi azione agraria [,52] Cronache napoletane: teatro [ 56] Scuole di Napoli: il Liceo Umberto I [60] Cronache delle istituzioni [ 66] Meridionalismo e « fordismo >> di Adriano Olivetti [70] DOCUMENTI Due postille iriedite [75] INCI-IIESTE La cc banlieue » napoletana [77] LETTERE AL DIRETTORE Turis1rio di massa e Mezzogior1io [107] Le acque del Biferno [110] CRONACA LIBRARIA [112] Una eopin L. 300 · Estero L. 360 DIREZIONE E REDAZIONE: Abbonamenti So st enitore L. 2 0.000 Napoli - Via Carducci, 19 - Telef. 392.918 Italia annuale L. 3.300 semestrale L. 1.700 Estero annuale L. 4.000 semestrale L. 2.200 Abbonamenti, distribuzione e pubblicità: Effettuare i versamenti ~ul C.C.P. 6.19585 intestato a EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. - Ed. Scientifiche Italiane S.p.A. \"in Roma, 406 NnpoJi Via Ro1na, n. 406 - Napoli - telef. 312.540 - 313.568 Bibliotecaginobianco

Editoriale Quando questo numero di « Nord e Sud )> sarà messo in distribuzione il governo dell' on. Tarnbroni si sarà presentato alle C a11iere per la fiducia. Per il momerito non possiamo sapere se la crisi in corso - che non può dirsi conchiusa dalla formazione del monocolore « amniinistrativo >> - approderà alle soluzio,ni che questa nostra rivista tenacemente va propugnando da anni: con la denunzia del sovversivismo irresponsabile degli ambienti nazionalfascisti, clericali, liberisti, il cui comune obiettivo politico consiste in uoo definitiva cc aperlura a destra »; con la confutazione delle tesi, grettamente mode rate per cui gli ambienti benpensanti perseguono tuttora un ormai i11ipossibile cc ritorno al quadripartito degasperiano »; con la condanna del verboso velleitarismo con cui gli ambienti massimalisti di si-nistra si ostinano a proporre astratte <<alternative». Non sappiamo, cioè, se la crisi si concluderà con r {( aperlura a sin,istra » o se essa segnerà invece l'inizio di una ulteriore e più grave involuzione politica e civile. Potremmo anche avere una soluzione interlocutoria, un rinvio dell' « aperlura a sinistra» o, meglio, un'altra tappa di avvicinamento verso la effettiva « convergenza n fra democristiani e socialisti. Così come potremrno avere una crisi assai grave delle istituzioni repubblicane, in conseguenza della paralisi che minaccia sia la DC (vedi clericali e attività dei franchi tiratori, per non parlare di Scelba) sia il PSI (salti della quaglia comunisti e attività dei carr-isti, per non parlare di De Martino). In tutti i casi, però, è su costoro, sui democristiani e sui socialisti, che ricadranno precise responsabilità anche in ordine alla situazione 1neridionale; ed è ad essi, ai democristiani ed ai socialist·i, che va fatto un discorso sul Mezzogiorno, quanto mai impegnativo. Quali che siano ·insomma le soluzioni della crisi romana, non si deve dimenticare che essa è stata preceduta da una crisi paler·mitana, la cui soluzione ha riproposto in forma drammatica il problema della democrazia nel Mezzogiorno. 3 Bibliotecaginobianco

Durante la crisi palermitana, una riunione della giunta esecutiva re- • gionale e del direttivo del gruppo parlamentare della D.C. si è conclusa ron l'approvazione di un ordine del giorno che afferrriava r esigenza urgente di un «ritorno alla normalità democratica)). E si è detto 7Jiùvolte, nel corso di quella crisi, dai vari D'Angelo e Carollo, che il porro unum per la D.C. non poteva essere che il ritorno al potere prinia delle elezioni, il rovesciamento di Milazzo, l'espulsione dei comunisti dai centri di potere in cui si sono insediati. Ora, si può anche concedere che nella situazione data un partito con vocazione di governo non poteva non perseguire questi obiettivi; e si può anche riconoscere clie essi costituivano un porro unum e che l'esigenza di verificare in quali centri di potere si f assero effettivarriente insediati i comunisti doveva essere sentita, in comune con la D.C., da tutti i democratici; ma non si può certo asserire che basti il rovesciamento di Milazzo e il ritorno dei democristiani al potere per instaurare la cc norrn/alità democratica » . Sembra ùif atti assai difficile stabilire in che cosa consista per la Sicilia, e per gran parte del Mezzo·giorno, la « normalità democratica». Certo assai lontana dalla « normalità democratica » deve ritenersi ogni situazione di tipo milazzistico. È stato giustamente rilevato da Pasq1,ale Bandiera su « La Voce repubblicana » che la « rivolta milazziana » altro non era che « la rivolta baronale co1itro il potere centrale »; e clie « ci voleva tutta la cecità comunista per non afferrare immediatamente il sigriificato dell'operazione Milazzo o almeno il significato che le forze di destra davano a quell'operazione e per scambiare una · scissione a destra nella Democrazia cristiana come una rivendicazione dei valori autonomistici e una affermazione democratica». Ricordiamo pure che nei giorni dell'operazione Milazzo un nostro a1nico, che si professa scelbiano convinto e aritifanfaniano zelante, ci parlava con molta indulgenza della rivolta milazziana; una indulgenza che ci sembrava in contrasto e alquanto sospetta se messa a confronto con la « sensibilità anticomunista » di cui il nostro amico era sempre andato assai fiero e che i-nfatti è poi nei suoi atteggiamenti torriata a farsi valere, contro Milazzo e la sua giunta, non appena l'o1i. Fanfarii e il suo goverrio ebbero dato le dimissioni. Quanto alle bandiere delf autonomia, instancabilme1ite agitate dai rnilazziani, c'è a questo proposito una consiclerazione molto acuta di François Bondy (che, dopo un suo viaggio in Sicilia, ha scritto in genriaio, su cc Preuves », ttn articolo n1olto intelligente: Sicile no11veau Texas) da cui si deduce agevolmente che non sempre le bandiere della autonomia sventolano insieme a quelle della democrazia: vi sono molti 4 Bibliotecaginobianco

punti di contatto fra l' autonomis1no in Sicilia e il nazionalismo nel Medio Oriente, la coalizione milazziaria fra autono1nisti e comunisti ricorda appunto certe alleanze fra nazio·nalisti e comunisti nel Medio Oriente , (si veda il libro di Laqueur - Nazionalismo e Comunismo nel Medio Oriente - pubblicato da «Opere nuove»), la realtà politica siciliana non è traducibile in termini italiani ed europei se non si ricorre a considerazioni di questo tipo, se non si paragona, cioè, l'autonomismo alla. Milazzo con il nazionalismo alla M ossadeq e se non si considerano le alleanze fra estrema destra ed estrema sinistra, del tipo di quella che ha fatto capo a Milazzo, come un fenomeno del tutto estraneo e contrario alla <e ·normalità democratica». Ma se il « ritorno alla normalità democratica », in Sicilia e nel Mezzogiorno coritinentale, non può coincidere con operaz·ioni di tipo milazziano, ci vuole l'impudenza di un D'Angelo per asserire che esso coincide con un altro cc ritorno »: quello delle giunte regionali aperte a destra, coridizionate dai voti dei monarchici e dei missini. Tanta più che la giunta aperta a destra che è stata recentemerite eletta dai deputati della sala d'Ercole risulta, clal purito di vista della democrazia, anche meno << normale» delle giunte, più o meno anch'esse aperte a destra, che furono presieduta dai Restivo e dai La Loggia: 1) perchè monarchici e ·rnissini, reduci dal fiancheggia1nento dell'operazione Milazzo, hanno aggiunto un altro titolo di infa11tilismo politico e di malformazione civile ai 111,oltidi cui già si fregiavano; 2) perchè, nel corso dell' operaziorie D' An,gelo (chiamiamo così la 1naccliiriosa attuazione del rovesciamento lli Milazzo e dell'insedianiento clella nuova giunta aperta a destra) si è negoziata l'asseg1iazione cli clue assessorati al MSI e con altri assessorati si sono comprati alcuni milazziani; 3) perchè a presiedere le giunte di Restivo e di La Loggia erano uomini di formaziorie democratica, esponenti di tradizioni e di correnti democristiane, 1nentre oggi, a presiedere la giunta, si è chiamato un tipico esponerite del peggiore camaleontismo politico, monarchico prinia, milazziano poi, ora democristiano di comple11ie·nto. Per la Sicilia, e per la gran parte del Mezzogiorno, no·n si può parlare dunque di cc ritorno alla normalità deniocratica »; e meno che mai se 11.epuò parlare oggi. La « normalità democratica>> è tutta da f andare; e per f andarla - diciamolo esplicitamente una buona volta - ci si deve impegnare risolutaniente sul piano della politica di sottogoverno non meno che nel piano1 dellaJpolitica di governo. Oltretutto si tratta di evitare che gli eff ett-i negativi della prima intervengano a neutralizzare gl-i 5 Bibliotecaginobianco

effetti positivi della seconda, che il bene di Pastore possa essere a11nullato dal male dei Berry e dei Santalco, di coloro che, numerosi nel nostro Mezzogiorno, dichiarano euforicamente di essere turbati, con « il tormento della coscienza », a causa di Nenni, e poi si lasciario abbracciare da Almirante. Nessuna politica diretta a promuovere un effettivo rinnova1nento della vita civile nel Mezzogiorrto, può avere corso se non contro i partiti di destra. E in questo senso il PDI non si distingue affatto dal MSI: è vero o non è vero clie qualificati esponenti del PDI sono stati protagonisti sia dei recenti casi di malgoverno a Napoli che della vergognosa attività dei « deputati -squillo » in Sicilia? Non ci si illuda dunque di fonda re una « normalità dernocratica >> con Lauro e con i suoi consorti, con i baroni della Nicchiara e con -i duchini di Roccaromana. Esperienze come quelle del comune di Napoli e della regione siciliana dimostrano ampiamente - e tanti altri eserripi si potrebbero fare - che il problema della « normalità democratica » nel Mezzogiorno richiede clie ci si impegni anzitutto nel senso che dice-- vamo, di liquidare progressivamente e nel più breve tempo possibile tutti i rapport! che si sono1 intrecciati fra D.C. m_eridionale e partit'i di estrema destra, i quali, nel Mezzogiorno e non soltanto nel Mezzogiorno, rappresentano i focolai di perniciose infezioni politiche. È in questo senso, appunto, che parlavamo di responsabilità precise di democristiani e di socialisti. Perchè sono essi, gli uni e gli altri, a dover contribuire in modo decisivo alla soluzione dei problemi che repubblicani e radicali (su cc La V ace repubblicana », su u Il Mondo », su. « Democrazia moderna » e su cc Nord e Sud ») hanno posto con, estrema chiarezza: a) con quali forze si possa e si debba far sì clie il Mezzogiorno, dove è in corso una politica di sviluppo, abbia un destino da Texas e non da Irak (è François Bondy che, relativamente alla Sicilia, ha posto il dilemma: Texas ou Irak? ); b) con quali forze si possa e si debba far sì che la questio1ie meridionale rion venga aggravata sul piano politico - con soluzioni del tipo di quella escogitata dall'operazione D'Angelo - riel momento in cui si cerca di avviarne la soluzione sul piano economico e sociale; e) con quali forze si possa e si clebba fondare una cc normalità clernocratica >> in tutto il paese. 6 Bibliotecaginobianco

Costituzione e democrazia di Vittorio de Caprariis Il breve discorso con cui il senatore Merzagora ha voluto commentare, il 25 febbraio scorso, l'annuncio delle dimissioni del governo date dall'on. Segni al Senato della Repubblica è stato un episodio di eccezionale gravità, per la carica ricoperta dalla persona che lo pronunciava, per il momento in cui è stato pronunciato, e soprattutto per il suo contenuto. Non sappiamo se siano vere o false le voci che sono circolate, all'indomani di quel discorso, sulle ragioni che avevano indotto il sen. :tvlerzagora a parlare, ed a parlare così come aveva parlato; e non c'interessa saperlo. I fatti, ci sembra, sono già abbastanza gravi in sè, e non c'è veramente bjsogno di ricercare le più o meno riposte intenzioni cl1e sarebbero state alla loro genesi, per giudicarli. E i fatti sono che il Presidente del Senato ha potuto, dal suo seggio di presidente, fare delle affern1azioni che volevano essere una denuncia di certi fenomeni che egli riteneva degenerativi della vita democratica del nostro paese, ma che, agli orecchi di molti, sono suonate co1ne un attacco al regime; ed ha potuto farle in un mon1ento assai delicato, aprendo, o rischiando di a1Jrire, come è stato detto, una cc crisi nella crisi », aggiungendo, o riscl1iando di aggiungere, alla crisi politica delle difficoltà costituzionali. Non è certo a caso che le parole del sen. Merzagora siano state assunte come una bandiera da piantare nel campo avverso così dai neofascisti come dai co1nunisti, da coloro, cioè, che sono stati e restano i piì1 conseguenti avversari del regime democratico in Italia; e che siano state fatte proprie da quella parte della stampa cosiddetta indipendente, che patrocina più o meno apertamente una soluzione della crisi (ancora in atto nel momento in cui scriviamo) in chiave di fronte nazionale clerical-conservatore, che immobilizzi la si7 Bib·liotecaginobianc~

tuazione italiana; una soluzio11e, è appena necessario aggiungerlo, cl1e spianerebbe, di nuovo, la strada ad un fronte popolare e a possibili maggioranze assolute socialcomuniste. Ma, si dirà, il sen. Merzagora non può essere responsabile dell'uso che vien fatto delle sue parole : ora, ciò è vero solo fino ad un certo limite, sia perchè si posso110 i11terpretare in un certo modo soltanto parole che siano in qualche modo suscettibili di una certa interpretazjone, sia perchè qua!1do si ricopre la carica di Presidente del Se11ato occorre essere sette volte più prudenti di quel che sia' necessario quando si è semplicemente ra1Jpresentanti del popolo, e di più si l1anno numerosi altri modi di interrompere i « penosi riserbi » e di manifestare, ai maggiori responsabili della politica italiana, le perplessità e i timori cl1e certe situazioni fanno insorgere nell'animo e nella mente. D'altra parte, se il sen. Merzagora riteneva essere suo assoluto dovere il dire pubblicamente tutto cjò che ha detto, avrebbe dovuto farlo da] suo banco di senatore, o almeno rassegnare le dimissioni st1bito dopo jl suo discorso: la sua presa di posizione era, in effetti, così diretta e polemica da esigere una risposta; ma il suo rango di Presidente del Senato impediva che questa risposta fosse data altrimenti che in forma assai involuta e circospetta; infatti, coloro che erano stati attaccati, e pesantemente attaccati, non avrebbero potuto reagire con altrettanta violenza senza togliere qualcosa al prestigio del secondo personaggio dello Stato. Che il sen. Merzagora non si sia avveduto di ciò stupisce; e si è attoniti addirittura che le dimissioni siano sopravvent1te a qualche giorno di distanza dal clamoroso intervento, per il fatto cl1e l'on. Moro, non si sa bene se nella sua qualità di Segretario della D.C. o i11quella di direttore de Il Popolo, l-1a avuto occasione di manifestare il suo dissenso dal contenuto del discorso del 25 febbraio. A parte l'i11coerenza che, come è stato da più parti osservato, si manifesterebbe qui tra le parole e i gesti, si vie11e a creare il singolare precedente che un Presidente del Senato - il quale, come è noto, non vota! - può fare un discorso come quello pronunciato dal sen. Merzagora senza dimettersi, ma cl1e debba dimettersi, tuttavia, allorchè il quotidiano del partito di maggioranza pubblica il testo di tale discorso non già in prima pagina e su otto colonne, ma su una colonna sola e in seconda pagina! Se è su questi precedenti che devono fondarsi le tradizioni parlamentari in Italia, c'è veramente molto poco da stare allegri, e' è veramente di cl1e preoccuparsi per gli istituti della democrazia nel nostro paese. 8 Bibliotecaginobianco

Pure, ciò che a noi vuol sembrare più grave e preoccupante di tutto è il contenuto del discorso del sen. Merzagora. E ci si intenda bene: non vogliamo affatto parlare di un st10 contenuto politico più o meno implicito, e di una più o meno esplicita tendenziosità, n1a della visione che esso esprimeva della vita istituzionale italiana. Che il Presidente della Camera Alta abbia una concezione così sommaria e superficiale, così povera e miope, delle istituzioni di una democrazia moderna, ecco una cosa veramente sorprendente. Ed è almeno strano che tutti o qt1asi tutti i senatori si siano lasciati trascinare, sia pure per un momento soltanto, ad applaudire una siffatta concezione, senza troppo riflettere stil suo significato e sulla sua portata. Cosa l1a detto, in sostanza, il sen. Merzagora? Egli ha denunciato la progressiva degenerazione degli istituti della democrazia per colpa dei partiti politici, ed ha indicato la più vistosa manifestazione di ciò nel fatto che le IJit1 recenti crisi di governo sarebbero state crisi extra-parlamentari, non causate, cioè, da un voto di sfiducia dato dal Parlamento, ma tenebrosamente elaborate tra le s,egreterie dei partiti medesimi. In conseguenza di ciò il Parlamento sarebbe degradato ed avvilito e le istituzioni democratiche verserebbero nel più grave dei pericoli. Dio volesse che le cose fossero veramente così semplici! Crede veramente il sen. Merzagora, credono veramente tutti coloro che hanno plaudito alle sue parole, che se, ad esempio, il governo Segni, e prima di esso il governo Fanfani, e prima ancora il governo Scelba, fossero caduti per un voto di sfiducia del Parlamento, le istituzioni democraticl1e, per questo soltanto, sarebbero più sicure e più salde? O credono veramente che se esso avesse dato, 11egli ultimi anni, alcuni voti di sfiducia, il Parlamento avrebbe più prestigio di quanto ne abbia ora, più maestà e più forza, maggiore solidità e maggiore efficienza? In Francia, ad esempio, tutte o quasi le crisi di governo hanno avuto origine da voti di sfiducia: ma ciò non ha impedito alle istituzioni de1nocratiche di· subire i rovesci che tutti sanno; e vi sono, anzi, molti che sostengono, con qualche colore di verità, che proprio il potere dei parlamenti di disfare troppo semplicemente i governi abbia avuto qualche r'esponsabilità per quei rovesci. A noi sembra, i11somma, che credere queste cose è come andare a caccia dell'elefante con una pistola scacciacani: non si colpirà mai jl bersaglio per la semplice ragione che quella che si ha in mano non ' e una vera arma. Le obiezioni mosse dall'on. Segni, e a quel che sembra anche dall'on. Moro, sulla natura della crisi sono irrilevanti perchè non cenBibliotecaginobianco

trru10 la questione vera, la sola che valga la pena di discutere: il . sen. Merzagora potrebbe avere ragione sul carattere extraparlamentare della crisi stessa, ma ciò non toglie che abbia torto sulla sostanza delle cose. Perchè egli e coloro che la pensano come lui giudicano le strutture politiche di un regime democratico del nostro secolo con la mentalità di uomini .della prima metà dell'Ottocento, di uomini ai quali non si ponevano neppure i problemi dei partiti politici, degli apparati, della stampa a grande tiratura, della radio, del cinema e della televisione, della propaganda di massa insomma e dei cosiddetti « persuasori occt1lti », i problemi che caratterizzano la società e du11que anche la società politica del secolo ventesimo. cc L'assetto sociale dei popoli, di cui le istituzioni politiche non sono che l'espressione ... », doveva dire una volta non già Marx ma Tocqueville, per indicare quel che si deve studiare se si vuole avere una idea precisa di cosa sono, di cosa: devono essere le istituzioni politiche di un paese: dell'assetto sociale di oggi, di quell'assetto sociale di cui le nostre istituzioni devono essere espressione, se vogliono, non diremo durare, ma anche soltanto funzionare, il sen. Merzagora e coloro cl1e lo hanno applaudito dentro e fuori Pa- . . lazzo Madama hanno una visione ottocentesca. Altrime11ti non si spiegherebbe che con aria atterrita e religiosamente ispirata essi scuotano il capo e dicano: i partiti, ecco il male; oppure: i deputati non sono più liberi di votare secondo coscienza : ecco il male. Disraeli, cl1e di sistemi liberali si intendeva n1olto più che di « barbe finte», disse una volta che tra la propria coscienza e il proprio partito un galantuomo sceglie sempre il proprio partito : e il suo paradosso era più altamer1te etico di tutti i patemi d'animo di coloro che gemo110 sulle coscienze violate dai partiti. Perchè l'adesione ad un partito è una scelta primaria della coscienza, e la coscienza è una cosa troppo seria perchè possa essere messa in crisi dal bilancio delle Poste. Benedetto Croce ci ha abituati a diffidare di coloro che hanno troppo frequenti crisi morali: egli osservava acutamente, infatti, che un'eccessiva frequenza di crisi morali non era segno di un'etica austera, ma, nella migliore delle ipotesi, di nervi troppo fragili. Comu11que ciò sia, il dato di fatto è che chi polemizza oggi, nella chiave che il sen. 11erzagora ha fatta stia, contro i partiti politici r1on si è mai cl1iesto perchè i partiti esistano e perchè esistano gli apparati e tutte le altre cose su cui essi sono pronti a lanciare il loro facile anatema. Chiedersi ciò è porsi il problema dell'assetto sociale dei popoli, ripeteremo con Tocqueville, ed è dunque porsi veramente il pro10 Bibliotecaginobianco

blema delle strutture politiche, delle istituzioni di una democrazia n10derna. Se il sen. Merzagora avesse veramente affrontate tali questioni si sarebbe avveduto che le sue erano povere generalità, si sarebbe avveduto cl1e la minaccia alle nostre istituzioni non viene dalle crisi extraparlamentari, sì, invece, dal fatto che, per molti rispetti, noi siamo in ritardo di una costituzione, in ritardo di una riforma istituzionale. La nostra costituzione, che sarebbe stata ottima quarant'anni fa, ha clelle lacune che la rendono inadatta ai nostri tempi: v'è un divario tra l'evoluzione delle forze sociali e politiche e l'evoluzione dei meccanismi che, per così dire, istituzionalizzano queste forze medesime. È da questo divario che nasce la crisi istituzionale di cui stiamo facendo esperienza. Abbiamo troppe volte svil11ppato sulle pagine di « Nord e Sud » il tema delle istituzioni di una democrazia .moderna, perchè si debba ripetere ancora una volta il nostro pensiero: quel che è certo, però, è che non si esce da una crisi siffatta con le proclamazioni contro i partiti e gli a1nmonimenti a restaurare il prestigio del Parlamento: queste proclamazioni e questi ammonimenti sono un modo di ingannare se stessi o, peggio ancora, di ingannare gli altri. _È necessaria una vasta riforn1a istituzionale, che ridimensioni tutte le strutture della vita politica italiana conformemente alla evoluzione delle cose: non vedere ciò equivale, nella migliore delle ipotesi a parlare di farfalle invece che di politica. Nè vale obiettare che il sen. Merzagora ha bensì accennato a questi temi allorchè è parso chiedere la pubblicità dei finanziamenti dei partiti: e qui si rende necessaria una chiarificazione pregiudiziale, occasionata da un intervento del periodico « Collegamento », organo ufficiale dei Comitati Civici, nella polemica suscitata dal discorso del 25 febbraio. « Sono stati invocati - ha scritto « Collegamento » - provvedimenti per tutelare l'autonomia dello Stato e la correttezza della vita pubblica. Sono state chieste precise disposizioni legislative atte a rendere pubblica ed obbligatoria la corretta attività amministrativa di tutte le formazioni politiche, oggi condannate a vivere contravvene11do alle regole non solo fiscali di una democrazia che voglia considerarsi incensurata. Il Bundestag di Bonn sta ora discutendo un disegno di legge sul finanziamento dei partiti: esiste al riguardo un disegno di legge del sen. Sturzo oltre ad una serie di precedenti legislativi. Una iniziativa del nostro Parlamento in questo senso indicherebbe certamente che si vuol battere la buona strada della riforma del costume: il Paese attende ». 11 Bibliotecaginobianco

Esatto: ma il paese attende anche che questa legge non riguardi soltanto il finanziamento dei partiti politici, ma· anche quello dei gruppi di pressione, e dunque anche dei Comitati Civici. Perchè sarebbe una suprema ipocrisia quella di stabilire cl1e le mura delle case dei partiti debbano essere di cristallo e che invece altri strumenti di formazione dell'opinione politica o di pressione sull' opinion,e politica, dai giornali ai lobbys industriali, ad associazioni come i Comitati Civici, possano avere fonti di finanziame11to oscure o clandestine. Se ci si rifiuta a queste elementari considerazioni, vuol dire che non si vuole già la riforma del cc costume », ma che si vogliono attaccare i partiti, e soltanto i partiti, i quali sono i normali organi di una democrazia moderna. E si badi che abbiamo adoperato il termine cc ipocrisia » solo per adeguarci al linguaggio moralistico dell'organo ufficiale dei Comitati Civici: poichè, dal 11ostro 11unto di vista, una legislazione che rigt1ardasse solo il finanziamento dei partiti politici e non anche quello dei gruppi di pressione sarebbe una legislazione non tanto ipocrita quanto inutile. Resterebbe tagliata fuori da essa, infatti, tt1tta una serie di fonti di potere che vanno attentamente regolate, e che tenderebbero a diventare tanto pi\\ determinanti quanto più prive· di regolamentazione legislativa. Ma tutto ciò 110n ci porta ancora al cuore della questione: chiunque abbia meditato spassionatame11te su questi temi sa benissimo che una legislazione sul finanziamento dei partiti e dei gruppi di pressione è a sua volta una riforma parziale, anzi parzialissima, che non risolve affatto i 1Jroble1ni dell'equilibrio isbtuzionale italiano. Come 110nsi deve credere che una prassi di crisi tutte parlamentari sarebbe sufficiente a restaurare il prestigio e il 1Jotere delle assemblee legislative, così non sì deve credere che una legislazione sulle fonti di finanziamento dei partiti sarebbe sufficiente a ridimensio11are i partiti stessi, e quindi, i11direttamente, a restituire alle assemblee legislative medesime il peso cl1e esse avevano nei regimi parlamentari di tipo ottocentesco. E ciò appare subito chiaro a chiunque riflette sul fatto che i partiti sono la forma moderna dell'organizzazione politica degli individui, sono i figli clell'intervento delle masse nella lotta politica e del suffragio universale. Il cl1e vuol dire che le esigenze che li hanno prodotti i11 quella forma che attualmente essi hanno (e che fa fremere di orrore i vuoti laudatores temporis acti) sono non solo in molta parte benefiche, ma anche di tale entità che non può bastare una legge sul loro finanziamento a regolarli e ad impedire le degenerazioni che inevitabilmente 12 B·ibliotecaginobianco

si accompagnano ad ogni cosa umana. È necessario, insomma, .una regolamentazione totale, che riconosca nei partiti stessi una istituzione indispensabile della lotta politica democratica e che pertanto li sottoponga ad uno statuto pubblico; è necessaria una riforma vasta ed organica di tutte le articolazioni della vita pubblica, nella quale si mettano a giusto frutto tutte le esperienze straniere. E non ci si obietti che è problema di costume e che in Inghilterra, dove non esistono tante leggi le cose vanno bene: poichè coloro che dicono queste cose sarebbero, (e sono, del resto, già stati) i primi a ribellarsi innanzi ad una di quelle norme elementari del costume politico britannico che hanno ormai valore di norme costituzionali: che, cioè, il capo del partito è anche il capo del governo e viceversa, sia che si tratti del Gabinetto vero e proprio, sia cl1e si tratti del cc Gabinetto ombra ,>! Non abbiamo dimenticato gli attacchi all'on. Fanfani, che aveva concentrato nella sua persona l'una e l'altra carica, non abbiamo dimenticati gli ipocriti scandali innanzi ad un fatto che nella patria dei governi parlamentari è considerato nor1nale; e neppure abbiamo dimenticato che il nostro è il paese in cui, ad ogni volger di luna~ si cl1iede addirittura che la carica di membro della direzione di un partito sia incompatibile con quella di deputato. E poichè un uomo autorevolissimo, l'ex-presidente Luigi Einaudi, ha voluto polemizzare anch'egli, copertamente, contro la cosiddetta partitocrazia, richiamando l'esempio inglese e americano, non sembri extravagante una rapida precisazione su questo punto. Anche in Inghilterra, per chi sia infarinato delle cose di oggi e non di quelle di un secolo o di due secoli fa (quando i deputati si potevano acquistare e si acquistavano a tante gl1inee il voto, e quando la deputazione poteva costare anch'essa tante ghinee ad elettore: chi conosce la storia inglese del Settecento o le l)rocedure elettorali cl1e ancora vigevano intorno al 1830 sa benissimo che questa è la semplice verità) anche in Inghilterra, dunque, il peso dei partiti è determinante. Se si hanno in mente le violente opposizioni ad Eden della sinistra del partito conservatore o le pressioni dei cosiddetti « imperialisti >> dello stesso partito, e si constata, poi, come tutti i parlan1entari conservatori abbiano sempre compattamente votato per il governo Eden, ci si ricorda della frase di Disraeli, si pensa, cioè, che tra la coscienza e il partito quegli uomini hanno scelto quest'ultimo, ci si rende conto che la disciplina di gruppo è in Inghilterra ancora più ferrea che da noi. Nè ci si venga a raccontare che si tratta di una libera scelta: i deputati inglesi sono uomini co1ne 13 ·Bibliotecaginobianco

gli altri, i quali sanno che l'abbandono del partito significa la rinuncia al mandato parlamentare. Ed a coloro i quali declamano così volentieri contro gli apparati, opponendo la democrazia formale italiana a quella sostanzìale britannica, vorremmo ricordare cl1e anche lì gli apparati contano, e contano molto; e che l'assegnazione ad un candidato di t1n collegio marginale, cioè incerto, è per lo più un modo elegante con cui il partito si disfà di coloro sulla cui fedeltà sa di non poter contare. E finalm,ente vorremmo ricordare ai nostalgicj dei voti ·di sfiducia che più volte si sono avuti rimpasti più o meno ampi e mutamenti di primi ministri senza voti di sfìd11cia alla Camera dei Comuni: la differenza, si potrebbe dire paradossalmente, sta tutta nel fatto che noi chiamia1no crisi ciò che gli inglesi chiamano pudicamente reshuffle. Del resto, entro quali limiti si possa parlare per l'Inghilterra di governo parlamentare aveva già indicato Walter Badgehot nel s110 The English Constitution, la cui prima parte apparve nel 186,5. Certo non ci nascondiamo le differenze che vi sono tra il sistema inglese ed il nostro, e noi stessi abbiamo avvertito che il parallelo tra la crisi e reshuffle è 11n paradosso: ma ciò_cl1e conta è che anche in Inghilterra, piaccia o no, vige un regime di partiti, una partitocrazia. L'esempio americano, su cui Lt1igi Einaudi ha maggiormente insistito, può parere a prima vista più probante: pure, noi non gli opporremo il guicciardi11iano: <( quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e' Romani! ». A noi sembra in verità che anche l'esperienza americana, se valutata attentamente, porta alle stesse co11clt1sioni. Si deve innanzitutto tener conto del fatto cl1e la vastità enorme della Federazione statunitense è di per se stessa un rallentatore della centralizzazione dei partiti : i contrasti di interesse sono spesso assai più violenti tra stati e stati che tra partito e partito; il che fa sì, ovviamente, che un partito il quale voglia essere rappresentativo dell'intero 1Jaese debba necessariamente essere più fluido, stn1ttt1ralmnte e ideo- ]ogicamente, dei partiti che noi co11osciamo in El1ropa. Inoltre, la divisione in tanti stati, ognuno dei quali è depositario di una parte della sovranità, rallenta ulterior1nente la centralizzazione della vita politica, poich.è una buona parte di questa si esaurisce nell'ambito dei singoli stati. Pure, quando si studia il problema no11 più a] livello federale ma a quello statale si vede che ]e cose cambiano: i partiti contano, e contano formidabilmente, ad un punto che forse da noi non si imma-gina nemmeno. E, vi credano o no i nostri sommari osservatori di queste cose, contano tanto più in quanto maggiore, assai maggiore, 14 Bibiiotecaginobianco

è il numero delle cariche cui si provvede con elezioni. Del resto, sono stati gli americani ad inventare le parole boss e machines ! Chiunque abbia t1n po' di familiarità con la letteratura politica americana sa quanto aspre siano state le polemiche e le lotte intorno alle cc macchine » dei partiti, quanto fervidi siano stati gli attacchi alla partitocrazia al livello degli stati, e sa anche come presidenti energici e prestigiosi, i quali pur -potevano gettare nella lotta il peso del potere federale, siano stati costretti, a volte, a rinunciare all'idea di avversare queste cc macchine». Finalmente, non va dimenticato che gli Stati Uniti sono uno dei paesi più avanzati al mondo dal punto di vista della istituzionalizzazione dei partiti politici, dal punto di vista cioè, di quelle riforme istituzionali cui sopra si accennava: si pensi che già nel 1903 uno stato, il Wisconsin, promulgava una legge che rendeva obbligatorie le cosiddette primarie dirette per la designazione dei candidati alle va1ie cariche, e che nel 1917 tutti gli stati, tranne quattro, avevano leggi analoghe. D'altra parte, per dovere di completezza, si d,eve aggiungere cl1e molti studiosi americani di scjenze politiche criticano apertamente l'attuale struttura dei partiti politici nel loro paese, a cui fanno carico di molti difetti della vita politica degli Stati Uniti, e chiedono che i partiti stessi divengano più simili ai loro confratelli europei: cc Verso un più responsabile sjstema bipartitico >>, si intitola il rapporto che ha pubblicato nel 1950 il « Comitato sui partiti politici» dell' American Political Science Association, un agile volumetto, la cui lettura sarebbe di estremo interesse per i vari Ronzini che si occupa110 di siffatti problemi nel « Corriere della Sera». Qualunque cosa si voglia pensare di questa esigenza fatta valere dai colleghi americani (ed io penso che, tutto considerato, sia preferibile conservare l'attuale equilibrio), essa dimostra tuttavia, quanto superficiale sia l'informazione che si ha da noi. Questa lunga parentesi sulle esperienze inglese ed americana vale a dimostrare che quello cl1e si considera erroneamente come un problen1a soltanto italiano è jn realtà comune a tutti i paesi democratici (e non può non essere così) e che quello che si considera sommariamente un male non è poi tale, o non lo è nelle proporzioni cl1e si vogliono dare ad intendere; e vale a dimostrare, soprattutto, quanto complesse siano le questioni e quanto vasta ed organica debba essere la riforma da introdurre in Italia. Poichè è evidente che il problema va affrontato e risolto non solo con una legislazione sui partiti politici che riconosca la loro funzione di istituto della democrazia moderna e 15 Bibliotecaginobianco

che insieme ìa regoli, che non si limiti a sancire la pµbblicità dell~ spese e dei fìnanziamenti, ma che garantjsca a tutti i livelli la loro democraticità ed il loro dinamismo interno, o con una legislazione che regoli la delicata materia dei gruppi di pressione. A qt1este leggi va aggiunta l'attuazion,e di certe parti della Carta costituzionale: diremo, ad esempio, che non riusciamo a scaldarci per il referendum e che esso ci sembra assai più inutile di quel che molti sembrano pensare (e le esperienze straniere in materia paiono suffragare un tale giudizio); ma già il problema delle regioni ha altro rilievo, purchè st11diato fuori di ogni demagogia: ciò che è accaduto negli Stati Uniti, ovviamente rnutatis mutandis, sembra dimostrare che, oltre ai benefici che se ne aspettano sul piano generale, si possa ricavarne, co1ne sottoprodotto, anche un qualche rieqt1ilibramento del rapporto tra partiti e parla-- mento nazionale. E quanto a quest'ultimo, ci sembra chimerico e va110 attendersi una sua revitalizzazione dalla restaurazione del potere di disfare i governi: uria restaurazione del prestigio e del potere del Parlamento può venire soltanto dal st10 buon funzionamento come assemblea legislativa (nuoce più una legge mal fatta, e sono tante, che dieci crisi extraparlamentari) e dallo zelo con cui esso· assolverà da una parte alla sua funzione di scrupoloso tutore della libertà e dei diritti dei cittadini, e dall'altra alla s11avocazione naturale di sopravanzare i gover11i nel promuovere la legislazione necessaria al paese. Innanzi a così complesse questioni non è, forse, evidente che, come si diceva più sopra, il discorso del 25 febbraio è espressione di una superficiale concezione dei problemi istituzionali di una democrazia moderna in generale e di quella italiana in particolare? E del resto anche la polemica col Presidente della Corte Costitt1zionale dimostra una riflessione insufficiente su tali problemi. Si può discutere l'opportunità della scelta, fatta dal Presidente della Corte medesima della sede delle sue dichiarazioni; ma non si può mettere in dubbio il suo diritto ad esprimere le sue opinioni in altra sede che nelle sentenze (ancora una volta qui l'esperienza americana è assai istruttiva), e meno ancora la sostanza delle sue affermazioni. Quando il Presidente della Corte costituzionale afferma che la Corte stessa è cc moderatrice • delle assemblee legislative dice una verità sacrosanta, che nessuno spirito di corpo potrà offuscare. Le Corti costituzionali non sono nate, là dove sono nate, per altro. Un tempo si diceva che il Parlamento inglese poteva fare tutto tranne che mutare un ti omo in donna: la potenza delle maggioranze delle assemblee legislative era, dunque, as16 Bibiiotecagi nobianco

saluta, tanto più assoluta qua11to più democratico era il regime, quanto più i membri di quelle maggioranze, cioè, sa1)evano di rappresentare la maggioranza del popolo. Chi ha letto la Démocratie en Amérique di Tocqueville sa quanto il grande teorico fosse ossessionato dai pericoli impliciti in quella onnipotenza, e sa come egli indicasse 11el controllo costituzionale uno degli argini a tali pericoli. Poichè esso crarentisce cl1e le assemblee legislative esercitino nella loro attività irnperiurn e non tyrarinidem, garentisce alle 1ninoranze ed aj sinao]i la tutela dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Carta costitt1zionale. Ora, se non si vuol sottilizzare a vuoto sulle parole, questa funzjone è esattamente una funzione « moderatrice » delle assemblee legislative: e nel riconoscimento di esse non vi è alcuna offesa alle assemblee medesime. D'altra parte non si compr,ende perchè st1 questo punto il sen. Merzagora abbia atteso tre anni a rompere ancl1e qt!i un -« penoso riserbo » : le stesse cose cl1e egli lamenta dopo averle lette su t1n rotocalco erano state scritte dal Presidente della Corte Costituzionale in un lungo articolo, pubblicato nel 1957 nel terzo dei cinque olumi commemorativi del decennale della Costituzione stan1pati a cura della Camera dei Deputati. Oppositori malevoli e tendenziosi potrebbero perfino dedurre da ciò che il sen. Merzagora aggiorna la sua cultura costituzionale sui rotocalcl1i piuttosto cl1e su olumi di carattere scientifico. 17 Bibliotecaginobianco

L'uomo comune di Cesare Mannucci Al di sotto delle differenze di regime politico o economico, la struttura sociale di tutti i paesi del mondo è ancor oggi regolata da· u11 medesimo principio rigorosamente gerarchico. I tipi di stratificazione sociale variano considerevolmente: 11ellostesso momento storico, accanto a·i tipi più moderni e complessi coesistono quelli piì1 arcaici ed elementari. Nelle soéietà democratico-liberali più evolute la stratificazione è fitta, e perciò più sfumata: ma questo non vale a mutare la struttura essenziale della società. All'interno della stratificazione, per amn1orbidita che sia, v'è a un certo punto uno sbalzo: è la dista11za c11esepara coloro che formano la ruling class, intesa nel senso più largo, dal resto dei membri della· società. In rapporto a questo sbalzo si creano e si dispongono le gerarchie sociali. La constatazione non comporta il me11omo disconoscimento delle molte e grandi trasformazioni sociali realizzate dalle società più dinamiche negli ultimi centocinquant'anni. Le condizioni materiali di vita del citta'.dino comu11e, la dignità di cui gode in diritto e in fatto, lo spazio concesso alla sua personalità privata e pubblica, non sono nemmeno paragonabili a quelle descritte ne L'ancien régime. Nei IJaesi democratici più avanzati qt1este conquiste sono ormai certe e inta11gibili: in molti altri sono ancora contrastate, 1na ha11no per sè la forza dei princìpi ben fondati e quella dell' esem1Jio. Se queste trasformazioni sono, sia pur nella: loro varia intensità, incontestabili, è altrettanto certo che il modo di concepire il rapporto interno fondamentale della società non è cambiato. L'idea del rapporto tra élites e classi subalterne, intese come l'insieme dei <e non eletti », è rimasta, nella· sua essenza, quella di sempre. Se ha ricevuto approfondi18 Bibiiotecagi nobianco

menti e raffinamenti, questi non ne hanno intaccato il nucleo sostanziale. A suo sostegno sta l'osservazione della storia. In ogni tempo l'umanità fu divisa in due parti: le classi superiori e le classi inferiori. Nell'intreccio smisuratamente complesso dei fatti umani, ·in cui sembra prevalere ora l'interesse economico, ora l'ideale religioso, ora il bisogno psicologico di affermazione della personalità, ora lo slancio creativo o critico della cultura, la distanza tra le due parti della· società si perpetua attraverso tutte le situazioni storiche. Per tutto il corso della storia umana l'iniziativa, l'impeto vitale, il vigore creativo appaiono prerogativa: delle élites, qualunque sia la società in cui operino. Non dunque come dogma metafisico, bensì come risultato univoco dell'indagine storica, nasce l'idea che lo sbalzo che separa' le élites dalla maggioranza degli uomini rientri nell'ordine naturale, o strutturale, delle cose di questo inondo. Ciò che è molto mutato è il modo di formazione delle élites. Dapprima è stata determinante la forza; poi s'impose il principio del sangue, a cui s'a·ggiunse quello del patrimonio; nell'epoca moderna si è affermato il 1Jrincipio dei meriti personali. Gli ultimi tre sono i princìpi fondamentali cl1e regolano oggi la formazione delle élites; ancl1e se il principio della forza non si può dire davvero del tutto eliminato, come le vicende dell't1ltimo cinquantennio dimostrano. Nella democrazia moderna, ha: scritto il Mannheim 1 , « le élites sono una mescolanza di uomini e donne fortunati, che hanno raggiunto la loro posizione grazie ad uno o più dei tre princìpi ». L'ampliamento della base di formazione ha fatto considerevolmente aumentare l'ordine di grandezza delle élites. Oltre ad essere più diversificate ed a1ticolate, esse appaiono oggi numericamente assai più consistenti che in passato. È vero che sono anch'esse disposte secondo una certa gerarchia, e che la distanza tra le élites superiori e quelle inferiori è sotto certi aspetti ragguardevole: nel mondo contemporaneo sono stati ammessi nella sfera della· ruling class - attraverso le nuove istituzioni, come i sindacati, i partiti di massa, i mass media, ecc. - individui che restano a notevole distanza dalle élites di tradizionale formazione. Ma il salto che divide la· minor pars dalla major pars è stato soltanto spo- . stato. In 111p1aese di parecchie decine di milioni di abitanti i privilegiati per vario titolo possono ammontare ad alcuni milioni, restando però 1 KARL MANNHEIM, L'uomo e la società in un'età di ricostruzione, trad. it., Edizioni di Comunità, 1959, pag. 86. 19 Bibliotecaginobianco

immutato il mecca11ismo fondame11tale del rap1Jorto tra élites e maggiora·nza dei cittadini. La democrazia moderna, nei suoi esempi migliori, ha creato la « società aperta ». Ha abbattuto, cioè, quei diaframmi che j11 passato riusciva110 a impedire a gran 1Jarte degli individui st1perdotati delle cla:ssi inferiori di far valere le loro carJacità e i loro meriti per salire ai gradini alti della scala sociale. È git1sta1ne11te uno dei st1oi vanti 1naggiori. D' a1tronde, pro1Jrio per effetto della « società aperta » il salto tra élites e major pars tende, 1Jit1ttosto cl1e ad abbreviarsi, ad allu11garsi. Giaccl1è coloro cl1e nella società aperta si dimostrano i11capaci di dive11tare membri delle élites, sia 1Jure di quelle di livello 1JiÙbasso, forniscono quella cl1e sembra la prova sicura della loro co11ge11ita inferiorità. Non è che questa prova venga ufficial1nente codificata, ma è indubbio che nella 11sicologia così dei membri delle élites come di tt1tti i non promossi, la nozione dicotomica della società 11erist1lta rafforzata: la contra1Jposizione tra major e minor pars si frt, nella 1nente di tt1ttL ancor più lucidamente perst1asiva. Così la 1naggioranza, nella democrazia 1noclerna, finisce per assu1nere agli occl1i delle élites I' aspetto di massa. La sua evidente inca1Jacità di e1nergere al livello della mentalità, clei gusti, <lei modi di vita clelle élites l)rese nel loro co1n1Jlesso la fa a1J1)arire a1norfa, a11onima, ottusa. La sua congenita inferiorità co1nporterebbe, a rigar cli logica, cl1e si riducessero i suoi cliritti; 1na·IJroprio a c1uesto la coscienza morale, nelle democrazie cli più solida tradizio11e, non l)UÒ consentire. Il co11cetto cristiano della dignità della 11ersona tuna11a, il mito retorico del comrnon man, gli strascichi delle infatuazioni l)OIJulisticl1e, la l)Ossente realtà dei sindacati e dei 1Jartiti di massa, selezionatori di nuove intraprendenti élites, vietano di 1Jrendere in considerazione la legalizzazio11e dell'inferiorità delJa maggioranza. Perciò c1uesta continua ad eleggere, e in misura numericamente detern1inante, le caricl1e 1J11bblicl1edal più basso al più elevato grado, e frt1isce di tutte le libertà concesse dalla legge. Con essa si debbono fare continuamente i conti; di più: ad essa si può fare appello. Qt1est'ultimo è l' as1Jetto che più preocct11Ja le élites depositarie della tra·dizione democratico-liberale. La storia rece11te è dominata da vicende cl1e molti interpretano come t111processo di « democratizzazione 11egativa ». In alcuni paesi nt1ove élites, o più esattamente combinazioni di nuove élites e cli grt11)pi a111Jartenenti alle veccl1ie élites, l1anno conquistato - facendo appello alla massa, ossia 1na110vrandola cinicamente - il potere IJolitico, distrt1ggendo u11aparte della 20 Bibliotecaginobianco

rulirig _ class esistente e rivoluzionando tutte le gerarcl1ie stabilite; e da t1ltiJ;nohanno tentato di im1Jorre su scala mondiale la nuova struttura· gerarcl1ica, con un'aggressione che è stata neutralizzata solo a prezzo di enormi sacrifici. Nessun pericolo quando i gruppi che formano la ruling class l1anno un comun denominatore di convinzioni e di regole morali: i contrasti interni sono affrontati e di volta in volta composti, • senza il rischio di perdere nel frattempo il controllo della massa. Il pericolo sorge quando questa base comune viene meno o non può esser stabilita, e i dissensi tra vecchie élites, o tra vecchie e nuove élites, diventano radicali e tendono ad essere risolti drasticamente, facendo ar)pello alla massa: il successo andrà alle élites più disposte ad eccitare gli istinti elementari della massa, a c1uelle più spregiudicate nella scelta dei mezzi per la conquista· del potere. La ricerca dei modi per neutralizzare queste degenerazioni della democrazia diventa sempre più assillante per le élites di tradizione democratico-liberale. Soprattutto le élites culturali avvertono ]a gravità del problema, e l'urgenza di un'appropriata soluzione. Non è possibile nè ammissibile tornare indietro; d'altronde i fatti inquietanti si susseguono troppo rapidamente per poter confidare soltanto nella forza della tradizione e nelle risorse equilibratrici della ragione. La massificazione si estende dalle antiche clemocra·zie ad altri paesi, a tutti quelli cl1e via via si inseriscono nel mondo moderno, per effetto di trasformazioni economiche e 1Joliticl1e ormai improrogabili. La spinta più potente alla massificazione sembra data dall'incessante progresso tecnologico. Da u11 lato, esso offre alla· ruling class sempre nuovi mezzi per consoliclare e aumentare i propri privilegi, e insieme per appagare i bisogni fondamentali della massa, eliminando i tradizionali risentiinenti e cercando di prevenire il sorgere di nuove insoddisfazioni. L'appagamento, nei paesi più riccl1i ed economicamente piì1 dinamici, può estendersi ancl1e ai bisogni minori e minimi; così la massa americana, ben pasciuta e motorizzata, viene sommersa da merci e da gadgets d'ogni sorta, intesi a soddisfare, e spesso a suscitare i più effimeri capricci (a molti pare cl1e il 11rinci1?io.del pane11i et circenses abbia assunto là una portata giammai sospettata). Dall'altro, proprio al progresso tecnologico, alla tecnicizzazione di ogni aspetto pubblico e privato della vita, vengono ricondotti i fenomeni descritti dai sociologi e denunciati dai letterati: la tendenza dell'uon10-n1assa a trasforn1arsi in uomo-robot, privo di vita interiore, di raziocinio, di coscienza morale, di fantasia; capace solo di riflessi condizionati, dotato solo di impulsi 21 Bib1iotecagniobianco

meccanici standardizzati. Questo processo minaccia di dissolvere, alla · lunga, i vantaggi che finora la ruling class - e in primo luogo le élites economiche e organizzative - ha tratto dall'ininterrotto avanzamento tecnologico. La « robotizzazione » della massa metterebbe in pericolo non solo i privilegi delle attua-li élites, ma anche valori che trascendono gli interessi costituiti: i valori stessi della libertà e della democrazia. Quel processo potrebbe modificare profondamente, in senso negativo, i modi di formazione delle élites: esso non può che incoraggiare la formazione di élites di tipo totalitario. Non solo nella politica, ma altresì 11elle' conomia, nell'esercito, nella· cultura dei mass media, ecc., la formazione, e il progressivo sopravvento, di élites di natura totalitaria sarebbe il logico pendant della massa robotizzata. I valori democratico-liberali, e le élites che ne sono in varia misura e con varia convinzione depositarie, scomparirebbero dalla scena del mondo. Orwell, nel suo 1984, ha i1nmaginato il punto d'arrivo di un tale processo. Così, paradossalmente, proprio alla società che ha prodotto le idee di emancipazione, elevctzione, eguaglianza - leit-motiv della sua storia recente - toccherebbe in sorte dr prender atto di quell'inferiorità della maggioranza di cui le élites del passato non avevano mai dubitato, e che avevano sempre tradotto in una decisiva diversità di piani. L'immagine della· società come un organismo paragonabile al corpo u1na~10- una immagine fondamentale, che dall'oratoria di Menenio Agrippa si è trascinata, praticamente immutata, fino agli odierni discorsi da caffè dei funzionari di banca - ha· sempre avuto lo scopo di blandire la maggioranza. Le parti del corpo umano - nobili e meno nobili - sono tutte, sebbene in varia proporzione, di carne e sangue, e anche lo scheletro che le sostiene è tutto di una medesima materia. Le due parti essenziali della società non si trovarono mai in questo tipo di comt1nione: furono sempre separate, non già da diversità cli funzioni, ma da uno sbalzo strt1tturale. Ci si riferisce qui ai rapporti tra gr11ppi sociali, ovviamente: sul piano dei rapporti individt1ali, e massimamente su quello dei rapporti mistico-religiosi, la comunione è sempre stata esaltata, e, anche se infrequente, è stata però possibile. Nella dimensione sociale, invece, la metafora corporale è stata sempre ingan11evole, giacchè non corrispondeva nè alla realtà storica1 oggettiva nè all'atteggiamento soggettivo delle élites. I tempi moderni hanno formalmente codificato il principio dei meriti personali come moralmente superiore a quelli del sangue e del patrimonio. È un principio che riguarda direttamente la major pars, 22 Bibliotecaginobianco

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