Nord e Sud - anno III - n. 19 - giugno 1956

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna . ANNO III * NUMERO 19 * GIUGNO 1956 BiblbtecaGino Bianco

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Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Bibloteca Gino Bianco

• SOMMARIO Federico Gozzi Ferdinando Isabella Editoriale [ 3] Il Medio Oriente e l'Italia [9] Lo Stato, i Coniitni, /iaScuola [20] GIORN.AT,EA PIÙ VOCI N. d. R. Bianco e tiero [38] Raffaello Franchini Un bimbo così piccolo... [ 45] Silvestro Delli Veneri L'impresa artigiana [ 48] Salvatore Cambosu Carbonia [531 Giorgio Tutino l-'aPasqita turistica a Napoli [57] DOCUMENTIE INCHIESTE Joseph Rovan TJnamissione di ed14cazionepopolare nell'Italia meridionale [ 64] Felice Ippolito L'itidustria delle materie prime nel Mezzogiort10d'Italia [72] IN CORSIVO [85] CRONACHEE MEMORIE Lidia Herling Croce Il romantico Giuliano [88] Vittorio de Caprariis Augusto Graziani Giuliano Rendi Una copia L. 300 • Estero L. 360 Abbonamenti a Italia annuale L. 3.300 semestrale L. I. 700 Eatero annuale L. 4.000 semestrale L. 2.200 LETTEREAL DffiETTORE [109] RECENSIONI L'epistolario di De Sanctis [ 112] Piani/icazione e progresso sociale [ 116] La, Germania contemporanea [ 123] DmEZIONE E REDAZIONE: Napoli - Via Carducci, 19 - Telefono 62.91S Nord • Sud e Nuova Antologia Italia lllllluale L. 5.500 Estero » L. 7.500 DISTRIBUZIONE E ABBONAMENTI Amministrazione Rivista Nord e Sud EJtettuare i Tersamenti sul C. C. P. n. 3/34552 intestato a A.moltlo Honclatlori Editore • Milano Bibloteca Gino Bianco Milano - Via Bianca di Savoia, 20 Tel. 35.12. 71

Editoriale La sensibile flessione elettorale dei comunisti a vantaggio dei socialisti, la liquidazione politica del nazionalfascismo, il successo diffuso della socialdemocrazia e la relativa ripresa dei repubblicani nelle loro tradizionali zone d'influenza: sono questi i dati fondamentali delle elezioni del 27 e 28 maggio; e questi, altresì, dovrebbero essere i dati fondamentali di orientamento per lo sviluppo della lotta politica italiana nei prossimi anni. Nella « nota della redazione >> scritta prima ancora delle elezioni, abbiamo espresso con estrema chiarezza - anche nei confronti di giornali amici - il nostro pensiero sulla stanca sopravvivenza del quadripartito, sui rapporti tra Nenni e Saragat, sull'apertura a sinistra, sull'atteggiamento da tenere nei riguardi dei comunisti. Non ci sembra necessario rettificare nulla di quello che si può leggere più avanti, in questo stesso numero della rivista: le elezioni hanno confermato alcune nostre valutazioni e hanno posto i problemi che noi avevamo individuati e sui quali appunto avevamo segnato le nostre, posizio11i.Giova piuttosto sviluppare alcuni punti che sono già al centro della polemica post-elettorale. Il primo di questi punti è quello che riguarda l'atteggiamento dei democratici verso i comunisti. È evidente che quando si chiede, come noi chiediamo, una ferma e intransigente politica di isolamento dei· comunisti, non si chiede in alcun modo una politica di « discriminazioni· anticostituzionali». È appena necessario ricordare che quando si è parlato di « misure ammi11istrative », discriminatorie nei confronti di questa o quella categoria di cittadini, Nord e Sud è insorta a difendere le leggi e lo spirito di uno stato di diritto. Ma accusare di politica «discriminatoria>>una certa coalizione di partiti che ti_enefuori da eventuali maggioranze uno a più altri [3] BiblotecaGino Bianco

partiti è soltanto un espedz'enteper divagare ed imbrogliare le carte. I comunisti lo sanno benissimo e se oggi ricorrono a questa estrema arma di propaganda è perchè oggi essi sentono che il cerchi(?dell'isolamento si stringe /Sempre di più e accelera e aggrava la lor9 crisi. E può !vuotarli di ogni ~funzione: poichè di tanto si rafforza la sinistra· democratica di quanto si -indebolisce la sinistra totalz'taria.Questa dimostra ormai di essere alle prese ron gravi difficoltà, che non sono solo conseguenza della crisi del comunismo internazionale, ma anche di fatti autonomi della classe operaia italiana, della storia italiana degli ultimi dieci anni: la politica di isolamento dei comunisti è una politica di co-nsolidamento e di espansione della democrazia. Le elezioni del maggio l'hanno ancora una volta dimostrato, con buona pace del Contemporan-eo che ci aveva tacciato di provincialismo per quanto a questo proposz'to scrivevamo nell'editoriale del n1,1,meroscorso. È evidente però che la politica di isolamento del P.C.l., proprio nella misura in cui si deve ora sviluppare attraverso la massima articolazione della sinistra democratica, esclude assolutamente certe soluzioni in sede di formazione delle giunte. Diciamo subito che siamo contrari a una semi~ nagione di gestioni co1nmissariali come nuovo sistema, più o meno tenzporaneo, di amministrazione dei comuni; ma siamo ancora più risolutamente contrari a qualsiasi « apertura a destra», palese o clandestina che sia. A parte ogni altra considerazione, sembra elementare principio politico quello che suggerisce di non concludere alleanze con le forze che sono in crisi o in via di disfacimento, da cui il corpo elettorale dimostra di volersi definitivamente distaccare. E francamente abbiamo ancora abbastanza con- .siderazione della intelligenza politica dei dz'rigenti democristiani per poter pensare che essi abbiano in animo di elargire un dono gratuito ai monar- ,chici e ai neofascisti. E del resto basta guardare ai risultati siciliani: estromesse le destre dal governo regionale, come dalle amministrazioni di Palermo e di Catania,le forze democratichesi sono sensibilmenteconsolidate • ed anzi hanno mostrato segni di ripresa pii't eloquenti che altrove, mentre pit't significativa e stata la fiessione comunista e nazionalf ascista~ Meraviglia dunque che da qitalche uomo di governo e da qualche autorevole foglio di stampa sia stata prospettata la semplicistica soluzione di fare le << aperture >> a sinistra 1zelNord e a destra nel Sud, quasi si trattasse [4] Bibloteca Gino Bianco

di due paesi diversi e quasi il Mezzogiorno fosse una sorta di Patagonia i cui esperimenti politici non hanno peso sulla vita generale italiana.E giova invece prendere atto con compiacimentodella posizione assuntadal PSI: appoggiarenel Mezzogiorno il partito di maggioranzaanche quando esso dovesse orientarsi a favore di giunte minoritarie democristiane, perchè qui « bisognaaiutarela D.C. a rompere l'alleanza con le destre, e perciò si deve offrire un appoggio senza contropartita». Questo è un atto di responsabilità, di cui va dato riconoscimento al partito dell'on. Nenni. Il solo modo di uscire da queste e simili contraddizioni, di rendere definitiva la chiusura a destra e di evitare la generalizzazione delle gestioni commissariali, è quello perciò di rifansi all'indicazione del corpo elettorale e di trarne coerentemente tutte le conseguenze. Quali sono state queste· indicazioni? Concordiamo in ge11ercdecon l'articolo ehe Codigrtola ha scritto su Nuova Repubblica. E particolarmente con quanto egli afferma circa << la tendenza generale dell'elettorato>>: « Se la tendenza generale dell'elettorato è quella di spostarsi a sinistra 7 essa non si è rnanifestata però meccanicamente fino all'estremo limite dello schieramento di sinistra) nel qual caso i massimi beneficiari della tendenza sarebbero riusciti i co1nu1iisti e poi i socialisti del P.S.l. Al contrario, l'elettorato ha espresso in modo iriequivocabile la sua persu,asione che lo spostamento a sinistra debba trovare il suo punto d'arrivo) e di arresto) sulle posizioni socialiste. Non soltanto il declirio del P.C.I. ne è una conferma palese, ma ancora più significativo appare il confronto fra i voti espressi in favore del P.S.I. solo o alleato con V .P. nelle elezioni comitnali) e i voti espressi per i candidati comuni del P.S.I. e del P.C.I. nelle proviriciali. Il divario è di tale entità da non potersi semplicemente attribuire ad incertezze di scelta 1:el simbolo o ad altre cause occasionali: anzi esprime una precisione di scelta politica che addirittura meraviglia ». Il corpo elettorale, dunque, ha voluto indicare, col premio dato sopratutto ai socialdemocratici, la sua preferenza per una politica d'impegno· democratico, di riforme e di liberalizzazione, con un << suo punto d'arrivo,. e di arresto,sulle posizioni socialiste>>. È evidente che la composizione delle giunte deve ispirarsia questa preferenza piuttosto che contraddirla. Le formule potranno essere le più varie e saranno naturalmente anche condizionate alle situazioni peculiari di ciascun comune: questo però non vuol [S] BiblotecaGino Bianco

dire il « caso per caso» e l'assoluta non-discriminazione delle alleanze; vuol -dire solo che tali alleanze dovranno essere cercate tenendo fermo alle tre .condizioni che abbiamo indicato: evitare le gestioni commissariali, isolare le destre, isolare i comunisti. Abbiamo accennato ad un premio dato ai socialdemocratici: giova insistere che il successo della socialdemocrazia è il dato più positivo di queste elezioni, la più rassicurante garanzia di sviluppo delle nostre istituzioni democratiche. E dobbiamo dire che malgrado il diffuso scetticismo pre-elettorale non siamo stati colti di sorpresa da questa manifestazione di vitalità del P.S.D.I. Non solo perchè avevamo presente l'insegnamento di Pareto sulla « perrrianenza degli aggregati◄ » e quell'esperienza che ammonisce essere più agevole la ripresa dei partiti storici, come P.S.D.I. e P.R.l., che l'accreditare partiti nuovi; ma anche perchè avevamo colto per molteplici segni una crisi di ridimensionamento dell'estrema sinistra e sapevamo che inevitabilmente questa crisi avrebbe rafforzato anche la corrente più francamente democratica del socialismo italiano. Solo la tendenza a giudicare moralisticamente gli uomini e i partiti politici poteva ind11-rre a sottovalutare queste indicazioni e a dare per scomparsi o quasi scomparsi quei partiti di centro-sinistra che si erano impegnati da tempo in una politica costruttiva, adempiendo, ad onta delle apparenze elettorali ( 1953) e delle facili scomuniche, ad una funzione fondamentale, e salvaguardando, 11egli anni più oscuri, le istituziotii democratiche. Nel maggio 1955, alla vigilia delle elezioni sicz?iane, avevamo già indicato le nostre perplessità e il nostro dissenso verso simili atteggianienti moralistici. Non potremmo esprimere meglio di allora il nostro punto di vista sul P.R.I. e sulla socialdemocrazia. E perciò riproduciamo le parole di tdlora: « Tutte le volte che il P.R.I. o il P.S.D.I. hanno puntato i piedi _ per la riforma agraria) per la riforma fiscale) per la liberalizzazione degli scambi) per la riorganizzazione dell' I.R.I., per limitare il prepotere dei monopoli) e via dicendo - la così detta stanipa indipendente ha commentato con toni aspri le Zo·ro«pretese». E tutte le volte che questi partiti hanno concluso un accordo per realizzare) in sede di governo) parte del loro programma, si è gridato da sinistra che e.ss1:si prestavano ad assolvere 'Un ruolo servile nei confronti del partito maggiore. Sono queste le difficoltà obiettive di un.a coridotta politica ispirata alle esigenze di costruzione democratica in condizioni di estrema difficoltà. Certo, [6] . I • • BiblotecaGino Bianco

Pacciardi e Saragat) Matteotti e La Malfa) Reale e Vigorelli) hanno commesso errori) hanno subìto qualche situazione che non doveva essere subìta) hanno irrigidito qu,alche rapporto che doveva essere trattato con maggiore elasticità: chi è nella mischia conirnette di questi errori. Ma la funzione degli osservatori politici e dei gru.ppi di pressione complementare è di giudicare equa 1 nimemente) di correa;gere e di suggerire. Oggi) invece) è di moda, quasi) da parte di certi critici del centro-sinistra ( che vanno ad allinearsi inconsapevolnien,te con Il Tempo e con Il Giornale d'Italia), d'infierire con giudizi moralistici contro i repubblicani e i socialdemocratici. A qitesti critici si deve dire che il loro atteggiamento è astratto e spesso ingeneroso. Noi rispettianio quei gruppi intellettuali che cercano di superare i difficili termini del centrismo per suggerire nuove formule)· rispettiamo quei nitclei politici che cercano per altre vie di allargare l'inflitenza della democrazia laica)· rispettiamo tutti coloro che sono impegnati a cercare nell'avvenire altri e più sicuri sbocchi alla democrazia italiana. Ma rispettiamo anche coloro che si battono in prima fila) a contatto con le maggiori difficoltà del presente) sbagliando mag·ari) ma pagando sempre di persona o) se così si può dire) "di partito" ». Le elezioni siciliane sembrarono confermare le previsioni apocalittiche: ma in realtà quelle elezioni si svolsero in condizioni particolarmente svantaggiose per socialdemocrtici e repubblicani (legge elettorale regionale), la crisi interna del P.C.I. si lasciava intravedere ai vertici ma non si era ancora irradiataalle basi, certi grandi eventi esterni non erano znter- .venuti ad aggravarla ed accelerarla.Allora i pessim1:smisenibrarono giustificati: oggi invece appaiono giustificate le previsioni di· quelli che come noi pensavano che sarebbe venuto il giorno in cui le forze tradizionali·del -centro-sinistraitaliano, battute dalla polemica da ogni parte e impegnate in una fatica logorante, non avrebbero più <<pagato>> e avrebbero comin- • • czato a << riscuotere ». Noi crediamo che questa non sia l'ulteriore fiuttuazione di un instabile corpo politico; e riteniamo invece che possa essere il principio di una progressiva espansione delle forze della sinistra democratica, nel quadro della generale espansionedella vita libera nel nostro Paese. È difficile dire oggi quali saranno i modi di questa espansione e attraverso quali vie la sinistra democratica potrà consolidarsi.Quello che si può dire però è che i nodi fondamentali di questa espansione sono nella socialdemocrazia. La stessa unificazione socialista,ora, dopo queste elezioni, si presenta come un possibile e auspicabile incontro fra le due correnti del socialismo italiano [7] Bibloteca Gino Bianco

'\ su una piattaforma di politica democratica, e non, come alcuni osservatori troppo precipitosi avevano immaginato, la facile digestione delle estreme frange socialdemocratiche da parte del P.S.l. Naturalmente, a maggiori suffragi corrispondono maggiori responsabilità: i voti guadagnati non dovranno essere soltanto un motivo di compiacimento, ma un'arma di battaglia democratica. Questa battaglia deve guardare a tre obiettivi fondamentali: l'iniziativa italiana per il rilancio europeo, l'austera politica economica che è necessaria per realizzare il Piano Vanoni, la liberalizzazione della vita pubblica. Verso questi obiettivi, i socialdemocratici,e i repubblicani, possono tendere con maggiore energia perchè sono stati appunto confortati da maggiori suffragi e ne possono ricavare maggiore forza politica. Quanto alla nostra parte, essa è già segnata nella logica delle nostre posizioni politiche. I partiti di democrazia laica ci hanno sempre trovati al loro fianco nei momenti più difficili. Riteniamo che ora vl sia unr:if unzione fondamentale, un compito di primaria importanza, che solo una pubblicisticamodernamente liberale può assolvere, e che noi ci siamo proposti di assolvere,fin dai momenti più difficili appunto. È una funzione apartitica, che consiste nel promuovere, e fare adottare, dai partiti più solleciti , delle esigenze di una Italia moderna, quelle soluzioni che traducano tali esigenze in concretezza di opere. È una funzione di elaborazione critica; di scrupolosa osservazione, di correzione,.e talvolta magari anche di polemica. Si obietteràforse che questo significa dimettersi dall'impegno politico attivo: noi crediamo invece che questo sia un impegno politico coerente e consapevole, più attivo certo degli inutili e tumultuosi attivismi; poichè misura realistz:camentele esigenze e le forze e insieme la molteplicità delle funzioni politiche in una democrazia moderna. E del resto, come si può ricavaredal nostro discorso sui recentissimi risultati elettorali, è proprio il contrario di una valutazione pesszmisticadella situazione italiana, è proprio il giudizio spassionatoche questa sembra ora·avviarsi verso·una stabilizzazione democratica, che comanda la nostra scelta di questo momento. Non va forse ben al di là dei ristretti limiti di una azione meramente partitica ed elettoralistica la funzione che nell'attuale congiuntura il liberalismo esercitain quella nazione che Croce doveva chiamare un giorno « la madre dell'idea liberale>>? [8] Bibloteca Gino Bianco

Il Medio Oriente e l'Italia di Federico Gozzi Per intendere il valore effettiva delle tensioni politiche che oggi rendono così gravemente minacciosa la situazione nel Medio Oriente è necessario non lasciarsi fuorviare dai colpi di fuoco che sono stati esplosi alle frontiere tra Israele e i Paesi arabi, o almeno non lasciarsi fuorviare nella intelligenza delle ragioni dell'improvviso infittirsi di tali colpi di fuoco negli ultimi mesi. E meno ancora ci si deve abbandonare ai trasporti ottimistici per le buone disposizioni (tale è ~Imeno l'impressione nel momento in cui scriviamo) che il Segretario Generale delle Nazioni Unite sembra incontrare nelle varie capitali da lui visitate; o per le rassicuranti dichiarazioni che l'Unione Sovietica ha fatto all'inizio e ~Ila fine del viaggio a Londra di Bulg~nin e di Krushev. Certo non c'è che da rallegrarsi per ogni accenno di schiarita: ma non si deve dimenticare che la questione fondamentale resta quella delle ragioni che hanno prodotto il rincrudirsi della tensione arabo-palestinese. Anche se si evitasse il rischio di una guerra aperta tra Israele e la Lega Araba, questo non risolvereb·be il problema del Medio Oriente, ma solo ne muterebbe i termini immediati. Solo, perciò, in una esatta valutazione di quelle ragioni si potranno intendere le dimensioni vere della questione e intravvedere in conseguenza le possibili soluzioni politiche. Si può dire che quel che caratterizza oggi la situazione medio-orientale e la fa così diversa anche solo da un anno fa è l'intrecciarsi di due ambizioni: quella egiziana e quella sovietica. Più scoperta e ingenua, se si vuole, la seconda, ma anche più difficile da arginare e controllare; più nascosta, più ricca di sfumature, la prima, ma anche ,assai meno pericolosa di quel che sembra a prima vista. Si potrebbe dire addirittura che [9] Bibloteca Gino Bianco

malgrado i sogni dei dirigenti del Cairo, malgrado le loro p.ose gladiatorie e le loro raffinate furbizie, o intenzioni di furbizia, l'ambizione egiziana, considerata in una prospettiva a lunga scadenza, fuori dei successi effimeri di p·restigio, è condizionata a quella sovietica, con scarsissime possibilità di condizionarla a sua volta. È· sufficiente a provarlo la sorpresa, il disappunto e la rabbia di taluni dirigenti della Lega Araba inn.anzi alla dichiarazione con cui Mosca, pur polemizzando contro gli imperialisti e pt1r sottoline~ando il diritto di ognuno all'indipendenza, si dichiarava disposta a sostenere eventuali decisioni di intervento del Consiglio di Sicurezza dell'O.N.U. in caso di conflitto generalizzato tra Israele e la Lega Araba. I dirigenti comunisti - e il comunicato di Londr,a l'ha confer- _mato - fanno t1na politica assai più scaltra e lungimirante di quel che j dirigenti ara'bi sospettassero; una politica in cui la Lega Ara'bta stessa può al momento opportuno essere degradata dal ruolo di protagonista a quello tradizionale della vecchia commedia francese: les utilités. Per paradossale che ciò p.ossa sembrare, la ragione principale dell'improvviso peggioramento della situazione nel Medio Oriente è proprio in qt1el patto di Bagdad che poteva, a tutta prima, apparire come un elemento fondamentale del consolidamento delle posizioni occidentali nella regione. Dopo l'ab1 bandono di Suez l'Inghilterra aveva il problema di conservare -<lelleposizioni strategiche che garantissero insieme gli interessi britannici ,e quelli del mondo libero in generale. Superata, con la caduta di Mossadeq e con l'accordo sui petroli iraniani, la crisi dei rapporti con Teheran, era sembrato ai dirigenti di Londra che la copertura str,ategica e politica _.potesseessere assicurata da un rafforzamento delle basi cipriote e da un patto di difesa mutua che legasse alcuni Paesi ,arabi tra loro e tutti insieme alla Gran Bretagna. Nel patto di Bagdad si unirono oltre l'Irak e l'Iran .anche la Turchia e il Pakistan: agli osservatori politici che amano la simmetria e la superficie continua poteva sembrare anche che il patto di Bagdad offrisse alla catena delle all~anze difensive occidentali l'anello che ·mancava. La presenza della Turchia nell'alleanza atlantica e quella del ·Pakistan nel patto di difesa del Sud-Est asiatico gar,antivano appunto la ·saldatura alle due estremità. NATO, METO, SEATO: ma qual era la sostanza dietro le sigle? Intanto il rafforzamento delle b,asi cipriote, testimoniando come una ferma volontà dell'Inghilterra a non abbandonare l'isola, provocava un [10] Bibloteca Gino Bianco

rincrudimento dell'irredentismo fìloellenico degli isolani e una nuova ondata di nazionalismo irredentista nella stessa Grecia. Ed è appena necessario aggiungere che nell'isola come in Grecià si aggravava il risentimento anti-inglese: ed è facile immaginare quanto poco vi guadagnasse l'alleanza atlantica (di cui la stessa Grecia fa parte) proprio in un momento particolarmente delicato. Si sa che il patto b.alcanico (Grecia-Iugoslavia-Turchia) aveva contribuito non poco, appunto per la partecipazione iugoslava, a rassicurare l'estrema ala orientale della NATO, coprendole in qualche modo le spalle. Ma l'improvviso miglioramento dei rapporti tra la Russia e la Iugoslavia, se aveva tolto molto alla rigidezza della situazione balcanica, aveva anche allentato i rapporti del Patto, prima ancora si può dire, che essi si consolidassero veramente. I dirigenti di Belgrado hanno numerose volte ribadita la loro fedeltà all'alleanza balcanica: ma sarebbe imprudente dire che di questa esista molto di più che la facciata. Ora la crisi <lei rapporti anglo-greca a proposito di Cipro interveniva proprio nel momento in cui la situazione di quella che abbiamo detto l'estrema ala orientale dell'all~anza atlantica si era fatta particolarmente delicata. Non solo; ma il patto di Bagdad legando strettamente la Turchia alla Gran Bretagna in una zona i11cui l'aiuto turco riusciva particolarmente gradito agli inglesi dava qualche diritto ai turchi alla riconoscenza di Londra. E questa riconoscenza si doveva misurare sull'intransigenza britanniCia a Cipro. Nella misura in cui il dialogo anglo-greco su Cipro si faceva colloquio a tre, con la partecipazione della Turchia, s1 bloccare la situazione cipriot,a con un ragionevole accordo tra Londra ed Atene diventava più difficile. Le pretese turche su Cipro sono fondate in apparenza sulla secolare appartenenza dell'isola all'impero ottomano e sulla fortissima minoranza (circa il 25%) turca che vi risiede; nella sostanza esse sono però fondate sul maggior peso politico e militare della Turchia rispetto alla Grecia in seno ali' alleanza atlantica e soprattutto sulla solidarietà a cui è tenuta l'Inghilterra verso il suo alleato nel patto di Bagdad. Si comprende facilmente che la Turchia, consapevole di non poter mai riprendere l'isola, preferisca che questa resti all'Inghilterra piuttosto che vederla divenire greca; si comprende anche che la Gran Bretagna per tutelare i suoi interessi strategici voglia restare .a Cipro. Non si riesce a comprendere, però, come l'interesse eminente del mondo libero, che in una prospettiva più ampia non si identifica con quello britannico, possa trovarsi tutelato in tale situazione. Il [Il] Bibloteca Gino Bianco

Times scriveva qualche mese fa che la presenza inglese a Cipro è il prezzo che l'Occidente deve p,agare per garentirsi la sta1 bilità della regione: non è eccessivo, però, supporre che, permanendo l'attuale stato di cose, l'Occidente si garentirà solo l'instabilità della regione. Tanto più che il problema strategico può essere risolto abbastanza agevolmente trasformando le basi inglesi di Cipro in basi .atlantiche e tanto più che Atene sembra disposta ad accettare il principio che la più parte di tali 'basi atlantiche restino in mani inglesi. Gli è che, come si è accennato, l'intransigenza inglese a Cipro è il prezzo che Londra paga per la partecipazione turca al patto di Bagdad. Quest'ultimo, dunque, accresce la frizione all'interno della stessa alleanza atlantica nel Mediterraneo orientale e porta quindi dei risultati. che non sono esattamente quelli previsti. Per quel che riguarda, poi, gli stati arabi, il patto di Bagdad ha avuto• il torto di apparire troppo scopertamente solo come un mezzo idoneo a tenere in piedi il controllo britannico dell'Iraq e dell'Iran, a garantire cioè· il predominio politico della Gran Bretagna. Certo il disegno di Londra non era così limitato; il guaio è, però, che esso apparve tale, soprattutto. quando sembrò che l'Ingl1ilterra volesse perfino forzare la Giordania ad aderire all'accordo. Un giornale .americano attribuì allora al colonnello> Nasser una battuta abbastanza spiritosa ed esatta: l'Inghilterra - avrebbe detto il primo ministro egiziano - avev,anella tasca destra la Giordania e nella sinistra i paesi del patto di Bagdad; ma ha voluto trasferire la Gior-· dania dalla tasca destra ,alla sinistra, e durante l'operazione questa le è sfuggita di mano. Comunque si deb-ba interpretare l'improvviso allontanamento di Glu1 bb Pascià, sta di f~tto che l'accordo della METO ha messo in moto il risentimento antibritannico nel Medio Oriente e ha contribuito. non poco a mobilitare le forze ultranazionalistiche della Lega Araba su posizioni che paiono neutralistiche e sono sostanzialmente anti-occidentali .. Il pericolo di compromettere tutta la politica occidentale nella regione è· all'origine della tiepidezza che hanno mostrata gli Stati Uniti nei confronti del patto di Bagdad; e lo stesso atteggiamento francese, seppure ha innanzi tutto altri motivi (i francesi non hanno ancora perdonato all'In-· ghilterra di averli praticamente espulsi dalla zo~), e se anche la sorda ostilità di Parigi non può essere messa sullo stesso piano della freddezza di Washington, sul piano concreto giunge agli stessi riultati. E francamente non si può dare del tutto torto alla diplomazia americana e francese [12] Bibloteca Gino Bianco

• <li aver differenziate le sue posizioni da quelle britanniche. Purchè, naturalmente, questa differenziazione non si riduca al piccolo machiavellismo di non puntare tutti insieme su una carta sola e si sistemi, invece, in un più v,asto disegno politico. Sembra difficile che la Francia, confrontata col problema algerino, possa dar essa vita ad un tale disegno; e le principali responsa'bilità vengono perciò agli Stati Uniti. Ora, appunto, non pare che si possa dire che il Dipartimento di Stato abbia preci~ato una p.olitica a lungo· termine per il Medio Oriente: ed è certo che una siffatta politica non vedrà mai il giorno finchè i dirigenti di Washington continueranno a blandire l'Egitto e ad alimentare così una guisa nuova di neutralismo, fatto di ricatti e di minacce di vendersi al miglior offerente. I principali difetti del patto di Bagdad erano, dunque, che esso alimentava la frizione nell'ala orientale dello schieramento atlantico e insieme favoriva lo scatenamento di un risentimento anti-occidentale in alcuni paesi della Lega Araba. Esso, però, era fondato anche su una valutazione abbastanza esatta della situazione del mondo arabo: cioè che tra i vari . paesi della Lega non vi era affatto unità, e che perciò il solo modo di spezzare le velleità di coloro che aspiravano alla leadership della Lega stessa, e si trovavano quindi costretti a fare una politiCiaesasperatamente nazionalista, era di portare alla superficie le contraddizioni nascoste. Il patto di Bagdad annullava il sogno egiziano della leadership araba e insieme metteva in evidenza il contrasto tra la di11astia hachemita e quella saudita. L'Arabia Saudita si trovò isolata e ribaltata su un Egitto ormai all' opposizione, e che la sua politica am'bigua nel Maghreb rischiava di isolare anche dalla Francia. A questo punto il Cairo aveva una grossa Ciartada giocare: deteriorare i rapporti con Israele, far divampare di nuovo la guerriglia o almeno il pericolo della guerra sulle frontiere arabo-pales~inesi. Solo così poteva essere richiamata la Persia, resa più tiepida la partecipazione al METO del Pakistan, messa in difficoltà la Turchia: quello della guerr,a santa contro Israele per la riconquista delle terre usurpate era l'unico mezzo per rifare l'unità del mondo arabo e instaurare quella funzione-guida in cui l'Egitto trovava l' ersatz per la frustrazione della mancata unificazione della valle del Nilo. Ma a questo punto l'Egitto ha fatto anche la mossa sbagliata: ha cioè praticamente consentito l'intervento dell'Unione Sovietica nella regione. L'aver chiamato in Italia Luigi XII e l'averlo messo in possesso del terzo della penisola e l'aver degradato il [13] Bibloteca Gino Bianco

paese a campo di battaglia di francesi e spagnoli per conquistare « dua terre» è l'accusa principale che Machiavelli muove ai Veneziani. Come si diceva all'inizio, l'ambizione egiziana è condizion.ata da quella s.ovietica e il gioco sfugge sempre di più dalle mani dei dirigenti della Lega. La situazione del Medio Oriente, è, dunque, caratterizzata innanzitutto dalle difficoltà interne di ogni stato ara'bo: la contraddizione sempre più aperta tra un assetto p.olitico ancora feudale (e di un feudalismo ormai senescente) e le esigenze economiche e sociali di una massa che non è più addormentata e che dopo ,aver saputo tener la piazza in nome della xenofobia e del nazionalismo si appresta a tenerla per altre e più concrete rivendicazioni; tale contraddizione provoca infinite frizioni ed un'instabilità endemica, il cui solo correttivo sembra essere offerto da giunte militari il cui potere appare in !ascesa dappertutto negli stati della Lega. A queste difficoltà occorre aggiungere le tensioni tra i vari stati arabi: ostilità tra la dinastia hachemita e quella saudita, tra l'Egitto e l'Iraq; risentimento della Siria nei confronti della Turchia per la perdita dell'Iskenderun e del Pakistan nei confronti dell'Afganistan che domanda l'indipendenza del Pushtu; risentimento dell'Egitto nei confronti del Sudan per la mancata unificazione della valle del Nilo; e, più generalmente, avversione del gruppo di Bagdad verso il gruppo del nuovo patto .ara'b,o (Yemen, Arabia Saudita, Egitto). Vi è finalmente il risentimento che oppone tutti gli arabi alla Palestina, quello antifrancese per la liberazione del Maghreb, quello anti-inglese; e, ultimo ma più importante di tutti, il fatto nuovo della presenza sovietica nella regione. Certo su alcune di queste difficoltà non si deve drammatizzare, poichè esse sono spesso quelle proprie che sogliono accompagnare le rapide trasformazioni politiche: e le rivendiéazioni nazionali, le asserzioni di puntigliosla indipendenza, coi contrasti e le frizioni che ne derivano, sono appunto manifestazioni di una importante evoluzione che si viene compiendo nel Medio Oriente. Pure di tutte è necessario tener conto se si vuole misurare una politica: e la necessità diventa imperiosa quando il paese che deve misurare una politica è un p,aese come il nostr,o. Da qualche tempo, infatti, si parla in Italia con molta insistenza di « nuovo corso >> della politica estera italiana nel Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale: e per coloro che hanno tenace memoria è parso anche di udire a volte accenti di un'epoca che si terieva per definitivamente tra- [14] Bibloteca Gino Bianco

• montata. Si è cominciato con l'inasprimento della crisi cipriota, si è molto~ insistito quando negli ultimi ìnesi la tensione sulle frontiere arabo-palestinesi sembrava dover degenerare in guerra. Nell'un caso come nell'altro; vi fu chi parlò (anche tra gli ufficiosi) di mediazione italiana. Di solito4 negli affari internazionali la mediazione si ha quando il possibile mediatore è invitato ad esercitare tale funzione o quando è tanto forte da poterla imporre: è appena necessario aggiungere che la famosa mediazione italiana non rientrava in nessuna delle Ciategorieche si sono dette. Per Cipro si osserva - e ognuno può ammirare la persuasività dell'argomento - che il nostro paese aveva avuta con Trieste una simile esperienza e poteva perciò meglio di ogni altro laiutare a risolvere la crisi anglo-greca. Per la guerra quasi calda d'Israele si è invocato l'eminente interesse italiano per la tranquillità della regione: argomento più ragionevole dell'altr.o, ma che trascurava il particolare che tutti gli altri paesi occidentali hanno il medesimo interesse eminente. Nell'uno e nell'altro Ciasosi è poi detto, err.oneamente, che saremmo la sola nazione non-colonialista dell'occidente; e si è· dimenticato che fino ad ieri siamo stati in Libia ed in Etiopia e si è dimentica¼ la campagna di Grecia. In una parola le voci ufficiose di mediazione italiana ci hanno scoperto inutilmente ed hanno allarmato le cancellerie· dei paesi nostri alleati, che hanno magari sospettato di qualche trama politica dell'Italia. Invece trame politiche non v'erano; ma v'erano soltanto ma-- nifestazioni velleitarie, come troppo spesso è accaduto in tutta la politica estera italiana dall'Unità in poi, improvvisazioni affatto destituite di senso1 comune e dettate solo da un curioso complesso d'inferiorità dei nostri politici e dei nostri giornalisti. Ora proprio perchè l'Italia sta nel Mediterraneo e deve avere una sua. politica, il problema di questa va meditato attentamente e vanno messe da. parte tutte le improvvisazioni. E va sottolinepta altresì la necessità di guardarsi da tutta la retorica a cui la destra si a'bbandona volentieri in simile materia. Gli articoli di fondo, i corsivi, le corrispondenze, che ci è capitatodi leggere negli ultimi mesi a proposito di Cipro come ~ proposito della tensione arabo-palestinese, sugli interessi inglesi come sulle intenzioni egi-- ziane, nei giornali indipendenti, non hanno apportato - è appena necessa-- rio dirlo - alcun contributo serio all'analisi della questione. A seconda della vivacità del risentimento anti-britannico dello scrittore e a seconda_ della tenacia della sua memoria politica era più o meno evidente l'odio. [15] Bibloteca Gino Bianco

<:ontr,ogli inglesi, il sentimento di una necessità dell'espansione della nazione, il gusto per le sconfitte altrui, il terrore della razza ·bianca sommers,a: ·ma tutti erano in chiave di una edizione riveduta del vecchio motto: arma .la prora ... E nessun contributo è venuto dall'estrema sinistra. Qui il rifiuto in blocco dell'impostazione della politi~a estera _italiana, dalla fedeltà atlantica allo sforzo di integrazione europea, porta a vedere nei recenti avvenimenti medio-orientali solo dei fatti nuovi che possono far saltare la struttura di tutta la politi~a occidentale. N.on si va, perciò, al di là di affermazioni generiche sulla necessità di una politica diversa da quella seguita .finora, che riconosca i fatti nuovi avvenuti in Asia o in Africa: in che cosa poi precisamente consista ques~ << politica diversa » è difficile inten- ,dere. Occorre guardarsi tuttavia, da un altro luog.o comune che è nella bocca <li molti, a.nche di sinceri democratici, per nulla tentati dalla retorica na- _zionalista o dai totali rovesciamenti vagheggiati dai comunisti. Questo .luogo comune tiene tutto nella frase: cerchiamo di penetrare nei mercati .del Medio Oriente per dare uno sbocco alle nostre industrie. Su tale punto conviene non farsi nessuna illusione: i mercati dei paesi arabi sono mercati poveri, anzi p.overissimi, còn scarsissime capacità di ~ssorbimento, e dove c'è già una guerra di industrie abbastanza forte tra i tedeschi, gli americani, gli inglesi e i francesi, cioè tra paesi che hanno un'attrezzatura industriale .maggiore della nostra, che producono veramente, almeno i primi due, a _prezzi di concorrenza internazionale, e sono abbastanza solidi per f~re una p.olitica di dumping. Quello della conquista dei mercati ara'bi è in gran parte un mito (proprio come quello del commercio coi paesi del blocco -orientale, che i comunisti te.ntano di accreditare), fond,ato sul disconoscimento di che cos'è un mercato di una zona depressa. E non vale dire, come talvolta si dice, che le relazioni commerciali con l'Italia, a differenza .di quelle con altri paesi, non darebbero nessun sospetto di colonialismo: perchè le relazioni commerciali, nella normalità dei casi, conoscono un solo elemento di discriminazione: i prezzi. Resta, dunque, il problema e l'esigenza: ma l'uno e l'altra ·vanno posti in modi affatto diversi. Il ministro Martino, nel discorso pronunciato ,a Palermo il 23 aprile, ·ha. avuto l'accortezza, pur tra la molta retorica mediterranea, di evitare i principali scogli che erano come connaturati all'argomento. Ma ques~ _prudenza e forse il luogo stesso in cui il discorso era pronunciato, il Cen- [16] Bibloteca Gino Bianco

• tro di Cooperazione Mediterranea, l'hanno costretto a tenersi sul generico, o almeno a limitarsi ad una dichi.arazione di lodevoli intenzioni. Chè certo non altrimenti può definirsi la speranza di un << piano» che unisca tutti i popoli mediterranei in uno sforzo concorde per una comune prosperità. Eppure proprio nella constatazione da cui l'on. Martino prendeva le mosse, essere cioè l'Italia un paese che partecipa insieme della realtà della progredita Europa centro-settentrionale e di quella della depressa Europa meri- . dionale (una constatazione non nuova pei lettori di questa rivista), erano le premesse, quasi si direbbe necessarie e naturali, di una politica mediterranea del nostro paese. Di una politica, cioè, che non vagheggi iniziative clamorose, espansioni economiche folgoranti, rovesciamenti calamitosi, ma si ponga concretamente il problema della partecipazione italiana ad una politica comune degli alleati occidentali, delle libere democrazie nel Medio Oriente. E che si ponga tale problema prima ancora che con fini o ambizioni politiche, come il problema dello sviluppo economico e sociale della regione. È, ci si perdoni l'espressione, una impostazione << meridionalistica >> della questione . . --- Il problema della stabilità politica del Medio Oriente, della sua resistenza all'infiltrazione comunista, è innanzi tutto un problema di sviluppo economico e sociale. Quelli che pensano alla conquista dei mercati dovreb .. bero riflettere che qui la prima cos,a da fare è creare dei mercati, creare una domanda di merci. Si tratta di spezzare le ultime sopravvivenze feudali, di sanare le più gravi contraddizioni, innanzi tutto quella che fa coesistere una piccola società di feudatari che ancora controllano le masse con gli slogans nazionalistici accanto a centinaia di migliaia di famiglie il cui reddito è più basso del mondo, di creare le premesse indispensabili di un'economia moderna: si tratta, insomma, di qualcosa di simile a quello che si è fatto e che si viene facendo nel Mezzogiorno d'Italia. È un'illusione (dei dirigenti ara1 bi o di chiunque altro la nutra) che un processo di modernizzazione di questa portata si possa realizzare con le royalties del petrolio medio-orientale. E sarebbe un'illusione ancora più grave continuare a pensare che la ricchezza e il potere futuro degli Stati del Medio Oriente possa continuare ad essere fondato all'infinito sul petrolio. Certo il petrolio è importantissimo, perchè esso è necessario per far andare carri armati ed aeroplani: ma non è un mistero per nessuno cl1e senza gli attuali prezzi di monopolio i pozzi del Medio Oriente produrrebbero di più e rendereb- [17] I

• .... bero di meno; come non significa abbandonarsi ai sogni avveniristici constatare che il progresso delle ricerche per l'utilizzazione pacifica dell'energia atomica ci ha por~ato forse alla vigilia di una nuova grande rivoluzione industriale. La soluzione dei problemi medio-orientali richiede, dunque, una visione più vasta e lucida dei futuri sviluppi dell'economia e dell'assetto politico della regione che si affaccia sul Mediterr,aneo orientale, richiede una organica politica di investimenti, studiata attentamente secondo le possibilità di tutta l'area economica (e non secondo le preferenze nazionali di questo o quel paese); richiede una politica di prestiti, di importazione di capitali, di tecniche e di tecnici. E sare'b·be oltremodo consigliabile che l'attuazione di un siffatto piano di sviluppo, fosse affidata ad un'agenzia internazionale del tipo di quella del Piano di Colombo, con la partecipazione di tutti i paesi responsabili ed interessati. Ed è ovvio che in un organismo di questo genere non potrebbe non prendere posto anche il nostro paese. P.oichè esso si trova ad essere interessato nel problema dal momento• che fa parte, con il Mezzogiorno e la Sicilia, dell'area economi~a su cui . dovrebbe esercitarsi la nuova politica; ed insieme può essere un fattore di sviluppo poichè, a differenza di tutti gli altri paesi del Mediterraneo orientale, partecipa anche di quella che si è chiamata la realtà economica dell'Eur.opa centro-settentrionale, ed ha, dunque, se non capitali da investire, attrezzatura industriale e apparato tecnologico utilizzabile nella bisogna .. Lia sola politica mediterranea per l'Italia è quella di promuovere e di partecipare attivamente ad una politica comune di tutto l'occidente nelle zone depresse del Medio Oriente, ad una politica di svilupp.o economico.- del tipo, come s'è accennato, del piano di Colombo e non ad una politica di presenza ormai impossilbile, del tipo, per intendersi, della conferenza di Algesir,as. È perciò necessario che ci si rifletta bene e si mettano da. parte tutti gli orpelli e tutta la retorica del bel suolo africano, della missione civilizzatrice e delle altre simili idiozie con cui si sogliono coprire nel nostro paese le bestialità politiche. È necessario, cioè, che si rifletta innanzi tutto sulle difficoltà di casa, nostra, di una casa in cui c'è tanto da fare per renderla veramente degna e civile e in cui quel che c'è da fare difficilmente potrà essere fatto con le sole nostre forze. E che se siamo interessati nello sviluppo dell'area econo- [18] Bibloteca Gino Bianco

mica del Mediterraneo orientale è perchè le zone depresse le abbiamo in. casa; e in questo, piaccia o no, non siamo affatto migliori degli arabi~ Ed è finalmente necessario riflettere prima di prendere impegni: irf questi giorni tutti possono leggere sui giornali le notizie del nuovo governo somalo, dell'autonomia che s'è instaurata nella regione, e, naturalmente, della missione civilizzatrice dell'Ital~. Quello che non si legge è che il nostro mandato in Somalia al momento della scadenza (1960) ci sarà costato alcune diecine di miliardi e che alla fine i tre-quarti di questi miliardi sar,anno stati un regalo che noi avremmo fatto ai somali. E Dio non voglia che nel 1960 vi sia al potere in Italia un governo così folle da brigare alle Nazioni Unite per ottenere una conferma del mandato: sarebbero altri miliardi buttati via dalla finestra. Ora il nostro paese non può pagarsi questi lussi. Sono appunto gli impegni di questo genere che biso- • • gna evitare con ogni cura. Un ultimo punto si vuole ancora sottolineare: ed è che il Medio Oriente non deve essere la solita <<diversione>>a, cui siamo ormai abituati in Italia, per distrarre l'attenzione dagli altri e fondamentali problemi della politica estera del paese. Poichè abbiamo visto che la sola politica possibile per l'Italia nel Medio Oriente è una politica di collaborazione ad uno sforzo comune di tutto l'occidente per lo sviluppo dell'area economica del Mediterr,aneo orientale, è evidente che essa potrà essere fatta solo tenendo fermo ai punti già acquisiti della politica estera italiana; i soli d.ue che veramente rappresentino gli interessi permanenti del nostr.o paese: la solidarietà politica ed economica dell'alleanza occidentale, ~ costruzione politica ed economica di uno Stato federale europeo. N.on ci si venga a, raccontare perciò che si corre dietro alle utopie atlantiche trascur,ando le occasioni concrete; non ci si mostri (e qui il discorso vale pei partiti e per gli uomini di governo) tiepidi europeisti, possibilisti all'estremo. E meno· ancora si facciano « discorsi del Campidoglio» e minacce di sub.ordinare questo a quello. È chiaro che noi non a·bbiamoda subordinare nulla a nulla: ma dobbiamo continuare per la nostra strada, che è la stessa delle grandi: democrazie occidentali. Tutto il resto, tutte le altre iniziative, dalle offerte di mediazione alla visita di personaggi verso cui non poss.iamo sentire al-· cuna forma di solidarietà, nè politica nè civile, di personaggi tipo Nasser· insomma, tutto il resto sono cose inutili. Anzi: più che inutili, dannose°' · ... , ,. - .......... \. [19] Bibloteca Gino Bianco

Lo Stato, i Comuni, la Scuola di Ferdinando Isabella La mia proposta di costituire un Ente con il compito di realizzare in dieci anni le aule scolastiche -che mancano nel nostro Paese è nata, come conseguenza logica, dai risultati di un'indagine su quanto è stato fatto in Italia dall'Unità ad oggi in questo importante settore. Chi esamina la legge fondamentale dei lavori pubblici, quella del 20 1r1arzo 1865, resta sfavorevolmente colpito dal fatto che, tra le opere che erano riconosciute d'interesse statale e venivano, pertanto, attribuite alla .competenza del Ministero :dei Lavori Pubblici, v'erano le strade ordinarie e le ferrovie, i canali di navigazione e d'irrigazione, i porti ed i fari, gli edifici pubblici ed i monumentì; ma non le scuole. . Purtroppo il problema della scuola non è mai stato abbastanza sentito nel nostro Paese. Nel 1860 le cifre che denunciavano la percentuale di analfabeti avrebbero dovuto destare serie preoccupazioni, specie nel Mezzogiorno dove in alcune regioni, come la Basilicata, l'analfabetismo toccava il 92% degli abitanti. Lo Stato si disinteressò, invece, del problema della costruzione degli edifici scolastici, il cui obbligo fu lasciato agli Enti locali. Per circa venti anni questi vi dovettero provvedere da soli, con le loro scarse risorse. Venne, poi, la legge del 18 luglio 1878, con lai quale furono previsti mutui di favore, con saggi d'interesse ridotti. In dieci anni furono spesi così circa 23 milioni, in massima parte nei grandi centri. Successivamente, :con la legge dell'8 luglio 1888, i benefici furono estesi agli asili infantili e fu stabilito ,un tasso d'interesse più basso per i Comuni più piccoli e più poveri. Anche questa volta i risultati furono scarsi. In dodici anni, solo 445 mutui per un importo di circa 19 milioni! [20] Bibloteca Gino Bianco '

Più efficace risultò la legge del 15 luglio 1900, che consentì la spesa di oltre 38 milioni, grazie a un più largo intervento dello Stato nell'assegnazione dei co,ntributi. Però la massima parte delle opere andò all'Italia settentrionale e la minima toccò al Mezzogiorno, che ne aveva più bisogno. ln circa trent'anni i 2500 Comuni dell'Italia meridionale contrassero soltanto 217 mutui s11i 1500 concessi, per un importo di poco più di dieci milioni sugli ottanta spesi. Si cercò di sanare questa sperequazione adottando, con la legge del 15 luglio 1906, provvedimenti a favore dell'Italia centrale e meridionale. Furono distribuiti 33 milioni; con il che si stabilì in parte l'equilibrio per i Comuni dell'Italia centrale, ma rimase del tutto insoluto il probblema di quelli del Mezzogiorno. La legge del 4 giugno 1911 che, almeno nelle intenzioni dei proponenti, doveva apportare un rinnovamento radicale nel settore dell'istruzione primaria, dispose nuovi :benefici a favore degli Enti « obbligati >> al1' edilizià scolastica. I risultati furono notevoli: in poco più di vent'anni, 11onostante l'arresto prodotto dalla guerra '15-'18, furono accordati m11tui per effettivi 140 milioni. Di questa legge sono ora da rilevare due disposizioni, che costituiscono un interessante precedente per i criteri ai quali s'ispira la proposta di un Ente per la costruzione degli edifici scolastici. Una riguardava la ripartizione tra le varie province delle somme da mutuare, sempre con l'intento di evitare la sperequazione, a tutto danno del Sud, verificatasi con l'applicazione delle leggi precedenti. Fu così stabilito il principio (che rimase soltanto teorico) che ogni provincia doveva usufruire dei fondi che le erano · stati assegnati. Fu, poi, sancita l'obbligatorietà della costruzione delle scuole, con la comminatoria della sostituzione dello Stato alle Amministrazioni . Comunali inadempienti. È significativo rileggere oggi, dopo oltre trent'anni, ciò che fu scritto a tal riguardo, nel 1923, nella relazione sull'edilizia scolastica della Direzione generale per l'istruzione primaria: • ,~Non occorre rilevare tutta l'impo,rtanza di tali disposizioni, ove si tenga conto che esse trovano la loro ragione nella necessità di svegliare i dormienti purtroppo ancora numerosi. Alla mancanza d'iniziative locali, ove fosse riconosciuta necessaria la casa della scuola, la legge vo,lle si rimediasse con l'intervento diretto dello Stato, ossia con la costruzione coatta. [21] Bibloteca Gino Bianco ..

« No11 può tuttavia affermarsi che l'esperienza di questi anni mostri l'efficacia pratica della disposizione. Anzi 0 1 ccorre dire che essa ,non ha potuto trovare finora alcuna applicazio,ne 1 pur dove maggiore ne era il caso. La resistenza delle Amministrazioni locali, le influenze di vario genere, il sapore amaro che ha in sè stesso il fatto della sostituzione dello Stato alle Amm1 inistrazioni locali, quasi pubblica patente d'incapacità o comunque d'inferiorità, sono tutti elementi. che hanno contribuito in pratica al completo fallime.nto dell'attuazione del principio stabilito. << Parte non trascurabile del programma che lo Stato si pone per il prossimo avvenire nel campo ·dell'edilizia scolastica è indubbiamente la revisione di questo istituto dell'obbligatorietà della costruzione. Occorre rivederne e correggerne il meccanismo in maniera che esso possa adattarsi alle esigenze pratiche e divenire arma efficace ». Non si potrebbe meglio definire la situazione degli Enti <<obbligati>> e certa mentalità diffusa specialmente nel Mezzogiorno dove, se scarsi sono i bilanci dei Comuni, ancora più scarsa è la sensibilità di molti amministratori per i problemli della scuola. Oltre trent'anni or sono v'era già chi pensava alla necessità di creare qualcosa che rendesse possibile la costr11zione delle aule scolastiche, ancl1e là dove le Autorità locali non sentivano di farlo. E già fin d'allora si era tentato un provvedimento per ovviare alla sperequazione tra Nord e Sud. Ma il fallimento delle disposizioni di legge che stabilivano l'equa distribuzione tra le varie province italiane dei fondi stanziati e l'istituto dell'obbligatorietà, fu dovuto al fatto che esse furono inserite, quasi senza eccessiva convinzione di farle rispettare, in un sistema che aveva in sè, per ragioni congenite, l'impossibilità di funzionare. Lasciare l'obbligo di costruire gli edifici scolastici ai Comuni, anche ai più piccoli 1delnostro Mezzogiorno, che hanno ,per lo più 1 bilanci spaventosamente deficitari, e far loro carico di svolgere procedure lunghe e complesse, non era certo il sistema migliore per risolvere il problema. Ma tale sistema si continuò ad adottare ancl1e in seguito, come del resto si era già fatto con i Decreti Legge del 6 aprile 1919 e 15 novembre 1921. . Fallito era il principio della distribuzione delle somme tra le varie province, fallito l'istituto dell'obbligatorietà; ma il sistema non cambiava. E così i successivi provvedimenti legislativi raccolti nel Testo Unico appro- [22] Bibloteca Gino Bianco

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