flitti rivoluzionari del pre-- sente e perché delle grandl figure del passato fa spetta•• colo, commercio, fuori da ogni tentativo di renderli utili come strumenti di un intervento politico nella realtà, sia pur quella « culturale », per demistificare e chiarire ciò che questa realtà propone con violenza ma le cui leggi, le cui ragioni, non a tutti sono evidenti. Ma questo, è ovvio, è impossibile per il regista borghese, per il teatrante borghese, per la TV borghese, per il sistema borghese. L'umanesimo democratico, appena appena progressista, di cui queste pseudo-biografie si ammantano, è tuttavia cosi scoperto nella sua impresa di falsificazione, da smussare automaticamente ogni suo possibile effetto denigratorio. La Rosa, il Majakovski della realtà sono ben altro dalle smunte, patetiche, o isteriche figurette, dagli informi santini che questi spettacoli ci presentano. Semplicemente, non si tratta di Rosa e di Majakovski, ma dell'idea che quattro cretinetti paurosamente vacui se ne fanno, a forza di censure e soprattutto di autocensure. E dunque non li riguardano, non li toccano. li rivoluzionario di oggi può accostarli direttamente: le opere sono lì, e parlano sufficientemente chiaro perché sia comprensibile anche oggi, il confronto Rosa-Lenin, come confronto tra due linee e non tra due psicologie, e il dilemma tragico di Majakovskij come effetto del confronto arte e politica, arte e rivoluzione, arte rivoluzionaria e burocrazia. Qui Rosa e Majakovski continuano a vivere, perché parlano la nostra lingua e affrontano i nostri problemi, e non sugli schermi nebbiosi o sulle ribalte più o meno « stabili » dove il potere continua a inscenare i suoi riti ipocriti, e consolatori, a segno della sua crisi e della sua impotenza. Go//redo Fofi Cinema I baroni della medicina Potrà il chirurgo cardiopatico e perseguitato dall'ordine dei medici continuare a esercitare la professione o finirà suicida dopo aver sterminato l'intera famiglia sull'esempio di un suo defunto collega, come lui fuori dal clan dei baroni e inviso all'aristocrazia della medicina? L'interrogativo non è precisamente di interesse generale e nella testardaggine con cui l'eroe continua a lavorar di bisturi il pubblico non riconosce le coordinate dell'eroismo, quanto, piuttosto (e con un leggero brivido nella schiena), la tenacia di chi sul suo privilegio di dispensatore di vita e di morte ha costruito, egoisticlfmente, tutta la sua esistenza e non vuole rinunciare a • fare il Barnard », neanche se il dollor Padreterno insiste per metterlo in pensione. Finirà male anche lui (come il collega tenero e prepotente la cui storie viene raccontata parallelamente in una serie di violenti flashback), non senza aver prima fallo morire di crepacuore sotto i ferri la moglie di un commissario di polizia. « Non è stato lui, è stata la propaganda che lo voleva inabile e malato. E' stato il sistema clientelare» dice il regista, e continua a seguire la gesta di questo onesto lavoratore del bisturi con una paru:cipazicne che fa pensare alle lotte per la difesa del posto di lavoro, e alla cassa integra46 zione, più che alle turbe di un professionista. Ma lasciamo andare. Il film, secondo la critica colta, è una metafora sulla violenza del sistema sanitario, istituzione totale in cui per giorni e giorni continui a morire, per lo più trattato come un pollo. Non scioccamente descrittiva, ma incisiva, reale, sintomatica. Non siamo mai stati populisti e non rimpiangiamo certo l'assen• za di scene da Germinale con minatori distrutti dalla silicosi e medicastri ghignanti che li curano ad aspirine, ma era proprio il caso per parlare della violenza di andare a pescare la storia vera di due chirurghi di provincia? Il secondo tragico Fantozzi Regia di L. Salce L. R. Dopo tutto il male che abbiamo dello del primo Fantozzi, dobbiamo in qualche modo ricr~- derci: non era infatti il film più brutto del mondo, il ~e condo lo segue da vicino. Qualcuno, fra i critici, ha detto che azzccava qua e là qualche battuta felice e che era, nel surrealismo, molto più pron'.o e godibile del primo. Noi, che pure per lavoro al cinema ci andiamo spesso, troviamo invece che rispetto al primo questo film si pone in una continuità senza scosse: la continuità nel• la mediocrità. Se i libri hanno ogni tanto qualche cosina spiritosa, i film, trascrivendo il libro tale e quale, risultano slegati, inconcludenti e tristi. E reazionari, infine, laddove questo esponente che vorrebbe essere tipico dei ceti medi è in realtà un ignorante cialtrone, sfortunato più che sfruttato, brutto, triste, al fine deprimente. Graziosa, forse, la scena della corazzata Pontemkin, ma anche velata da qualunquismo artistico raro: la corazzata Potemkin non è né quel polpettone da giudicare con esteti;mo filmico che crede il profe.sore, né un'emerita cagata come dice Fantozzi. Il disprezzo per il film d'arte avvalora, una volta di più, l'immagine di un ce• to medio, di una piccola-borghesia, tendenzialmente qualunquista e incapace di contare: non mi sembra che questa sia la situazione oggi. Ma, non vo- !endo entrare nei problemi <li realismo (essendo per definizione surrealista, non è apparentemente il caso: sebbene il surrealismo nasca dal realismo e dalla sua paradossalizzazione) il film è fiacco per una comicità tutta uguale e monocorde I! per questo fastidioso procedere per macchiette: e oggi la comicità, ammesso che ancora esista, dovrebbe forse essere capace di un rinnovamento più sostanziale. G.P. li mio uomo , e un selvaggio Se Venerdì fosse stato una bionda bellissima e Robinson Crusoe un ex capitano d'industri,1 (col copy sui profumi di lusso) sicuramente ci sarebbe stata, intrecciata con la nobile avventura del rifiuto della civiltà, anche una storia d'amore fra zattere pesci freschi e frutti proibiti. Se poi il tutto si fosse svolto in questo nostro secolo di perfide multinazionali e ballerine femministe oppresse da amanti latini, il risultato avrebbe potuto essere qualcosa di molto
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