Muzak - anno III - n.13 - giugno 1976

Voce ,e lotte Uinfantino tarantolato Ormai non è più raro sentir dire a proposito del canto di qualcuno che « fa venire i brividi » (è una formula che fa parte ormai del nuovo lessico folclorico anche televisivo); a me è capitato, una volta sola, ascoltando - tanti anni fa - Giovanna Daffini che interpretava la ' Bella ciao ' delle mondine, esempio insuperato, credo, di arte proletaria contemporanea. Adesso, c'è Antonio Infantino. Non voglio, con questo, dire che Infantino sia bravo come la Daffini o che dopo la Daffini c'è stato solo Infantino; voglio dire semplicemente che Antonio Infantino e il suo gruppo di Tricarico (provincia di Matera) fanno « venire i brividi », quelli veri, quelli che fanno tremare ed emozionare (e non è cosa da p'oco in un panorama di canto popolare rivisitato dall'industria discocrafica e fatto principalmente di reperti asettici e calligrafici o di falsi grossolani). Antonio Infantino ha inciso un disco per la collana del Folkstudio; il titolo è « I Tarantolati ». I « tarantolati » sono - nelle tradizioni popolari non solo italiane - coloro che sono stati morsi dalla tarantola; sia quelli, quindi, che effettivamente sono stati vittime del morso del ragno sia quelli che si considerano e vengono considerati come posseduti dal demonio o da un qualunque altro spirito malvagio; come scriveva Ernesto De Martino, quasi venti anni fa, «il tarantolismo rappre• senta un sistema curativo istituzionalizzato e socializzato » e « l'esser morso dalla tarantola è soltanto una immaginazione o anche un'esperienza allucinatoria che dà orizzonte e figura ad una crisi di carattere nettamente psichico». Intorno a questi fenomeni, si sono sviluppate pratiche religiose e rituali collettivi - alcuni di carattere cristiano, altri di carattere pagano - tendenti ad esorcizzare gli spiriti possessori e ad allontanarli dal corpo del « tarantolato ». Così il Reverendo Domenico Sangenito, nel 1693 descrisse tali pratiche: « ... Gli abitatori di que' paesi come persone pratiche, subito vengono in cognizione del malore che li tormenta; onde senza perder tempo tantotosto chiamano sonatori con vari istrumenti, poiché altri balla al suon di chitarra, altri di cetera, ed altri al suon di violino; sul principio del suono, pian piano cominciano a ballare. (...) Dànno principio al ballo un'ora dopo l'apparir del sole, terminando un'ora prima di mezzogiorno, senza pro!nder mai riposo, fuorché se l'instrumento si scordasse: ed allora respirano con impazienza per insino a tanto che si ripone in accordo, notandosi con meraviglia come gente sì rozza ed inculta, come sono i cultori della terra, custodi d'armenti e simili altri uomini camparecci, siano così buoni conoscitori delle consonanze e dissonanze de gli instrumenti musicali... ». Questo, quasi trecento anni fa. Eppure gli echi di quei suonatori di « chitarra, di cetera e di violino » sembrano potersi cogliere ancora dentro la musica del gruppo di Tricarico; non evidentemente, come pura sopravvivenza di una cultura estinta di cui artificiosamente si conservano in vita i reperti, ma piuttosto come segno della permanenza di comportamenti, moduli cuiLa condizione meridionale nelle musiche di Antonio lnfantlno turali, elementi espress1v1 delle classi subalterne, attraverso i secoli, i mutamenti sociali e le grandi trasformazioni culturali, economiche, antropologiche; una permonenza che testimonia la diversità, l'estraneità e, forse, l'opposizione della cultura contadina nei confronti di quell'altra cultura i cui esponenti, sorpresi e un po' turbati, ieri come oggi, si meravigliano della sensibilità musicale degli « uomini camparecci ». Di quella cultura contadina Antonio Infantino e il suo gruppo sono tra i più legittimi interpreti come testimonia questo loro disco che è, insieme, espressione di attività scientifica, di intelligenza artistica e di scelta di classe. Dietro questo lavoro discografico si avverte il retroterra di un'opera di ricerca e di studio che permette oggi a Antonio Infantino anche una sua elaborazione autonoma e originale che non nega ma, al contrario, arricchisce il patrimonio popolare e lo rende « memoria del presente ». E' questo che rende un brano come PezzcaPezzca, canto rituale quasi senza tempo e A vola, invettiva violenta e struggente contro il sistema dello sfruttamento e dell'assassino, singolarmente omogenei non solo nella loro forma espressiva, canora e musicale ma, mi sembra, nella concezione culturale che entrambi i brani ha prodotti. Per il resto: il disco è - decisamente - bellissimo; uno dei documenti più significativi e preziosi di una possibile storia folclorica di Italia. (Ne ha già parlato G. C. nel precedente numero di Muzak). Mi pacerebbe dire (credo che sia severamente proibito): acquistate questo disco e fatelo acquistare, diffondetelo e discutetene, ascoltatelo e fatelo ascoltare ai vostri bambini. Simone Dessì

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