Muzak - anno III - n.13 - giugno 1976

Musicanalisi Trisse,trasse, potereallemasse Lotta di classe fa rima con masse e tutto in Do fa sol, a ritmo di zumpapazum. Ma per trovare una musica nostra no possiamo sforzarci un po' di più? E' tempo di domande. Musicanalisi ogni tanto si ferma e guarda se stessa, vuole sapere dove va e confrontarsi con le idee che sono in giro, cogliendo anche l'occasione per non essere sempre così pedantemente « costruttiva » ma soprattutto perché quello che adesso sembra più importante è mettere in primo piano la contraddittorietà del nostro attuale rapporto con la musica. La stessa contraddittorietà di una serata passata ad ascoltare Archie Shepp e Venditti, avanguardia e canzone politica, dissonanze e stornelli, perché la frattura più importante e generalizzata sta senz'altro nel fatto che a un rapporto di gestione ormai definitivo tra momento politico e avvenimento musicale non fa riscontro un legame vero, di vita, con la creatività ed espressività dei contenuti. Questa situazione che può portare ad un processo di crisi dei contenuti stessi è per ora avvertibile di rimbalzo, nella mancanza di politiche culturali precise o nello svilupparsi di concezioni ideologiche diverse nei confronti della musica, ma c'é e si sente. « Autogestione del palco », « usiamo la musica », « la festa da ballo »: segni di un momento definitivo di alternativa alla concezione borghese dell'arte o disinteresse stanco e regressivo per la ricerca e il suo valore culturale? Liberare gli spazi vuol dire spogliarli, banalizzarli, oppure il codice di vita di una collettività che si autogestisce la festa, fa da sé la sua musica o la usa per ballare può diventare davvero un fatto creativo, può uscire dal circolo chiuso dell'autocompiacimento e dell'autoconvinzione? Il problema di fondo è il solito ed è quello di scoprire se il linguaggio musicale ha in sé la possibilità di comprendere certe motivazioni, crescerle e comunicarle fino a farle diventare immagini, gesti e comportamenti, cioè definire se e in che modo le spinte che portano un musicista alle sue scelte possono essere ricondotte a fatti collettivi di visione e concezione della vita. Tradurre i suoni, aprirli e sentime la realtà delle scelte interne: è possibile? Forse sì, ma pochi ci credono, pochi ne parlano, ed è una strada difficile, resa tuttora quasi impraticabile dal vuoto di dialogo e da deviazioni aristocratiche o mistiche; è soprattutto una strada lunghissima: questo vuol dire che probabilmente staremo un bel po' a parlarci addosso correndo magari il rischio di farci riinghiottire dall'ideologia della critica borghese? Se questa però può essere non una battaglia persa ma una chiave per la definizione di musica politica, di una politica e di una musica che si vivono, e che muovono i rapporti tra le persone, allora la riapprovazione sarà un fatto completo. Ed allora, in prospettiva, la attuale gestione della musica risulta in gran parte di un conformismo insopportabile: squadroni di cantautori continuano a vendere ideologie nella solita confezione « quattro accordi e pugno chiuso » e la loro credibilità è diventata una istituzione. Quelli per esempio che col vocione virile e incazzato ci assicurano che il 11 padrone è un coglione e che lotta di classe fa rima con masse, tutto in Do Fa Sol a ritmo di zum pa pa zum, cosa vogliono dirci, che loro ci danno l'informazione-formazione oppure che quelle sono veramente le possibilità di una espressione alternativa? Per non parlare poi dei tanti altri intimisti, ermetici o nostalgici che piangono sul vino versato e ipnotizzano il pubblico con l'aria di chi ha qualcosa da dire, e la dice in quattro e quattr'otto sfruttando l'emotività facile e falsa della canzonetta. Musica che interpreta le notre energie, musica che ne parla dal di fuori, o ancora, musica usata come pratica collettivizzante? Dialettica: dentro le forme o solo nel rapporto economico di lotta tra gestione politica e gestione industriale? Se la questione fosse discussa potremmo chiederci se sia più politica l'interpretazione critica e distruttiva del free jazz o il trionfalismo di una canzone come « Contessa », se mettere in crisi da dentro voglia dire informare _suiproblemi che esistono e se invece il messaggio esplicito e chiuso in se stesso non diventi subito uno slogan acquisito e conformisticamente ripetibile. Così pare che oggi la musica sia popolare quindi politicamente credibile, solo quando fa finta di essere preindustriale, cioè quando perde la connotazione di attualità e di classe e tutti se la canticchiano in città, sugli autobus o sulle autostrade. « Palcocrazia », farsi la musica da sé, canzone politica... tra contenuti inesistenti vestiti di « alternativo » e contenuti sentiti come contrari alla riappropriazione di spazi essenziali quali 'il corpo e la creatività collettiva, il nostro rapporto con la musica sta cambiando. Come? Il problema è tutto aperto e dovrebbe coinvolgere anche i musicisti: tempo fa lo slogan promozionale di un disco degli Henry Cow affermava: « la musica non è uno specchio, è un martello! », e un altro degli Arti e Mestieri parnfrasando Marx diceva con un certo orgoglio che fi!lo ad oggi i musicisti hanno interpretato il mondo, ora lo devono cambiare: • chissà che •per farlo non debbano invece scomparire. Bruno Moriani

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