Muzak - anno III - n.13 - giugno 1976

se ne erano viste alcune tracce già, ad esempio, in De Andrè. Mancava però il profeta della nuova generazione e fu trovato in Francesco Guccini che, chissà se per saggezza o per disgrazia, del profeta aveva la voce e poi più tardi, con l'arrivo della barba, anche i tratti somatici. Anche Guccini, non v'è dubbio, andrebbe riportato a quest'epoca iniziatica e tormentosa che abbiamo definito della seconda generazione, ma con lui la rivolta comincia ad avere un sapore inequivocabilmente politico generazionale. on a caso il suo primo e imperituro amore è Bob Dylan, ma da buon profeta non se n'è fatto prendere troppo la mano. Ed è così che Guccini, co.n arguzia da intellettuale ·di provincia che sa mangiare cultura e digerirla fino a renderla escremento, riesce a fondere Dylan con una tradizione anarchica tutta italiana, con molte letture e infine con l'euforia a fondo depressivo-popolaresco delle osterie emiliane. A questo punto il diluvio. I cantautori spuntano come funghi, spinti da un movimento giovanile che cresce e si espande sempre di più. Ora ce ne sono per tutti i gusti, coprendo tutta la gamma delle gradazioni del rapporto musica e testo. La terza generazione dei cantautori si insedia per ogni dove. Venditti, De Gregari, Claudio Rocchi, Alan Sorrenti sono i capotendenza, ma cominciano a succedere cose strane. Il cantautore, a questo punto, ha cambiato definitivamente fisionomia. Riserbo e introversione, almeno nella pratica sociale, sono scomparsi, salvo a ritornare, in alcuni casi, come dato stilistico. Tutti ostentano grinta, impegno, e una gran voglia di cantare per le masse giovanili. Iniziano qui i rapporti difficili con il movimento. Difficili perché da un lato questi cantautori dividono il loro tempo e la loro musica tra circuiti politici e circuiti ufficiali, dando un'occhiata agli uni e una agli altri anche quando compongono canzoni; dall'altro perché il movimento, a sua volta, non ha chiarito quali rapporti vuole avere con la produzione culturale, tanto da non saper dare delle linee, delle indicazione per un confronto a questi cantautori che vengono usati (così come essi stessi, a lolo volta si lasciano volentieri usare) come divi democratici che fanno guadagnare qualche soldo, oltre a farne tanti loro. Poi gradatamente si arriva al clamoroso trionfo commerciale. Venditti e De Gregari arrivano in cima alle classifiche di vendita, Venditti addirittura con un 45 giri. Che succede? Intanto, sulla scia di questa invadenza sia politica che De Gregari 21 commerciale, esplode la quarta generazione dei cantautori, la maggiore, almeno dal punto di vista quanti tativo. Ora ci sono tutti e parlano di tutto in tutti i modi possibili. Si fanno canzoni rock, pop, semijazzate, popolari, elettroniche ecc... Si parla di omosessualità, di femminismo, di pubblico e privato, di spazi infiniti, di realtà interiori, di crisi di governo ecc. A questa quarta generazione possono essere riportati i già noti Edoardo Bennato, Angelo Branduardi, Claudio Lolli, Giorgio Lo Cascio e poi tutti gli ultimi arrivati: Roberta D'Angelo, Donatella Bardi, Giovanni Togni, Ernesto Bassignano, Cattaneo, Paolo Conte, e tantissimi altri. Una espansione costante, che non accenna a diminuire. Sono cresciute però anche le polemiche fino al brutale e pesante atto d'accusa subito da De Gregari al Pa- !alido di Milano, che ha segnato una decisa battuta di arresto al clima di approssimazione e di faciloneria con cui si affrontava il problema. Fatto è che mai prima d'ora ci si è chiesto chi realmente fossero o meglio cosa dovessero essere questi indefiniti personaggi che prendevano sul serio un mezzo espressivo così bassamente compromesso con le zone più oscure della struttura del sistema quale è la canzone. I vecchi cantautori furono accettati ,molto semplicisticamente come un piacevole e occasionale risvolto del1'invadenza dell'industria della musica leggera. Furono definiti gli intellettuali della canzone, con tutto ciò che di minoritario poteva avere questo ruolo. Ben presto, però, la canzone d'autore si è messa in parallelo alla crescita del movimento politico-giovanile, cogliendone alcuni aspetti di non poca importanza. Le implicazioni sono ovviamente maggiori tanto che si impone una riflessione come minimo più attenta. Il disagio principale è proprio sullo specifico, sulla canzone come mezzo espressivo. Il guaio è che questi cantautori usano parole, le stesse che ci servono per fare la spesa, per comporre poesie o per comunicare la nostra idea politica. Le parole insomma, anche quando sono usate per una canzone, offrono degli agganci, dei nessi extramusicali che un linguaggio esclusivamente strumentale (data la carenza quasi assoluta di analisi che evidenzino le capacità comunicative della musica) non offre. Ci si scaglia, allora, con molta forza contro i cantautori quasi come si volesse sostenere che chi usa le parole ha dei doveri sociali e politici molto maggiori di chi si limita ad organizzare dei suoni. segue a pag. 24

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