Muzak - anno III - n.12 - aprile 1976

li compagno e il potere Studia Napoli e poicanta Muzak ha dedicato quas: un intero numero alla musica che si fa a Napoli, individuando giustamente in questo coacervo di esperienze che ancora non è possibile chiamare una « scuola » una vitalità diversa da quella che, nel campo della musica nuova e giovane, è dimostrata in altre situazioni italiane. E si dà anche una risposta, per quanto generica, a questa vitalità: Napoli è la città in cui i mass-media non sono riusciti a intaccare completamente una tradizione autonoma, presente soprattutto nel teatro (si pensi a Eduardo, a Totò, ai tanti comici e attori minori, ma anche alla sceneggiata, a quel teatro « non trasferibile » in altre situazioni perché così fortemente intriso di dati culturali specifici) e nella canzone (e anche qui il discorso va allargato, dai gruppi pop e folk, a quei cantanti hoti soltanto in Campania e in qualche altra zona limitrofa, come Mario Merola, Giulietta Sacco, e così via). Questa tradizione ha una spiegazione storica individuabile abbastanza facilmente: Napoli è stata per troppo tempo una capitale, perché non producesse una una cultura propria e non la irradiasse nella sua zona di influenza economico-politica. D'altro canto, degradata dalle scelte di industrializzazione che hanno privilegiato il nord. si è troUn coneo di disoccupati per le vie di Napoli. 50 vata fino a oggi a dover essere una sorta di « capitale del sottosviluppo », controllata dal parassitismo dei Lauro e dei Gava. E' la miseria, insomma, che l'ha preservata dall 'adeguamento alla cultura imposta dalla televisione e altri mezzi di comunicazione di massa, e non altro. Ma la sua miseria era una miseria da « capitale », dove le briciole del parassitismo permettevano una pur precaria sopravvivenza, era una miseria comunque meno forte di quella della campagna, che ha subito il richiamo del nord sotto il duplice aspetto dell'emigrazione interna e della rinuncia alla propria tradizione culturale, che sulla miseria era costruita a vantaggio dei nuovi miti del benessere. E anche se, come dÒvunque in Italia, anche a Napoli gli anni Sessanta hanno significato una (parziale) perdita di autonomia culturale, tuttavia le radici erano troppo profonde perché, passata l'illusoria euforia del boom e scoppiate ad altro livello le contraddizioni sociali più forti, non si riscoprisse nell'immediato passato e in quello che ne restava ancora in vita la possibilità di ricostruire una propria figura, una propria caratterizzazione culturale. Diciamo questo perché nell'occuparsi di Napoli si corre oggi troppo facilmente un vecchio rischio: quello della idealizzazione di una vitalità, di una « naturalità », di una spontaneità che indubbiamente esistono, ma chr,: non vanno affrontate con l'occhio del vagheggiamento populista bensì con quello dell'analisi lucida e anche spregiudicata, senza la quale si rischia di non capire un bel niente, ma anzi di contribuire alle peggiori (ieviazioni. La cultura che Napoli oggi esprime è il portato di una tradizione che ha avuto e ha connotazioni diverse a seconda della classe che l'ha espressa: contadina (per quel che ne resta, ed è molto più che altrove), borghese, sottoproletaria. Ed è il portato di una esplosione attuale di contraddizioni nuove, che pongono questa o queste culture spesso intrecciate contortamente tra loro, a confronto con altre: quella dej mass-media (la TV del regime soprattutto), quella della « nuova cultura » venuta dalle esperienze del movimento da noi, come in America, quella del proletariato del '69. Situazione per situazione, si è preso da queste varie componenti molto, e ancora con un certo spontaneismo, servendosi di questi prodotti esterni alla cultura tradizionale per farne un uso più originale anche se a volte caotico. La grossa novità « culturale » in senso antropologico e sociale della Napoli di questi anni è data dalla nuova presenza proletaria (oltre all'Italsider, l'Alfa Sud di Bagnoli, la zona casertana ecc.) e dal risveglio del

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