Muzak - anno III - n.12 - aprile 1976

un disco o magari un gruppo al chiuso di un club. Dice Country Joe MacDonald in quei giorni: « A questa gente piace incontrarsi e vedersi, per provare di essere veri ». Ognuno è parte dello spettacolo, ognuno è parte della coreografia. Quanti dei cinquecentomila (!) convenuti a Woodstock saranno in grado di vedere e udire quello che avviene sul palco? Forse quindicimila eppure tutti dormono nel fango e sotto la pioggia per stare IL E' un grande momento di socializzazione che probabilmente si presenta in proporzioni utopistiche. I musicisti sono orgogliosi di essere il pretesto per questi giganteschi Love-in dove la musica non è che uno degli elementi. Quasi tuttL. C'è anche chi, come il neo-star Ian Anderson, arriccia il naso: « Non siamo andati a Woodstock. Siamo rimasti a New York e siamo andati a vedere « Uomo da marciapiede». Abibamo dovuto fare una fila di soli quarantacinque minuti contro una ora e mezzo e stavamo In un comodo cinematografo mentre tutta quella gente prendeva pioggia e fulmini sulla testa ». Quella di Anderson è una valutazione sbagliata. Non c'è posto per questi snobbismi in un momento cosi romantico e ricco d'emozione: i Jethro Tull perderanno così una grossa occasione afferrata invece al voio da inglesi più illuminati tipo Who e Ten Years After per fare un paio di nomi. Woodstock è l'apice dell'evento-concerto ed è anche il punto da cui parte la parabola discendente. Innanzi tutto Woodstock diventa il simbolo di un tentativo ennesimo di colonizzazione musicale e il fatto è chiaro allorché al Caracalla Pop Festival di Roma alcuni nostri compatrioti con origini nel profondo sud d'Italia e quindi coi capelli crespi, ricoprono il ruolo di Santana mentre ci sono i vari Country Joe, da soli con la chitarra, gli Who e tutti quanti. Un proletario sui trenta viene sentito mentre esclama: « Dateme' 1.m nastrino che me lo devo da mette in fronte... vojo esse pure io fijo d'a'luce ». La partecipazione del cast italiano di Hair dà il colpo di grazia (come se ce ne fosse bisogno) a qualunque intento di socializzare e stare insieme gioiosamente. Ancora una volta si sono raccolti gli elementi esteriori invece che la sostanza di una situazione e si tenta di ricrearla. Il modello è stato un film, Woodstock, un documento parziale, tagliato e aggiustato, e il tentativo di imitazione è veramente patetico e provinciale. Molta ironia da parte del pubblico proletario, mol- ~~-~ : "' )'; . :a •. ·. - .. ta violenza nell'aria, un odore acutissimo di pane e mortadella all'imbrunire: questa la realtà del Woodstock all'italiana. E' evidente che il concerto rock in Italia nasca in maniera imitativa così come la musica e il pubblico imitano il modello americano e inglese. E' pure evidente che certi atteggiamenti di fratellanza devono qui fare i conti con altre tradizioni, una diversa educazione all'evento sociale. Nessuno sembra divertirsi nel Woodstock nostrano (a parte forse Eddy Ponti) proprio perché non si è capito bene cosa ci sia di divertente. Qualcuno va al concerto per sentire buona musica, qualcun altro per stare insieme e magari fumaj .,.:• "i: ,......... ,._=· ::: .. ~ .•. >·, ~ . ....: -:1 ·- ,.·..r,,,:;.. ': 34 re un po', qualcuno ancora per mettere in mostra un azzardato addobbo, qualcuno ancora per.cercare calore umano e nuove amicizie. Tutti son convinti che il loro tipo di approccio sia l'unico giusto e originale. Una volta di più si ripete la storia dell'americano a Roma solo che stavolta non si tratta più semplicemente di un ritmo diverso o di un modo di vestire tìbarazzino. C'è il problema di tenere insieme, divertendole se possibile, decine di migliaia di persone e l'unico spunto è appunto quello per « sentito dire » dei festival americani con più di cento anni di tradizione. La prima fase della storia della « festa » in Italia è piuttosto sgangherata e caratterizzata dal mito della pop-star. Di questo mito soffre il nostro pubblico allorché si rende conto che quelli non vogliono più venire a suonare per lui perché è troppo indisciplinato. Ma allora perché non trasferire la festa campestre da Woodstock al prato sottocasa? Perché non prendere coscienza dei veri elementi che possono rendere un pomeriggio e una nottata veramente memorabili fregandosene dei supergruppi? Parecchi esperimenti sono già stati fatti. Tra i più riusciti Piazza Navona, Licola e le feste da « ballo e sballo » di Re Nudo a Milano. Recentemente sta anche prendendo piede un tipo di festa senza musicisti in cui ognuno fa il suo numero. Guardiamo un attimo indietro alle nostre radici festaiole: maschi da una parte e femmine dall'altra e poi: « Balli? » « Sl grazie/no grazie ». Queste erano le nostre feste, situazioni spesso cariche di imbarazzo che per fortuna i nostri fratelli minori non hanno dovuto conoscere. Tutto il potere a loro quindi. Avanti fratellini, fateci divertire! Danilo Moroni

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