Muzak - anno III - n.12 - aprile 1976

può essere un fatto egualmente consumistico e alienante che scatenarsi per Ringo Starr o distruggere le poltrone dei teatri come ai tempi del primo rock di Bill Haley. Salvo che la tarantella offre l'alibi di essere « popolare », cioè naturale, ruspante e politicamente progressiva. Ma la tarantella di Licola non è la stessa cosa del ballo aggressivo, sensuale, rituale, tecnicamente perfetto della gente che davvero àalla la tarantella e che se ne serve come mezzo di comunicazione. E' solo un modo, vitalistico di sfogare energie e consumare musica, spettacolo. E infatti la tarantella che si consuma meglio è quella arrangiata secondo i canoni pop. La trasformazione della tarantella da ballo in spettacolo va nella direzione in cui, d'altra parte, stanno andando adesso molte feste popolari. Dove non era intervenuto il parroco a turistizzarle, ecco arrivare la regione con l'assessorato alla cultura o magari l'ARCI ad « animarle » dall'alto. Una cosa è fare la « Zeza » in campagna, di casa in casa, perché la gente ne ha bisogno; un'altra cosa è farla sul palcoscenico in piazza, tra un presentatore alla Corrado e un complessino beat. Tutta la festa, nel suo complesso, tende a diventare una cosa da guardare, anziché una cosa da fare. Certo, le feste sono sempre sta• te spettacolo; ma nel mondo popolare lo spettacolo non implica un artista e un pubblico, bensì una comunicazione multilaterale. La costruzione del palcoscenico rappresenta la trasformazione della festa contadina tradizionale e il suo adattamento ai canoni cittadini borghesi. Ma adesso assistiamo anche ad una ripresa delle presenze di base alle feste. I pellegrinaggi di Montevergine e di Vallepietra, la fe. sta dei serpenti di Cocullo, sono pieni non solo di contadini, ma di operai tornati dalle città. A Vallepietra i più consapevoli partecipanti alla festa erano un gruppo di operai della Snia di Rieti che erano stati messi in cassa integrazione e parlavano di sindacato con la stessa competenza e convinzione con cui parlavano dei miracoli della SS. Trinità. Perché succede questo fatto, che contraddice l'idea delle feste tradizionali come relitto in via di graduale sparizione? Evidentemente, i pellegrinaggi rispondono oggi ad esigenze nuove, attuali. Il ritorno degli operai emigrati significa allora un tentativo da parte loro di ritrovare la identità antica che la città, la fabbrica, il consumismo rischiano di cancellargli. Ancora una volta, cioè, la presenza popolare alla festa è un fatto di identificazione - ma anche di alienazione, perché non è certo dalla SS. Trinità, dalla Madonna di Montevergine o dai serpenti di Cocullo che gli operai immigrati troveranno la risposta alla loro esigenza di capire chi sono, che cosa sono diventati. E' chiaro dunque che non si tratta certo di trovare una valenza positiva nei pel30 legrinaggi ed auspicarne la continuazione. Fra l'altro, come ha ben dimostrato Annabella Rossi nel libro « Le feste dei poveri », in queste occasioni la gestione è tutt'altro che popolare: c'è molto ferrea la mano della chiesa, e somme ingenti di denaro passano dalle tasche dei pellegrini nei forzieri dei parroci e dei vescovi. Ma si tratta invece di capire quali motivi spingono contadini ed operai alla ricerca di un tempo diverso, di un tempo di rottura in cui riscattare con la sofferenza e il sacrificio il proprio diritto a godere, ad offrire una parte di sé per cercare di affermare la propria esistenza e il proprio diritto a ricomporre la propria identità smembrata. E vediamo allora che la « festa » popolare lascia il suo segno su momenti assai importanti della lotta di classe. Per esempio, l'ormai famosa « Tarantella dei baraccati » (sconciata dall'Altro Suono e consumata nelle feste militanti) è un aggiornamento, in una oc• cupazione, del canto rituale di pellegrinaggio (« non me ne vado se Maria non mi fa la grazia » diventa « non me ne vado se non mi danno la casa»). Nel pellegrinaggio si offre la propria sofferenza (la veglia) in cambio di un servizio (la grazia); se la «potenza» (Dio) non fa il suo dovere, la si prega e la si minaccia. Nell'occupazione la potenza è diventata il comune; la veglia si fa in piazza e invece della « grazia » si rivendica il diritto alla casa. Perché i baraccati hanno potuto trasformare in festa l'occupazione? Perché appunto vi si è stabilito un momento di connessione tra il tempo normale, vissuto nelle baracche, e la sua rottura con la lotta che non è l'esorcismo della vita quotidiana ma un tentativo di cambiarla. Lo stesso avviene, naturalmente, nelle occupazioni delle fabbriche, che sono piene di momenti di festa, di musica, di gioco: lo mostra il disco fatto da Cesare Bermani e Luisa Betri, sull'occupazione della Filati Lastex di Bergamo (edito dai Dischi del Sole). Allora vuol dire che l'occupazione della fabbrica, l'occupazione della casa, lo sciopero sono per la classe operaia urbana proprio quelle rotture del « tempo normale » in cui si reinventano lo spettacolo, lo stare insieme, la musica. Si reinventano non per divertirsi ma perché servono - e con l'occasione si riconquista anche il diritto a divertirsi. Ma poiché si tratta di classe operaia, adesso tutto questo non serve più ad esorcizzare la propria condizione normale, ma a conquistarne una nuova. La festa continua, ma con una coscienza diversa. Ne esce - ed è questa l'ultima considerazione che vorrei fare - che la festa popolare, sia contadina che operaia, non è un fatto del tempo libero. Può essere un tempo speciale, magari sacro, come nelle feste contadine; o può essere un tempo «conquistato», come nelle lotte urbane; ma non è m11i tempo regalato dal padrone per divertirsi e per dimenticare. Sandro Portelli

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