Folk Avantipopolo, facciamofesta La festa crea un tempo che è per definizione diverso da queHo del lavoro ma è nella sfera del lavoro che nascono i bisogni collettivi a cui si risponde con la festa. Anche la festa di Licola e la festa dell'Unità sono « tempi diversi » in cui si fanno cose che nella vita quotidiana non si ripeteranno più? Una cosa da tenere ben presente a proeosito delle feste popolari è che non rappresentano mai un semplice fatto di evasione, di divertimento puro, ma sono sempre una risposta ad esigenze precise, anche se spesso non dichiarate, della collettività che le vive. Perciò il termine stesso di festa, cosl come noi lo intendiamo, è applicato fuori luogo ad eventi collettivi in cui la dimensione ludica, se c'è, è strettamente intrecciata ad· altre dimensioni, talvolta anche opposte ad essa, di penitenza e di sacrificio. La festa crea un tempo che è per definizione diverso dal tempo normale del lavoro e della produzione, ma che a questo si rapporta perché è nella sfera del lavoro e della produzione che nascono i bisogni sociali a cui si risponde con la festa. Clara Gallini mostra nel suo libro sulle « feste lunghe » di Sardegna ( « Il Consumo del Sacro ») come queste novene in cui interi gruppi di centiniiia di famiglie trascorrono nove giorni accanto ad una chiesa di campagna contengano una componente « godereccia », in cui si mangia, si balla, si fa all'amore in modi che non sono possibili in tutto il resto dell'anno. Un'economia di povertà, in cui per esempio la carne si mangia solo in occasioni eccezionali, si concede un periodo eccezionale in cui si mangia carne tutti i giorni, a pranzo e a cena. Ma questa licenza viene pagata, riscattata, con un'ideologia di sacrificio: ben pochi infatti dichiarano di recarsi alla novena per divertirsi, anche se poi si divertono; la maggioranza ci va per sciogliere un voto, adempiere una promessa, offrire in qualche modo una parte di sé al santuario e giustificare cosl la componente « godereccia » della novena. D'altra parte, il sacrificio, la penitenza, la sofferenza stanno dentro tutti i momenti di festività religiosa (e feste veramente laiche ce ne sono molto poche). Al santuario della SS. Trinità di Vallepietra la gente arrivava a piedi da un'impossibile strada di montagna, e anche adesso che ci si può venire in macchina c'è chi viene a piedi lo stesso, come il gruppo di operai edili di Anticoli Corrado o il ragazzo diciassettenne di Avezzano che vi incontrai l'anno scorso. Al tempo stesso, tutti ritenevano perfettamente lecito cantare, suonare, mangiare e stare insieme. Fra l'altro, feste come questa, in cui convengono persone da molti paesi, rappresentano anche un fondamentale momento di comunicazione, di allargamento delle esperienze - e continuano ad avere questa funzione anche adesso che le automobili e la televisione hanno finalmente spezzato l'isolamento della vita paesana. Un esempio di come la fe28 sta sia vissuta in termini di scarico di tensioni sociali in formazione sta nel rituale della questua, che tutti più o meno conosciamo. In determinati periodi dell'anno - soprattutto a primavera, ma anche spesso per l'epifania, per S. Antonio, o in altre scadenze di metà inverno - gruppi di cantori e suonatori girano di casa in casa a cantare gli auguri e ricevere in cambio doni, sosoprattutto uova. Le origini del rituale sono precristiane; si tratta di una maniera di garantire la rinascita primaverile della vegetazione, la fertilità della terra, la fe. condità dei raccolti, esorcizzando con doni le forze negative identificate nell'inverno ed impersonate dai cantori questuanti (spesso queste forze negative assumono un'identità cristianizzata, e si chiamano le « anime purganti »: cioè quelle anime inquiete che si trovano nel purgatorio, e cioè né di qua né di là, e pertanto tornano ancora sulla terra a disturbare i viventi, e vanno quindi tenute buone). Ma c'è anche una componente più direttamente sociale. Infatti nelle società contadine in ' cui non si sono ancora delineati con chiarezza i rapporti di classe ma si viene già formando la distinzione tra abbienti e non abbienti, la condizione di chi ha viene vissuta come una colpa, come una rottura dello stato comune di povertà. Perciò gli abbienti (sarebbe a dire, i meno poveri in una società di poverissimi) riscattano questa loro colpa con offerte rituali di cibo in momenti particolari dell'anno. Questo, per esempio, è il meccanismo che regge riti come quelli della festa di Sant'Antonio in Abruzzo, che magari conosciamo solo per le versioni cabarettistiche della canzone su Sant' Antonio nel deserto. Naturalmente, in queste occasioni si fanno grandi banchetti e mangiate rispettabilissime: ma l'ideologia che c'è sotto non è né quella dell'allegria né quella dello « stare insieme ». E' quella del senso di colpa per una situazione di ingiustizia sociale. D'altra parte, la festa come temporanea sospensione delle ingiustizie è un fatto ben noto. Roberto Leydi racconta di un carnevale in un paese lombardo che si svolge come uno scontro fra i « brutti » e i « belli » - che sarebbero poi i poveri e i ricchi, come mostrano i rispettivi costumi. La cosa più significativa è che i « brutti » sono impersonati, nella festa, dai comunisti del paese, mentre i « belli » sono democristiani. Naturalmente la festa finisce con la vittoria dei brutti, e sta quindi a dimostrare la volontà popolare di cambiare uno stato ingiusto di cose. Ma sta anche a dimostrare che, almeno per il momento, questo cambiamento può avvenire solo nel tempo rituale della festa. Poi, tutto riprende come prima, con la ingiustizia esorcizzata per un altro anno. Perciò, come dice Alfonso Di Nola, storico delle religioni e studioso di antropologia religiosa, la festa popolare contadina contiene in sé tutte le ambiguità della cultura contadina. Essa è senz'altro un fatto di alienazione e di adattamento: è uno strumento di sopravvivenza in una situazione intollerabile di cui permette quindi la conservazione. Ma è anche un fatto di identificazione importante, che permette ai suoi protagonisti di riconoscersi e di riconoscere il dato di ingiustizia che è presente nella loro realtà. Quindi un « recupero » della festività popolare non può avvenire riproponendola nei termini tradizionali, ma solo con una rottura tra la sua componente di identificazione e quella di alienazione. Oggi invece siamo di fronte al recupero della festa in termini mistificanti di ideologia populista-partecipato-
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