Cuore di cane di Alberto Lattuada Bulgakov, da un romanzo del quale è tratto questo film, fa parte di quella opposizione cui, turale sovietica che nulla ha a che spartire con il filo-pinochetismo di Sacharov o l'amore per Armando Plebe di Solgenitsin: un 'opposizione di intelligenza contro la burocrazia, un moderatismo che facilmente si rivolta nel suo contrario. Più vicino cioè, a Majakovsky che, appunto, ai vari Gulag. Ed ha, rispetto a questi, un gusto antirealista (se per realismo si intende quello grigio del regime staliniano) che ne salva la satira a volte qualunquista. E sarebbe anche ridu11ivo (malintendendo il materialismo) riportare tutta l'opera di Bulgakov (e soprattu110 Cuore di cane e Il Maestro e Margherita) al puro dato metaforico-politico. Proprio perché l'antirealismo programmatico, e anche questo di sfida e opposizione, ha una grandezza letteraria che, per esempio, non ha il libello-testimonianza una giornata di Ivan Denissovic di Solgenitsin: e dalla le11era1ura la satira politica trova giustificazione e pienezza di sé. In questo senso, mi sembra, il film è un po' sopra la riga: riporta con un realismo esasperato il romanzo e gli costruisce intorno il vestito troppo stretto per Bulgakov della • ri• costruzione" storica. E' pur vero che già la trama da sola è in grado con il suo paradossalismo (la trasformazione di un cane in uomo) di scardinare un realismo di maniera: ma si crea in questo modo una sfasatura che rende indietro del romanzo solo il clima tetro della « costruzione del socialismo in un solo paese•· Nel complesso, però, è un film di Rrande dignità. Un elogio particolare a Cochi Ponzoni che riesce a rimanere misurato, senza farsi il verso come invece succede con frequenza allarmante e irritante al suo compagno di squadra, il mai troppo insultato Renato Pozzetto. Killer élite di Sam Pekinpah G.P. Quando un sabato ogni due si finiva a vedere 007, eroe dal muscolo affascinante e il cinismo vagamente idiota, un film come « Killer elite », in cui 1 Killer, per l'ppunto, sono un élite (ironici, beneducati, con le loro brave angoscie e la ripugnanza per il mondo cattivo che li paga per essere cattivi, li paga per tradire, li paga per uccidere e perfino per passare al nemico), sarebbe sembrato, più o meno, un capolavoro. Il protagonista, per esempio, invece di rimettersi dalla prolungata sbruciacchiatura dei testicoli con due aspirine, una doccia e una scopata, dopo una sparatoria si fa circa sei mesi di ospedale, con stampelle, rieducazione dell'arto e tutto. La mutua gliela paga una banda di professionisti istruita a proteggere capi di stato e personaggi in pericolo da bande di assassini altreltanto professionisti, al servizio della Cia. Sembra che il mondo sia una riserva di caccia per prezzolati. Ma tutto è estremamente, se non vero, verosimile: panico, tristezza e bestemmie non sono cancellati dall'uniforme rombare delle carabine, il sangue non è succo di pomodoro, il taglio delle sequenze abile e imprevisto. C'è la visione del mondo orientale (però almeno il Kung-fu po. leva risparmiarselo, anche se contrappuntalo di filosofia) contrapposta a quella occidentale, c'è il potere che non si divide in potere buono e potere cattivo, ma è potere e basta, c'è l'es1ranei1à dell'esecutore di massacri, come se anche fare l'eroe a pagamento fosse. di fatto, un lavoro alienato. li tutto riesce a essere commerciale senza perdere in « buona fattura», ma la moralina e l'angoscia mescolate al sangue e al coraggio sono ormai, anche loro, sequenze di repertorio. L.R. Quel • • pomer1gg10 di un giorno da cani di Sidney Lumet Un film, per essere bello, non deve necessariamente avere il sogge110 trailo dal Capitale e la regia dei disoccupa1' organizzati. E capila, con una frequenza tutt'altro che trascurabile, che gli americani, sia pure nella loro versione radicale, riescano a produrre film belli ancorché non direttamente politici. In questo film non c'è altro che un racconto tratto dalla 50 cronaca: il racconto di una rapina in banca sventata e dei contatti fra banditi (con ostaggi gli impiegati della banca) e polizia. In mezzo c•~ molto: il rapporto fra il bandito numero uno ~ i suoi amori (una moglie grassa e isterica con due figli e un omosessuale, legittimamente sposato, che vuole cambiare sesso), il rapporto fra il bandito e la folla di curiosi-simpatizzanti, fra il bandito e gli impiegati (anzi le impiegale) anch'essi simpatizzanti, e persino con una polizia (fino all'intervento carognesco - com'è naturale - dell'F.8.1.) anch'essa simpatizzante. Si crea, nell'ambito di un linguaggio filmico eccezionale (drammatico e comico, ironico e amaro, recitato e spontaneo), una sorta di ribaltamento che induce a parteggiare senza errori per il bandito (un bravissimo Al Pacino): e allora anche questo film apparentemente neutro si colora, assume i contorni netti dell'America disgregala ma anche capace di attimi di ribellione (la folla simpatizzante risponde con foga e entusiasmo allo slogan « Attica, Altica», città dove avvenne un celebre massacro, dopo una rivolta nelle carceri), in cui delinquenza e violenza sono un fallo quotidiano che passa anche attraverso la piccola-borghesia, in una fase storica in cui anche i miti, funzionali allo sviluppo del capitalismo americano, come quello del denaro, si rivoltano contro i meccanismi cinici che li hanno creati. G.P. Nashville regia di Robert Altmann Un carosello di vestiti caramellati, coccarde coi colori dell'Unione, sorrisi elettorali, larghi e soddisfatti. Una girandola di pacche sulle spalle. Un impasto sonoro di enfasi, banalità, canzonette, applausi e ancora canzonette. Chiave e continuità del tutto, un auto politico pubblicitaria, imbo1tita di slogan, da cui una voce americanissima lancia al popolo americano opinioni americane sull'America. E' la fiera dell'idiozia capillare, premeditala, come solo la middle class conservatrice del sud può produrre, ma è anche l'uso politico della lamentela, del « tutto va male, cinadino! •. non certo estraneo alla nostrana Maggioranza silenziosa. Impasto sonoro e contenuti politici trovano il loro momento di incontro in un grande concerto-comizio carico di blues, dei buoni sentimenti e di discorsi delle buone intenzioni, dove il candidato alla presidenza divide il palco infiocchettato con i santificati pop-symbol del momento. « Questa ~ Nashville •. dice Altmann, con una tristezza da crollo della grande illusione libertaria che lo fa diventare crudele nei particolari, cattivo con la folla di divi, aspiranti divi, spogliarelliste stonate e glorie nazionali con la voce nasale e la faccia da mucca. E' un agitarsi volgare e senza costrutto, dove gli ideali cantati sono uno svaccato ritorno alle gioie del focolare (« Non posso fuggire con te, amore mio, perché devo portare i miei bambini a pescare»). ma l'unico valore reale è la celebrità, la unica comunicazione la propaganda l'unico sistema la legge di mercato. Quasi una visione Orwelliana (pensiamo al terribile 1984 di George Orwell, incubo sulla prossima fase di capitalismo) dell'America completamente trasformata a misura di mass media. E finisce, questo film veramente bellissimo, pieno di facce perfettamente eloquenti, e gesti e sguardi calcolati come i versi di una poesia, con un omicidio rituale. in perfetto stile Dallas: ma questa volta non muoAl P1clno
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