Voce,e lotte Cantoanch'io ? S • t •' I, .USI. Dai balordi di periferia a Vincenzina, operaia di fabbrica, Enzo Iannacci, con la sua voce dissennata e la sua faccia dissennata, continua a cantare « la disperazione della pietà». Enzo Jannacci, un secolo fa. Sbaglia chi lo voglia considerare un cantore dialettale. Cantava (e ancora canta) in dialetto milanese, ma era già allora un milanese metropolitano e industriale che, oltre ad essere ricco di inflessioni e di apporti linguistici di altri dialetti (quelli meridionali, ad esempio) tendeva a diventare linguaggio proletario, mezzo di comunicazione di classe. La verifica la si dovrebbe cerUn operalo all'Alfa Romeo ;are oggi, nelle assemblee operaie delle piccole fabbriche, laddove si ritrovano, insieme, gli anziani operai della Brianza e i giovani operai di Cinisello e parlano in una li~ua commista, che non è l'italiano e nemmeno il milanese del Porta: è qualcosa di simile, magari, a certe invenzioni linguistiche di Testori, di Castellaneta, dello stesso Fò (autore di molti testi di Jannacci). E non ci sembra nemmeno giusto definire quello di J annacci un universo sottoproletario, disponibile, quindi, per sua natura, al bozzetto folkloristico e alla macchietta espressionista; un universo, come scrivevano tutti gli esperti di cose milanesi dieci anni fa, « popolato di magnaccia e di balordi, di prostitute e di ladri ». Era, certamente, anche questo, era - forse - soprattutto questo, ma non soltanto: tra i suoi balordi alcuni lavoravano sicuramente alla Breda o alla Fargas, altri facevano i sottolavori sottopagati nelle µiille pieghe della Milano dello sviluppo economico, prima, e della crisi, poi. Gli altri, ancora, appartenevano a quello che sciocchi cronisti di nera chiamano « il mondo del crimine», ma anche di questo mondo vivevano ai margini, costituivano la manovalanza umiliata e sconfitta. E nelle notti milanesi - che proprio nulla hanno di romantico (e quando fa caldo si impazzisce e quando fa freddo si muore sotto il cartone, sulle panchine di Parco Ravizza) - la violenza sottodelinquenziale dei piccoli ladri, dei piccoli magnaccia, dei piccoli rapinatori, possiamo pensare (J annacci, forse, pensa) che si incontrasse con la disperazione, la solitudine, l'angoscia degii immigrati giovani e di mezza età, senza famiglia e senza futuro; quelli delle carovane al mercato (una delle forme più pesanti di sfruttamento della forz11lavoro precaria) o, magari, dei turni di notte del lavoro stagionale ali'Alemagna. Jannacci, nelle sue canzoni di allora, non va oltre; si ferma al punto da cui Ivan Della Mea parte. Diverso è l'itinerario (e il patrimonio politico) di quest'ultimo, diversi i destinatari del suo discorso. Ma nemmeno Jannacci, in realtà, sta fermo. Fa il medico, per intanto; fa alcune cose divertenti e altre mediocri, e poi, più di recente, fonda una nuova etichetta discografica, con un ampio numero di musicisti, cantanti, amici, compagni. L'etichetta si chiama « Ultima spiagga »; ha prodotto, finora, tre dischi: uno che contiene le canzoni sull'omosessualità di Ivan Cattaneo; un altro, scritto, cantato e musicato colllettivamente («Disco' dell'angoscia »: un discorso su nascita, natura, religione, morte, demonismo, sopraffazione, violenza, guerra, distruzione) e un disco di Enzo Jannacci, appunto. Ci sono, in quest'ultimo, due canzoni tratte dalla colonna sonora di 40 « Romanzo popolare» (Vincenzina e la fabbrica) e di « Pasqualino Settebellezze » (Quelli che). Nel primo caso, la canzone (e i dialoghi dello stesso J annacci) è tra i pregi maggiori di un film anche divertente ma, in sostanza, mediocre; nel secondo caso, il film (pessimo) rischia di danneggiare una canzone (splendida)! «Quelli che » è un inno: è l'inno dell'imbecillità, ma è anche un poema satirico di rara violenza. Su una musica monocorde e un po' ossessiva (uno slow?) Jannacci canta (recita) un testo fatto interamente da un susseguirsi di frasi brevi e incompiute (« Quelli che credono che Gesù Bambino sia Babbo Natale da giovane / Quelli che la notte di Natale scappano con l'amante, dopo aver rubato il panettone ai bambini (intesi come figli) / Quelli che fanno l'amore in piedi, convinti di essere in un pied-à-terre / Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro / Quelli che non ci possono credere ancora che la terra è rotonda / Quelli che non vogliono tornare dalla Russia e continuano a fingersi dispersi / Quèlli che perdono la guerra per un pelo / Quelli che lo status quo che nella misura in cui, che nell'ottica / Quelli che ti vogliono portare a mangiare le rane / Quelli che quando perde l'Inter o il Milan dicono che è solo una partita di calcio, poi vanno a casa e picchiano i figli / Quelli che hanno cominciato a lavorare da piccoli, non hanno ancora finito e non sanno che cavolo fanno / Etc...). Non ci sembra, questa, la consueta ironia sul luogo comune, sul linguaggio quotidiano, sulla banalità; e perché la banalità che si deride non è solamente quella della più ottusa maggioranza silenziosa, ma è - a ben vedere - anche quella che rende così elevati i messaggi presidenziali e le allocuzioni di Zaccagnini, e perché, in parte almeno è la banalità che, infida, penetra nei nostri discorsi, nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nei nostri gesti. « Vincenzina e la fabbrica » ci sembra l'approdo ultimo della poetica di Jannacci: i suoi « por Crist » sono arrivati davanti alla fabbrica, alcuni fin dentro, in una Milano che è cambiata, è diventata più grande e più stretta; la gente non sta più negli schifosi prati di periferia, vicino a Rogoredo, perché al posto degli schifosi prati di periferia ci sono degli altri schifosi palazzoni di periferia o degli schifosi cantieri o degli schifosi stabilimenti; sempre di periferia. Enzo Jannacci è lì, con la sua voce dissennata e la sua faccia dissennata, che canta la « disperazione della pietà ». E fa, così, il suo dovere. Simone Dessl
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