Uno sta lì due ore a parlare di tante cose, di strumenti, di forme e via dicendo, quando ad un tratto arriva lei, la musica liberata, liberata dallo specialismo e dal giogo antico del concetto d'arte. Allora il critico che fa? Si vergogna, naturalmente, e le corre appresso: si spoglia e diventa l'anima, l'uomo nuovo, si taglia i capelli e dice: « E' fatta, viviamo! ». Insomma tanto rumore per nulla, tanti problemi e poi la chiave era lì a due passi, tutta tranquilla e con quella sua semplicità disarmante. Intendo la chiave per l'alternativa, per la comunione completa tra uomo e musica, tra l'uomo e la ricerca dei suoi equilibri superiori. Don Cherry questa chiave la porge già da tempo con una grande coerenza e continuità e tutto il discorso in definitiva nasce da lui, anzi dalle perplessità emerse con l'ascolto di « Brown rice » che è il suo ultimo disco. Con Don Cherry il misticismo si fa più traducibile, esce dall'ambito specifico del problema religioso negro americano e diventa interrazziale, internazionalista, fino a coinvolgere certi aspetti ed esigenze della nostra cultura giovanile. In questo senso « Brown rice » è un punto di arrivo ed è anche il momento che radicalizza una certa poetica mistico musicale a noi abbastanza vicina: il minimo di informazione musicale per il massimo di capacità comunicativa. La semplicità delle strutture ne è infatti l'aspetto più rilevante, gran parte dell'incisione è guidata da pochi riff del basso ripetuti ipnoticamente dall'inizio alla fi. ne del brano, le armonizzazioni sono poche e parziali e su questo tessuto si appoggiano gli interventi solistici della tromba di Don e del sax di Frank Lowe senza che questi determinino alcuno sviluppo delle situazioni o un cambiamento di qualsiasi genere. Più attiva Musicanalisi Libertànon é • • • 1mprovv1saz1one La musica, incurante della civiltà industriale, sembra voler rimanere nel mondo delle idee. Sul palco, dalle due alle dieci, in comunione mistica tra uomo e musica, Don Cherry, per esempio, liberando le note in Rice Brown, finge di liberare l'umanità è invece la volontà esplicitata di arrivare al suono totale, cioè alla sintesi di esperienze musicali culturalmente e geograficamente diverse e con esse alla sintesi « sublimata » dei vari coinvolgimenti che comportano: il risultato è un dondolio piacevole, sempre controllato e mai aggressivo, l'interpretazione quasi sommessa: il tamboura indiano pronuncia ipnoticamente il tono fisso e con i bongos assolve la duplice funzione di colore profondo dell'oriente e di elemento fondamentale nella struttura base, contemporaneamente il basso acustico od elettrico di Charlie Haden, emerge nella sua dimensione calda e corposa spesso con linee quasi funky o rockistiche, il piano elettrico entra con la attualità del suo timbro e la voce di Don Cherry è in priDon Cherry .35 mo piano sospirata e rituale, la batteria con Billy Higgins è fluida e swingante come nella migliore tradizione jazzistica. Non ultima la consistente dose di reverbero, abbastanza eccezionale per un jazzista, che svolge tutto il suono dandogli il clima definitivo, la profondità essenziale. Quindi se in un jazzman del calibro di Don Cherry l'invenzione allo strumento non ha peso strutturale né valore specifico vuol dire che questa musica è un'altra cosa: è la sua suggestione, la sua capacità a coinvolgerci in una esperienza complessiva umana e spirituale, è l'elemento catalizzatore, il medium di una situazione che vuole trasformare i rapporti interpersonali degli ascoltatori in amore gioia e festa. La musica risolve cosi il massimo della sua tensione idealistica positiva, si configura come momento diciamo etico utopistico, in quanto realizza adesso e qui tra noi una maniera di vita e di espressione che dovrebbe trovare il suo senso vero nel «dopo» (almeno come lo immagina Don Cherry), cioè in un contesto in cui i rapporti sociali non siano più quelli produttivi, in cui la musica sarebbe naturalmente il rito, la festa e non più l'arte specialistica, il contraltare raffinato alla divisione del lavoro. In quel contesto la suggestione, il coinvolgimento non mediato, il non specialismo potrebbero benissimo diventare la poetica naturale del far musica, dell'usarla per stare insieme e vivere. Proprio ora nascono le mie perplessità, la mia indecisione a spogliarmi o mettermi sulle difensive. L'alternativa è qui, allettante e con tanto di firma, la firma di un uomo con alle spalle importanti esperienze musicali ed umane. Ma per me ogni alternativa deve anche dimostrare la sua continuità con il reale, deve presentarsi come strumento espressivo di lotta non come l'effetto traumaturgico della purga o dell'erba medicinale; voglio dire che con Don Cherry tutto sembra già risolto, basta mettere su il disco che dalla prima battuta all'ultima si vive quell'atmosfera e quel mondo, dalla prima battuta all'ultima il suono è caldo ipnotico e «buono»: la liberazione è avvenuta già da prima e il musicista è pur sempre il fortunato detentore che me la propone. Questo significa che se io voglio vivere la sua proposta devo anche scordare la mia situazione reale, metterla da parte per un'ora per poi tornare immancabilmente a sbatterci il muso; la mancanza di questa continuità inserita nell'attuale contesto ritrasforma quindi la musica « etica » in un altro alibi del sistema: l'artista è ora lo specialista del-
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