Muzak - anno III - n.11 - marzo 1976

dono oggi sono le stesse che vengono chieste in tutto il resto dell'Italia. Le « statue di sale » della metafora di Compagnone sembrano più il capitolo conclusivo di una storia perdente, che non una prospettiva. Ma perché parlare di Napoli? In questa sede, ovviamente, vogliamo parlarne in termini culturali, e musicali in particolare, ma le cose non sono poi così dissociate. L'insieme delle proposte musicali della nuova Napoli è un vero e proprio fenomeno, e non un casuale succedersi di fatti. E questo si ricollega a quanto abbiamo detto altre volte sulla crisi (presunta) del pop. Crisi di gestione e non di bisogni che, anzi, sono aumentati. E in questo senso Napoli è una realtà quanto mai significativa. Non è certamente casuale che proprio da Napoli vengano le cose più interessanti di questi ultimi tempi. li punto di partenza è una realtà in movimento e poi, una situazione artistico-musicale, anch'essa in movimento. Basterebbe un rilievo quantitativo. I nomi sono tanti, più o meno credibili, più o meno stimolanti, ma è già significativo che siano così tanti: Nuova Compagnia di Canto Popolare, Toni Esposito, Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco, Edoardo Bennato, Nacchere Rosse, Napoli Centrale, Concetta Barra, Paranza di Somma Vesuviana, Alan Sorrenti e tanti altri. I generi si mescolano e non saremo certo noi a separarli. Si tratta di giovani, meno giovani e di anziani recuperati a nuovi stimoli. A questi vanno aggiunti i musicisti emigrati inaltri lidi e che in qualche modo continuano a richiamarsi alla realtà napoletana; i non napoletani che fanno la stessa cosa; i nuovi che sono in procinto di uscire, e chi più ne ha più ne metta. E questo per limitarci alla musica. Se parlassimo <li teatro, l'elenco sarebbe altrettanto fitto. Si può parlare di un « movimento » musicale napoletano? Certamente no, almeno per il momento. Ne mancano completamente i presupposti. Manca, soprattutto, la consapevolezza di esserlo, un qualsiasi tipo di coscienza unitaria. Gli stessi musicisti forse, se interpellati, rifiuterebbero un'impostazione globale. E' certo comunque che non hanno mai dimostrato l'esigenza di confrontarsi, di' dibattere sui temi di fondo. Da parte nostra, non c'è assolutamente l'intenzione di accomunare tutti in un unico e appros25 simativo calderone. Ci sono delle differenze fin troppo vistose. Ma sarebbe egualmente sbagliato disconoscere certe ragioni di fondo e, in sostanza, la natura di fenomeno che ha la nuova musica napoletana, tale comunque da stimolare un ampio dibattito. Ma cosa c'è dietro questi fatti musicali? Cosa li accomuna e cosa li fa divergere? E perché un fenomeno del genere cresce proprio a Napoli? Le risposte più facili sarebbero quelle dell'iconografia tradizionale. A Napoli, si potrebbe dire, la gente fa teatro per le strade, spontaneamente, tutti i giorni; canta dalla mattina alla sera, spinta da quell'irrefrenabile amore, così squisitamente osannato dai poeti della tradizione aurea partenopea, per il sole, il mare ed il vesuvio. Il napoletano, si potrebbe dire, deve in qualche modo esprimersi, per non morire. Ogni napoletano, per questo, è una maschera: è Pulcinella, è Totò oppure Eduardo. La sua vita è « arte » della sopravvivenza. Ma non è proprio questo l'atteggiamento che ha prodotto e perpetuato tanti equivoci? Napoli, a ben vedere, non è affatto un paradiso dell'arte. Al contrario, è una città particolarmente squassata dallo sfruttamento, e del tipo più bieco e brutale, dalla speculazione selvaggia, dal prepotere incontrollato, dall'acquiescenza delle istituzioni. Che i napoletani facciano musica e « rappresentino » se stessi continuamente, più di quanto avvenga in altri luoghi, è vero. Ma non è un fatto di passionalità, di creatività biologica, di magie di luoghi e panorami. La disponibilità all'esprimersi va spiegata con ragioni storiche e sociali. Napoli ha una sua specificità ma è una questione politica e antropologica, non climatica. Napoli, « città di mare con abitanti », porto di mare aperto agli scambi e alle influenze straniere, con la sovrapposizione di reg1m1 e culture diverse (saraceni, borboni, fascisti ecc...) e quindi con l'attitudine al sincretismo, all'appropriazione di linguaggi ed espressioni estranei. La ricca storia musicale di Napoli: le feste di piazza, il cafè chantant, la sceneggiatta, le feste religiose, il pazzariello, le canzoni dell'età d'oro, i canti popolari. La gestualità della vita quotidiana (quella che Totò ha paradossalmente incarnato); la totalità complessiva del dialetto, la sua vivezza come strumento di interpretazione della realtà. Tutti questi fatti raramente ebbero una matrice e una funzionalità che non fossero popolaresche. Persino le più celebri canzoni classiche napoletane, per lo più composte da compositori colti, erano destinate ad essere fruite dalla massa, o meglio dalla « plebe ». indistinta e fittiziamente interclassista. L'evoluzione e la sopravvivenza di queste forme pseudo-artistiche, sono strettamente legate alla storia della gestione del potere: gli atteggiamenti feudalistici dei governanti, il lassismo, lo opportunismo, il mancato intervento delle istituzioni, la creazione di strutture sociali precarie ed instabili, la strumentalizzazione del sottoproletariato, il mantenimento di strutture produttive arcaiche ecc... Tutto ha concorso a lasciare Napoli nell'arretratezza provinciale corretta solo da un cosmopolitismo di stampo aristocratico, nell'ignoranza, nell'isolamento culturale. In reazione, però, è cresciuto e si è sviluppato anche un forte senso della collettività, un comunitarismo istintivo e multiforme, forse preludio alla nuova coscienza di classe di oggi. La musica in questo contesto, così come tutti gli altri elementi « caratteriali » del- ➔

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==