Abbeccedario Bellaper l'anima Contro la bellezza di classe gli oppressi si devono ribellare, anche in nome della loro bruttezza. Ma è lecito dire che la bellezza è brutta? « Esse erano delle giovani donne nelle quali la giovinezza non era semplicemente combattuta dall'appressarsi della vecchiaia: la forma del loro corpo non era attaccata soltanto dall 'invasione del grasso o, al contrario, dalla sua dissecazione, e la levigatezza della loro pelle non subiva solamente la dilatazione dei suoi pori, la secrezione delle sue ghiandole, l'approfondirsi delle sue rughe; la loro giovinezza aveva altri nemici oltre a quelli naturali, oltre a quelli che possono apparire non più rivoltanti della maturazione dei semi e delle trasformazioni delle stagioni, e che è possibile tenere in scacco per lungo tempo. Delle donne come Berthe, come Catherine non potevano combattere quella battaglia, e la loro giovinezza non poteva essere protetta, preservata. Non avevano iempo per difendere il loro corpo, la loro pelle, il loro viso: esse si dovevano occupare di difese, di lotte più urgenti di quel privilegiato inseguimento della giovinezza, della bellezza. Non meno della felicità, la bellezza abbisogna di tranquillità, di pace. E loro avevano rinunciato ad essere belle perché vivevano nel mondo in cui i corpi non sono uguali tra di loro e non sono solamente soggetti alla differenza delle probabilità di fronte alla morte, alle malattie, alle epidemie, agli accidenti improvvisi della sorte, ma anche alla diseguaglianza delle premure, dell'attenzione, dell'amore: nel mondo in cui alla maggior parte delle donne non è concessa altra bellezza se non quella sua labile parvenza che, talora con pietà, talaltra con disprezzo, è chiamata la bellezza dell'asino. E' un mondo in cui si muovono, in regioni riservate, donne fin quasi troppo belle che hanno la fortuna, il tempo di essere attente al loro corpo, di far riposare il loro volto, di massaggiare il loro ventre, di correre, di camminare sulla riva del mare. Quelle donne sembrano incorruttibili come delle statue, fatte d'una carne dal tessuto e dalla levigatezza che fanno pensare più al1'avorio, alla pietra che alla carne mal protetta delle donne sfinite dai bucati sotto le tettoie dei lavatoi, dalle interminabili soste in piedi dietro alle macchine, dalle ingrate gravidanze di figli che non volevano». Queste cose Paul Nizan le scriveva nel 1935 nel romanzo « Il cavallo di Troia »: le riporto per esteso perché mi sembrano molto belle e, in più, ricche di spunti e di intuizioni. E' un discorso sulla bellezza quello di Nizan che può essere interamente condiviso, soprattutto dopo che il movimento femminista in tutto il mondo ha fatto di esso uno dei terreni principali della propria battaglia contro l'oppressione di una società che è capitalistica e maschilista insieme. 16 Cenerentola: una prostituta? « Il pane e le rose » in un articolo di tre anni fa (che andrebbe per intero ripubblicato) scriveva: « Cenerentola non esiste. Anche la bellezza è di classe, in definitiva, e anche la bellezza ha un uso politico (imporre modelli borghesi: una faccenda culturale). Ha le sue radici nell'alimentazione, nel modo di vivere. Patate e fabbrica distruggono un bel corpo. Poi c'è l'industria. Essere belle costa. Colori di pesca. Ciglia di visone. Capelli di seta. Denti di porcellana. La bellezza è un valore di scambio. Cenerentola, in una fiabesca metafora di prostituzione, ottiene denaro e potenza (cioè il principe) per la sua bellezza. E chi ha denaro senza bellezza, se la compra. (...) La bellezza del bel viso di una bella ragazza non deve essere istericamente negata. Non è questo il problema. Si può provarne piacere, ma in una dimensione umana che lasci spazio a rughe, fatica e malattia, a tutte le trasformazioni del tessuto umano nel tempo. Fissare un'immagine irripetibile di benessere e fortuna estetica, è un'operazione autoritaria verso le migliaia e migliaia di tozze pallide stanche donne sfruttate del mondo ». Fin qui tutto bene; dove il discorso de « il pane e le rose » si impantana, ripetendo a mio avviso, frasi e concetti ormai consunti (e non diversamente fa la gran parte dei gruppi femministi) e, soprattutto, superflui, è quando vuole farsi propositivo, vuol diventare «programma di lott». La devolezza su questo punto è, a mio parere, conseguenza di un'analisi estremizzata fino alla superficialità e - oso dirlo - al qualunquismo; sempre in quell'articolo si legge, ad esempio, la seguente frase: « Ogni società ha elevato un ideale di bellezza al di sopra di tutti gli altri. L'ideale è, per definizione, modello di qualità. Taglia fuori la maggioranza. La bellezza come valore assoluto in, fatti non esiste. E' un sistema di modelli, una costruzione, una truffa. Nel Rinascimento una Lolita evanescente e pallida, piccolo naso, piccoli seni e grandi occhi stupiti, l'avrebbero nascosta in cantina, peché rachitica e deprimente ». Tutto ciò ci sembra fuorviante, o profondamente ingenuo. L'intento pare, infatti, lodevole: dimostrare che la bellezza è un'invenzione del capitalismo (e di tutte le classi dominanti) e che i brutti sono gli oppressi che possono negare la propria bruttezza, unirsi, rovesciare il capitalismo (la classe dominante) e imporre un nuovo criterio estetico, un nuovo canone di bellezza: la bruttezza, in questo caso. Quando si parla della relatività dell'ideale di bellezza (della sua diversità nei secoli, nelle razze, nei regimi economici e sociali) si
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