Muzak - anno III - n.10 - febbraio 1976

Autocoscienza Il tanfo dellagelosia Che sia gelosia o insicurezza, invidia, complesso di castrazione o soltanto paura, quando sto con lui viene fuori il peggio di me. « Non è lui che mi appartiene, non è lui, è il rapporto. Mi appartiene il rapporto, il rapporto fra noi ». E' mezz'ora che me la ripeto questa cantilena. Del resto ci credo. L'ho detto io, addirittura, l'ho detto con Francesca al piccolo gruppo, quando parlavo di questo nodo che mi piglia quando G. abbraccia qualcuno, uomo, donna, bambino, perfino le sedie. Mi piglia quando gli piace troppo un film, quando si interessa troppo del Portogallo, quando guarda Agostina Belli sdraiata sull'Espresso. Non so che farci. Anche adesso: eravamo contenti. Lui mi dava la mano,perché lo sa che per me entrare a una riunione senza tenere qualcuno è come scendere da una scala a chiocciola senza ringhiere. La gente mi dà il senso del vuoto. Lui mi tiene e poi entriamo. Tiro il fiato, ma lui comincia salutare tutti (cos'avrà da salutare?), sorride e dice scemenze. Io mi sento cancellare. Se gli vado dietro, lo notano tutti (cose tipo: « Ma quella è come l'edera »). Provo a guardare qualcosa, ho un paio di braccia di troppo: non so che cosa guardare così guardo il muro, ma sul muro non c'è niente e allora tutti capiranno che guardo il muro per darmi una specie di aria indifferente. Non guardo più il muro. A G. i capannelli gli si formano intorno come per naturale condensazione dell'aria, lui cammina e la gente gli si aggruma addosso. Se mi avvicino io mi viene il p~nico della terza fila, sono un'escrescenza esterna, un grosso brufolo, una verruca da capannello. Se mi seggo la sedia scricchiolerà e tutti si gireranno. « Questa non è gelosia, è insicurezza», anche questo è vero, ma Patrizia che arriva sola, col naso rosso perché lei ha il motorino (tratta le strade come un salottino privato, non ha paura di niente), si leva la cuffia, parla forte, si sbraccia, punta dritta verso il capannello e il capannello si schiude, come una bestia gentile, apre le fauci e la inghiotte (ma io esisto? Patrizia mi saluta solo quando non c'è umanità maschile, nemmeno al telefono). Se le vado dietro sembrerò il canotto dietro alla nave. Rimango qui e non sono neppure del tutto sicura di avere i piedi per terra. Mi sento appesa, perché se il capannello è reale sono finta io, se lui è concreto e io sono evanescente. Mentre la pietà per me stessa sta incominciando a far lievitare le mie pene verso le soddisfazioni spirituali del dolore, Patrizia e G. si staccano dal gruppo e a me viene da piangere ( « Reazione infantile » direbbero al piccolo gruppo, « che abbia una genialità ritardata?»). Primo: sono alti quasi uguali, anche se Patrizia è più piccola di me. Secondo: G. non fa la faccia tenera e annoiata (punto più alto della gamma di espressioni riservate alle nostre solitudini di coppia) ma quella intelligente e cor diale da amicizia virile, la sua faccia pubblica. Terzo: Patrizia lo interrompe, Patrizia alza la voce, Patrizia mi vede, sorride e ha uno sguardo da Lady Chatterly dell'analisi politica, quelle cose che io non so fare. Con voce roca e occhiate suadenti si esibisce in alcune previsioni sul rimpasto governativo. La civetteria marxista leninista è imbattibile, perché ti permette di giocare su due fronti. Occhi di femmina e testa d'uomo. Alcova e barricata. La odio. No, non la odio. Odio lui. Com'era? Non è lui che.mi appartiene, è il nostro rapporto. Infatti non odio lui, odio il nostro rapporto. Vorrei che avesse una faccia per riuscire a odiarlo meglio, è mieloso, burocratico, quotidiano, vuoto, ricco di sospiri e di rimproveri, povero di contenuti. Flaccido. Se gli parlassi io del monocolore, sbufferebbe. Un interlocutore non è quella cosa graziosa che ti porti a letto. Che l'alcova sia la negazione del-

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