Muzak - anno III - n.10 - febbraio 1976

Cinema FrauMarlene di Robert Enrico La pignola strage di un uomo solo, un tranquillo borghese mediocremente democratico (quel poco che basta per soffrire sotto il camicie bianco quando i nazisti strappano le orecchie ai suoi ricoverati nel letto d'ospedale), improvvisamente sanguinario e antifascista dopo che le truppe di occupazione (Parigi, seconda guerra mondiale) gli hanno incendiato la moglie e sparato la figlia. E' una metodica vendetta che corre, dall'inizio alla fine, sui binari di una ossessione da padre di famiglia stuprato negli affetti, a ogni fa. scista (sono una decina, tedeschi, beceri e intrappolati nella casa di campagna di lui) ammazzato a pallettoni dal suo vecchio fucile che faceva ragnatele in cantina infrollito da tanti pacifici anni di borghesia, corrisponde, in ritmica sequenza, un flash-back sulle gioie domestiche, una inquadratura romantica, il patetico spezzone di un filmetto girato al mare alla bella moglie con la cinepresa e •riproiettato dai nazisti, sghignazzanti occupatori della casa di campagna. I cattivi muoiono, l'eroe della famiglia infranta e il pallettone implacabile, no. La struttura è quella, ormai sperimentata, del Cane di paglia: unità di tempo e di luogo, immedesimazione del pubblico nella logica della vendetta fino alla catarsi finale, riscatto momentaneo della società degli spettatori perché, per dio, la giustizia trionfa. Ma è una giustizia da cittadino che si fa giustizia da sé. Anche se i cattivi sono, in questo caso non sottoproletari irlandesi alcoolizzati, ma nazisti con tanto di strage degli innocenti (decimazione della popolazione civile) e la solita bionda sadica marzialità esse esse. Chi ravvisa in questa legittimazione politica della violenza solitaria un motivo per trovare Frau Marlene film più • di sinistra » del precedente, si sbaglia. E' sempre violenza privata, anche se il casus belli è più tragico, e la meccanica si svela quando l'intraprendente vedovo rifiuta di unirsi ai partigiani, per poter ammazzare da solo tutti i nazisti. Indiscussa la qualità delle riprese e la consumata abilità degli attori PhilÌppe Noiret e Romy Schneider, ma, a questo punto, chi se ne frega? L.R. Amoree guerra di Woody Allen Nella profonda Russia persa di steppe e carica di inverni Woody Allen, americano intelligente (ma sarebbe meglio dire intelligente anche se americano), esibisce al suo pubblico nazionale, masticatore di cultura sintetizzata e surgelata, un simpatico pastiche di scuole letterarie. L'impianto glielo fornisce Tolstoy con Guerra e pace, mostro sacro della grande letteratura, che ha portato ai fasti della tradizione culturale nomi e patronimi, Natscie, Boris e Sergiei, Samovar, slitte e semplici contadini amanti della patria. Woody ne usa a quintali, dopo averli ridotti a puro ingrediente, ottenendo il divertimento e la demistificazione dal sovraccarico (metodo sicuro), oppure dal solito trucco della estrazione: una Natscia--che racconta « credo di voler bene a Boris, però non gli voglio bene, cioè non in quel modo, gli voglio bene ma in un altro modo», staccata dal contesto di vivisezione della psicologia femminile che è di Guerra e pace, diventa, inevitabilmente, la lagna, il nonsenso di un discorso fra ragazzine elevato all'ennesima potenza. E fa ridere. Come fa ridere la girandola di battute casuali, il banale continuamente mescolato all'eroico (Boris, Mugik pavido che inciampa nel fucile, risponde alla morte che gli promette di tornare a prenderlo « Non si disturbi»), il linguaggio superastratto degli intellettuali da cattiva metafisica condensato in dialoghi fissi, le invettive compiaciute contro il male di vivere tipiche dell'ebreo americano, occhialuto e infelice in amore. E' una specie di viaggio nei « sogni » della cultura, dove non si salva Tolstoy, ma neanche il mistico Dostoievsky, giù giù fino al mortalismo grigio (fiordo) di certo Bergmann. Il tutto, però, non diventa mai parodia, Stech, volgarizzazione, come nei lavori di quell'insulto buon gusto che porta il nome di Mel Brooks. Le tecniche sono quelle collaudatissime di Buster Keaton e Groucho Marx, nel movimento, e, per il dialogo, c'è qualcosa che ricorda l'intelligentissima cultura contro la cultura dell'Umberto Eco di Diario minimo. L.R. Amore e guerra Marlowe il poliziotto privato di Dick Richards Marlowe è l'investigatore privato dei libri di Raymond Chandler, prodotti di rilievo tutt'altro che misero· nella letteratura poliziesca. In questo film lettura cinematografica fedelissima del romanzo Addio mia amata, Marlowe (Robert Mitchum) non compie imprese dissimili da quelle solite e conosciute: prende tante botte in testa, seduce una donna bellissima e prov0cante (Charlotte Rampling) risolve brillantemente il caso affidatogli e infine, fatti i conti, non intasca nemmeno una lira. Ma al di là della storia (abbastanza risaputa) il film riesce a essere un buon prodotto. Richards è il regista di un piccolo capolavoro del cinema western, Sangue sudore e polvere da sparo, ingiustamente passato in sordina sui nostri schermi qualche anno fa. E come in quel western egli riusciva a riprodurre e nobilitare (con una fotografia eccezionale) gli stilemi del western, in Marlowe ri-

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