35 neri. E queste contraddizioni non riguardavano specificamente i jazzisti ma erano, come abbiamo già detto, il riflesso della situazione generale dei neri in America. Di volta in volta il jazz è stato fatto dai neri per i neri, dai neri per i 'bianchi, e addirittura dai bianchi per i bianchi (ma, ovviamente, mai dai bianchi per i neri). Ognuno di questi casi corrisponde ad una diversa caratterizzazione sociologica del fenomeno che, complessivamente non può essere definito popolare e tantomeno élitario; ambedue le co~e, piuttosto, in diverse modalità. La musica di Charlie Parker, ad esempio, il personaggio-chiave della svolta del jazz moderno. Parker veniva da una realtà sottoproletaria (il ghetto nero di Kansas City) e la sua musica non poteva non riflettere questa condizione. Ma allo stesso tempo nelle sue improvvisazioni possiamo scorgere le tracce della cultura europea. Dire che il jazz è arte popolare significa evidenziarne i valori, le matrici, non necessariamente la funzione. sociale che spesso è stata legata a fattori di commercialità oppure ad un assurdo sociologico: essere arte popolare per pochi. Il jazz rimane sospeso tra popolarità e isolamento, tra musica leggera e musica colta, tra spontaneismo e intellettualismo e infine tra universo di valori afro-americani e strutture sociali· bianche, capitalistiche e razziste. Gli anni '60 hanno in parte cambiato questo quadro generale. Da un lato sono venuti fuori dei musicisti afroamericani finalmente consapevoli della loro storia, e quindi delle loro contraddizioni. Questi musicisti hanno radicalizzato il discorso musicale, così come anche il referente sociale, cercando di produrre musica sfrondata dall'equivoco di fondo. Ne è un segno lo stesso rifiuto del nome « jazz » a cui molti musicisti preferiscono una terminologia diversa: « musica creativa », « new thing », « black music » ecc... D'altro canto, in senso opposto, il linguaggio jazzistico si è aperto, esteso, ha creato scuole diverse e formule nuove. E' cresciuto un jazz europeo che indica una via . autonoma, non equivoca, per i musicisti bianchi (autonomi nel momento in cui affondano le loro radici in realtà autentiche e non imi-· tative). Ma ambiguità e contraddizioni permangono (anche negli stessi musicisti d'avanguardia). E. non se ne esce con i facili schematismi. Non basta dire che Archie Shepp è di sinistra e Dave Brubeck di destra. Il problema, casomai, è capirlo musicalmente, cosa che per la nostra tradizionale educazione estetica appare un ostacolo quasi insormontabile. Una prima distinzione va fatta tra il jazz di routine, sterile, ripetitivo e quello creativo, rinnovatore, stimolante. Quest'ultimo è quello che nell'arco di tutta la sua storia è stato portatore di un'estetica dalle implicazioni rivoluzionarie. Un'estetica, cioè, che si autodefinisce in continue mutazioni, che si rigenera e si rinnova sulla scia dei cambiamenti sociali. Un'estetica che porta ad un linguaggio prospettico, profetico, rivelatore, aggressivo e dialettico. E' per queste qualità che il jazz ha colmato il vuoto abissale che la tradizione occidentale ha posto tra la musica leggera e quella dotta, e anche tra la musica delle classi popolari e quella istituzionale. Un ruolo, quindi, che per definizione è contraddittorio e polemico. Stabilire che il jazz (al di là della routine e del clichè) è sempre inventivo e mai mediocre può essere un punto di partenza, non una conclusione. Il problema, come al solito, è sui significati. Gino Castaldo
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