Muzak - anno III - n.10 - febbraio 1976

Storiadel iazz Il rosso e il nero Charlle Parker Jazz, oggi. Se ne parla sempre di più. Un crescente in• teresse che sta provocando, però, la pericolosa tendenza a credere che il jazz sia una musica privilegiata e miracolosa, immune da ogni male. Una specie di « pietra fi. losofale », insomma, un toccasana quanto mai opportuno e gradito in una situazione musicale in cui nessuno riesce veramente ad avere le idee chiare. Si tende, cioè, in un momento di crescente politicizzazione del fenomeno musicale, ad « usare » il jazz come jolly culturale, come alibi, come catalizzatore di sicuro effetto; in sintesi, come alternativa all'imbarazzo che il pop suscita oggi in chi volesse gestire la musica come incontro di massa politicamente qualificante. Perché? I motivi di fondo sono stati ripetuti più vo1te. Il pop, inteso come fenomeno totalizzante e complessivo, dopo la « grande illusione » dei 60, stenta a farsi voce portante dei nuovi bisogni culturali. E allora si ricorre al jazz, e fin qui va tutto bene. Il jazz, si sa, è musica creativa, stimolante, progressiva, dalle grandi tradizioni popolari. Siamo tutti d'accordo. Ma « come» e« quando»? In realtà, gli errori e le in• decisioni sulle « modalità d'uso » del jazz rivelano una incomprensione di fondo, e più alla lontana l'incapacità endemica della sinistra italiana a gestire la cultura di massa. Bisognerebbe piuttosto cominciare a porsi delle domande. Come rapportare a noi la esperienza culturale rappresentata dal jazz? Come intenderne il rispecchiamento nel pubblico? Quali strumenti critici adop·erare? Cosa si deve scegliere e proporre? In sintesi: come si gestisce il jazz al di là della semplice strumentalizzazione? Generalmente si elimina questa problematica con 34 due atteggiamenti diversi. Il primo è l'incondizionato rifluire verso il jazz, giustificato da una sua presunta superiorità oggettiva (che va invece verificata e confrontata). Il secondo è lo schematismo discriminante e settario, che, per definizione, poco si adatta a questa musica. Ci si appella, cioè, alle matrici afro-àmericane, ai valori del blues, alla negritudine ecc..., per discriminare il jazz valido da quello poco valido. E sono discriminanti oggettivamente esistenti, ma che schematizzate oltre il lecito rischiano di essere vistosamente contraddette da una analisi appena meno superficiale. Anche per il jazz, evidentemente, si ripetono antichi errori. Storicamente il jazz non è stato sempre e comunque creativo, stimolante, progressivo ecc... Tutt'altro. Ha rappresentato cose diverse in diversi momenti. Vi si sono rispecchiati diversi tipi di pubblico (spesso socialmente opposti e antagonisti) e in diversi modi. Ha espresso diversi modelli di identificazione; una molteplicità di formule in cui spesso coesistono reazione e rivoluzione. Sostanzialmente questo è da attribuire al fatto che il jazz è nato, e vive tuttora, su una continua conflittualità che ne ha interamente condizionato l'evoluzione: essere un'arte essenzialmente e profondamente nera, ma sviluppata in una società . politicamente e socialmente egemonizzata dai bianchi. In questo senso il jazz è un'arte profondamente contraddittoria e per certi versi anche ambigua. La conflittualità è tra due opposte tendenze antropologiche, ambedue radicate nel mondo afro-americano: acculturazione (e quindi integraziore, accettazione, nonviolenza, ecc...) e disacculturazione (e quindi isolamento, autonomia, rifiuto, violenza politica ecc...). Il jazz, storicamente, rimane sospeso tra queste due coordinate. Resta un'arte irrisolta e irrisolvibile. Ma è proprio questa la sua principale ricchezza, la sua dia- . lettica interna, la sua tensione dinamica Questa dialettica è la base della vitalità innovativa del jazz, della sua « universalizzazione » e allo stesso tempo ne costituisce il limite. Il blues, a differenza del jazz, era suonato da neri per il popolo nero (fu solo con Bessie Smith che i bianchi cominciarono ad ascoltarlo). Il jazz invece, con !'-acquisizionedella musica europea, nacque immediatamente come ibrido culturale, come espressione delle masse nere combattute tra diverse spinte sociali. Fu per questo che i bianchi poterono impadronirsi del jazz, acquisire questa nuova musica, a vari livelli; come ricezione, come sfruttamento commerciale, spesso come produttori essi stessi. Per un Armstrong ci fu un Bix Beiderbecke, per un Duke Ellington ci fu un Gershwin, per un Count Basie ci fu un Benny Goodman, per un Miles Davis ci fu un Chet Baker e così via. Sono paragoni che oggi faranno sorridere ma che riportatt nella loro esatta collocazione cronologica rivelano cose del massimo interesse. Che la società bianca e razzista privilegiava i musicisti bianchi, anche se erano sfacciatamente a rimorchio dei musicisti afro-americani, per annullare il complesso d'inferiorità e di colpa nei confronti del nero. Ma rivelano anche gli stessi jazzisti neri non erano alieni da pesanti contraddizioni. Armstrong che si prestava a fare il « re degli zulù » vestito con una pelle di leopardo, perpetuando il mito del selvaggio « buono e innocuo ». Ellington che suonava alla Casa Bianca ecc... Ma allo stesso tempo questi stessi musicisti contribuivano a far crescere e maturare la nuova coscienza dei

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==